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Castel del Monte ai primi del Novecento

Castel del Monte

presso Andria

di mons. Emanuele Merra


XVII
Castel del Monte e gli Ungheri

Era la notte del 18 settembre 1345, ed il giovane Andrea d’Ungheria, re di Napoli, veniva nel Convento di S Pietro di Morrone in Aversa crudelmente strangolato e gettato da una finestra, per opera, come corse fama, di sua moglie la regina Giovanna! (1). La nipote di Roberto d’Angiò corse a chiudersi nel Castelnuovo, e per allontanare da sé un tale infame sospetto, ordinò al conte Ugo del Balzo d’investigare gli autori dell’assassinio del re, con facoltà di severamente punire i colpevoli. Intanto, essendo giunta l’infausta notizia a papa Clemente VI, costui con Bolla del 1° febbraio 1346, datata da Avignone, scomunicò, interdisse, e dichiarò infami, ribelli e proscritti tutti i colpevoli; indi incaricò Bertrando del Balzo, conte di Andria e di Montescaglioso, nella sua qualità di gran giustiziere del regno, ad investigare sull’assassinio (2). Il conte Novello, come lo chiama il Villani, avendo posto alla tortura Raimondo di Catania, maggiordomo della casa reale, come reo della morte di Andrea, costui confessò i complici. Per cui Bertrando dichiarò innocente la nipote, ed il 7 ottobre 1346 fece impiccare, come autori dell’orribile misfatto, Gazzo de Dinisiaco conte di Terlizzi e maresciallo del regno, Roberto de Cabanni conte di Eboli e gran maggiordomo, Raimondo di Catania milite e maggiordomo della real casa, Niccolò di Milizzano ostiario di casa reale, Sancia de Cabanni, contessa di Morcone, Giovanni e Rostagno di Lagonessa, Corrado Ruffo di Catanzaro, ciamberlano di Giovanna, e Corrado Umfredo di Montefuscolo (3). Se non che Carlo d’Artois, gran camerario del regno e conte di Sant’Agata dei Goti, e Bertrando suo figlio, che si disse amante di Giovanna ed afferrò il povero Andrea pei capelli, fuggirono e si ricoverarono nelle terre di Caterina di Valois, imperatrice di Costantinopoli e di Ludovico suo figliuolo. Di là si fortificarono nella loro terra di Sant’Agata dei Goti; ma l’imperatrice, entrata con inganni nel Castello, fece dall’esercito, che aveva condotto con se occupare la città, e s’impadronì di Carlo che era gravemente infermo, e di Bertrando, e li costrinse a rivelare il luogo dove avevano nascosto il loro ricchissimo tesoro (4). Bertrando del Balzo, saputo che i due d’Artois erano tenuti prigionieri dall’imperatrice, le spedì suoi nunzi, perché a lui li trasmettesse; ma Caterina licenziando i messi del gran giustiziere, superbamente rispose che avrebbe essa fatta giustizia se li trovasse colpevoli. Alla fine Carlo, secondo il Da Gravina, morì di gotta e di dolore; secondo il cronista estense, egli ed il figlio sarebbero morti avvelenati (5). Filippa di Catania, che ebbe gran parte nella uccisione del re Andrea, morì nelle carceri della Vicaria (6), ed il milite Riccardo Grillo di Salerno, si salvò con la fuga, ma gli vennero confiscati i feudi e tutti i beni (7).

Intanto il conte di Andria avendo compreso che l’animo del re d’Ungheria, a cui l’istessa regina aveva mandata l’infausta novella, era di vendicarsi della morte di suo fratello, ratificò il matrimonio di Giovanna con Luigi d’Angiò, principe di Taranto, e verisimilmente nei primi mesi del 1348 dette per moglie al suo figliuolo Francesco, giovanissimo e bello della persona, Margherita d’Angiò, vedova di Odoardo di Scozia, senza il consentimento dei fratelli di lei Luigi, Roberto e Filippo; i quali non pertanto concedevano di poi allo eminente giovane Francesco del Balzo, duca di Andria, i dritti delle terre di Maratea e di Scal[e]a in contemplazione del matrimonio celebrato tra costui e la loro carissima sorella Margherita di Taranto (8). Ai 15 gennaio del medesimo anno, per timore degli Ungheri, la regina prese la fuga, e ricoverò in Avignone presso il papa; mentre re Ludovico d’Ungheria, fratello di Andrea, spirante vendetta e sitibondo di sangue, alla testa di 3.000 Ungheri veniva in Napoli per la via degli Abruzzi. Uno stendardo nero, su cui era dipinto un re strangolato, gli sventolava terribilmente dinanzi, in quella che egli guardando con grandissima severità il popolo, che era venuto per salutarlo, entrava in Napoli con l’elmo in testa, e se ne andava diritto al Castelnuovo, il di cui castellano gli aveva già consegnato le chiavi. Non appena gli Ungheri entrarono in quella città, posero a sacco le case dei reali, e decapitarono il duca di Durazzo, reputato complice. Se non che Luigi grandemente intimorito da una terribile peste allora scoppiata nel reame, vi costituì castellano Gilforte Lupo nel Castelnuovo, indi passò in Puglia. Qui dopo aver destinato per suo vicario Corrado Lupo, barone tedesco, ed avere fatti molti apparecchi in diversi luoghi; imbarcatosi a Barletta sopra una sottilissima galea, se ne ritornò in Ungheria, non essendo stato nel reame, che poco più di quattro mesi. Giovanna, evitato il primo furore, e richiamata con calde premure da molti conti e baroni e cortigiani napolitani disgustati ben presto dei forestieri; dichiarata innocente dal papa, a cui vendette Avignone per ottantamila fiorini; per mare ritornò in Napoli, e prese a rimunerare quelli, che le erano rimasti fedeli, tra questi Francesco I del Balzo, a cui nel 1348 dava il titolo di Duca di Andria, e fu questo il primo ducato concesso a persona non di sangue reale (9). Indi impegnate le gioie per far danari, assoldò truppe, richiamò la maggior parte delle città alla sua obbedienza, e fece guerra a quanti erano rimasti ancora devoti al re d’Ungheria. Le cose intanto degli Ungheri nel reame andavano ogni giorno più in rovina; quando nel 1350 di bel nuovo re Ludovico, avvisato da Corrado Lupo, veniva ad invaderlo con 15.000 Ungheri, 8.000 Tedeschi ed 8.000 Lombardi, tutti a cavallo. Per mezzo dei suoi duci, il Vayvoda, Stefano di Transilvania, Corrado Lupo, il Palatino, ed il terribile Filippo Schultz, denominato il Malospirito, distruggeva Lucera, Foggia, Troia, Corneto, Canosa ed altre città! Mentre gli Ungheri dimoravano in Foggia spedirono lettere ai cittadini di Trani, di Barletta e di Andria, perché di buon grado si sottomettessero al loro dominio, se non volevano sottomettersi con le armi. I Barlettani, ricevute queste lettere, e vedendo che re Luigi d’Angiò all’avvicinarsi dell’esercito Ungherese era fuggito dal campo, e con la regina Giovanna, ed i nipoti, figli del duca d’Andria, su quattro galere si era ricoverato in Gaeta (10); considerando che meglio sarebbe stato per essi assoggettarsi pacificamente al re di Ungheria, anziché venire con lui alle armi; spedirono al Vayvoda ed a Corrado Lupo sindaci ed ambasciatori a giurargli la dovuta fedeltà. Lo stesso fecero i cittadini di Andria, i Tranesi, i Bitontini, non che quei di Giovinazzo e di Molfetta, e gli Ungheri si stabilirono pacificamente in queste città (11).

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Ai terribili e lagrimevoli fatti, che allora si svolsero in Puglia, gran parte presero il Castello del Monte ed il suo castellano.

Dimorando il Vayvoda presso Foggia, poiché Gravina del fu conte di Durazzo si apparteneva al suo dominio, nominò capitano di quella terra il giudice Nicola di Angelo di Monte Sant’Angelo. Questi da Barletta spedì lettere. ad un certo Angelo del signor Gualterio di Gravina, con le quali gli partecipava la sua nomina a capitano di detta terra, e gli significava che se Gravina ben volentieri non volesse assoggettarsi al suo comando, vi sarebbe stata costretta per forza dall’esercito ungherese. Mandò pure all’Università di Gravina lettera del Vayvoda per esplorare intorno a ciò la volontà dei cittadini. In questo frattempo Domenico da Gravina, il cronista, avendo segretamente stabilito coi suoi partigiani di chiedere piuttosto il dominio degli Ungheri, che quello della duchessa di Durazzo; gran parte dei cittadini furono di questo parere. Nell’istessa sera, dopo di avere su di ciò discorso col detto Angelo, con Chicco de Gregorio e Roberto de Bucca, suoi complici; prese con questi la volta del Castello di Santa Maria del Monte, ove il giudice Nicola stava aspettando la risposta del Gravinesi. La loro lettera giunse verso la mezzanotte. Castellano del Castello del Monte era allora l’ungherese Tommaso di Paolo, il quale aveva al suo comando circa trent’altri Ungheresi e Slavi, e vari custodi necessari pel Castello. Dopo che ebbero presa una refezione in quella rocca; a cavallo giunsero al Casale del Guaragnone, otto miglia distante dal Castello del Monte, e di là si portarono in Gravina a prenderne il possesso in nome del re d’Ungheria (12).

Andria, cripta della Cattedrale con le tombe delle imperatrici sveve

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Anima di tali avvenimenti fu il castellano di Santa Maria del Monte. Infatti quando l’esercito ungherese marciò verso Napoli; il Vayvoda volle che a custodia del Barse ed a difesa di Gravina restassero Tommaso di Paolo, ungherese, castellano di Santa Maria del Monte, e Filippo Schultz, che dimorava nella città e nel castello di Andria. Quando i Della Marra (13) ed i custodi del castello di Canosa, in numero di quasi cento cavalieri, dettero un grande assalto a Barletta e fecero prigionieri molti popolani; il castellano del Castello del Monte con circa venti dei suoi Ungheresi, e Malospirito con altrettanti Tedeschi ed altri soldati li posero in precipitosa fuga, e decollarono l’abate di San Samuele di Barletta e due altri che parteggiavano con i Della Marra (14).

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Erano in tale stato le cose, quando un bel giorno improvvisamente giungeva nelle Puglie la notizia della sconfitta, che avevano riportata in Aversa Roberto di Sanseverino, ed altri signori del regno dall’esercito ungherese. Il cronista Domenico da Gravina dalla città di Altamura, ove aveva messe in salvo parecchie donne della sua famiglia, si diresse in unione dei suoi amici verso il Castello di Santa Maria del Monte, e presa una schiera di Ungheresi, si portò a Gravina con sedici cavalieri andriesi da lui inviati e dagli stessi Ungheresi invitati. Erano ottanta tutti. La notte si nascosero presso un fonte detto di Culuni, lontano circa due miglia da Gravina. Gli Ungheresi e gli Andriesi ruggivano orribilmente, sia perché, avendo camminato tutta la notte, avevano i cavalli stanchi, sia perché essendosi allontanati troppo dalla fortezza del Castello del Monte, dubitavano non forse da qualche parte avesse a sopraffarli la potenza degli emuli; epperò ad ogni costo volevano far ritorno al castello. Ma il giudice Nicola di Corrado ed Angelo di Gualtieri li rassicurarono dicendogli: «Non temete; sappiamo noi la sicurezza di questo luogo; tratteniamoci qui fino all’aurora. E voi, o Ungheresi, e voi, o Andriesi, non vi movete, mentre noi ed i nostri compagni vi precederemo». Rincorati in tal modo gli animi, si fermarono. Non appena spuntò l’aurora, furono spedite undici avanguardie, le quali si nascosero nel giardino del vescovo. Era il giorno di San Giovanni Battista. Mentre stavano ivi appostati, ecco cinque giovani di Gravina avventarsi loro sopra: ma presi e legati, furono per mezzo di Giacomo Leone di Domenico spediti ove avevano lasciati gli Ungheresi (15).

In quel giorno gli Andriesi e gli Ungheresi fecero prigionieri più di cinquanta Gravinesi. Tra questi vi fu un certo Silvestro di Cassano, servitore e partigiano dei nemici degli Ungheresi, il quale, perché fu tatto prigioniero in campagna, con una balista in mano; venne sull’istesso luogo impiccato. Indi radunati tutti i prigionieri, che erano circa cento, unitamente alla gran preda fatta degli animali, furono spediti incatenati a Castel del Monte. Allora Tommaso di Nicolosio, Dionigi detto conte dell’Ungaro, Gallo ed altri compagni Ungheresi, insieme con Angelo ed il giudice Nicola, e molti altri si avvicinarono alle mura di Gravina dicendo: «Ecco, abbiamo cento vostri cittadini prigionieri, ed uno ne abbiamo già impiccato. Vi preveniamo pertanto che se la terra non si arrenderà al dominio del nostro signore il re, saranno puniti nell’istesso modo tutti gli altri, e però ora li portiamo prigionieri al Castello del Monte, perché di qui a quattro giorni ci facciate sapere chiaramente intorno a ciò la vostra volontà». Dette queste parole, partirono. Giunti al castello verso il cadere del sole chiusero nel cortile della fortezza tutti gli animali, e legarono i prigionieri ai ceppi già apparecchiati. Ma prima che fossero incatenati tutti, Stefano di notar Giovanni, aiutato, non si sa da chi, salì di soppiatto sul muro del ballatolo, si precipitò giù, e non visto da alcuno, scappò via. Invano fu da essi cercato, come quegli che era il più ricco fra i prigionieri; si credette che gli Ungheresi furtivamente l’avessero nascosto nel castello.

Fatto giorno, il castellano Tommaso di Paolo chiamò Angelo ed il giudice Nicola, e disse loro: «Ecco avete con noi nella custodia del nostro castello tanti prigionieri e tanti animali da vendere. A noi pare che dobbiate portarvi coi nostri Ungheresi nelle città di Andria e di Barletta, per ivi vendere gli animali. Lasciate qui qualcuno dei vostri compagni, il quale intervenga con noi per patteggiare coi prigionieri». A cui i suddetti caporali risposero: «Signor castellano, noi non vogliamo con questi venire a patto alcuno, ma vogliamo la Terra di Gravina». Ed il castellano di rimando: «Avremo la composizione ed avremo la terra, vogliamo o non vogliamo lasciate che faceto io». Indi soggiunse: «Scegliete fra i prigionieri dieci dei migliori, affinché a vostro riguardo li teniamo più cari nel castello, e non avviliti nei ceppi». Allora scelsero a restare nel Castel del Monte Giaquinto del Gargano, Notar Leone e certi altri sino a dieci; ma ciò fecero non per bene, che volessero ai prigionieri, ma per esigere da essi un più pingue riscatto. Intanto tenuti vari discorsi all’uopo, tutti si apparecchiarono ad andare con gli animali a Barletta. Allora Angelo ed il giudice Nicola dissero a Domenico Da Gravina: «Notar Domenico, resta qui con Tommaso di Paolo, e scrivi i patti, che dovranno farsi coi detti prigionieri, affinché sappiamo che cosa per parte nostra dobbiamo domandare». Ai quali Domenico: «Io non voglio restare, perché la mia moglie ed i miei figliuoli stanno a Gravina, né mi dà l’animo di vedere i tormenti, che dovranno darsi ai prigionieri, per avere la composizione con essi. Veggo però che la cosa procede tutta diversa da ciò, che ordinammo. Vi consiglio dunque a domandare la nostra parte dei prigionieri». E quelli: «Tutto ciò abbiamo tentato, ma inutilmente. Più volentieri avremmo desiderato non aver fatto quello, che si è fatto contro di questi prigionieri. Ma poiché tu non vuoi qui rimanere, andiamo». E cosi tutti, lasciato Castel del Monte, partirono alla volta di Barletta (16). Dopo alcuni giorni, il castellano Tommaso di Paolo venne a trattare con Malospirito, che dimorava nel castello di Andria, intorno al modo da tenere per conquistare al re d’Ungheria non solo Terra di Bari, ma anche Terra di Lavoro.

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Intanto ogni giorno più gli Ungheresi, i Tedeschi ed i Lombardi commettevano stragi e rapine, ed affliggevano le povere città e borgate delle Puglie, senza aver riguardo alcuno a cosa sacra o profana (17).

Era la quaresima del 1350, e molti Tedeschi e pedoni Lombardi, dopo di avere barbaramente distrutta Canosa, si portarono in Andria a trovare Malospirito per fargli sapere come essi avevano deciso di correre a proprio conto le terre del regno, per acquistarle a se stessi, e di averlo eletto per loro caporale insieme con Turribetto da Lort, e Bertrando de Mocca. Malospirito approvò di buon grado un tale proposito, e poiché Andria era a lui molto fedele, pregò i Tedeschi a non voler recare danno alcuno ai cittadini né negli animali, né nei campi, ma quietamente ed amichevolmente passassero, promettendogli di fargli comprare coi loro denari quanto loro fosse necessario. Ritornato Schultz in città, ed i Tedeschi rimasti accampati in una vicina pianura, riferì agli Andriesi la venuta di questi, e comandò di dar loro quanto coi propri danari domandassero. Se non che gli Andriesi temendo, per loro mala ventura, d’un qualche tradimento, non vollero prestargli fede, appena offrirono ai Tedeschi quanto fosse necessario per la quarta parte del loro esercito. Frattanto mentre Malospirito fremeva contro gli Andriesi; questi, chiuse le porte della città, risposero ai messi Tedeschi, che non volevano loro né vendere, né donare cosa alcuna. Schultz, udita tale temeraria ed insolente risposta, temé di restare in mezzo al popolo, e di soppiatto si ritirò nel castello, mentre i messaggieri fecero ritorno al campo teutonico, narrando loro la superba risposta avuta, e come già fossero in armi tutti. Fu allora che i capitani tedeschi ordinarono si desse fiato alle trombe guerresche, affinché ognuno con le armi in mano corresse a combattere contro questo popolo ostinato e ribelle.

Fra i Tedeschi vi erano alcuni conestabili, cioè Navigero di Pescia e Corrado Portanova con circa 500 cavalieri ed oltre 200 pedoni, che erano stati stipendiati dal Voyvoda sino alla festa di San Giorgio per combattere pel re; questi non vollero consentire che si devastasse Andria, terra fedelissima al re d’Ungheria. E poiché i Tedeschi adirati negarono di dar loro retta; essi si presentarono ad un nobilissimo cittadino andriese per nome Giannotto Brancaccio, e gli fecero intendere come fossero pronti ad entrare in città, e per onore della fedeltà regia, combattere contro gli oppressori di Andria. Giannotto fece sapere tale proposta agli Andriesi; ma questi temettero di ammetterli in città. Pertanto ringraziò cortesemente quei generosi, che coi loro seguaci si ritirarono verso Barletta, accampandosi in una pianura, donde potevano vedere l’esito del combattimento.

Dallo spuntar del sole sino verso l’ora di sesta, la battaglia fu terribile, senza che i Tedeschi alcun vantaggio sopra gli Andriesi riportassero, sebbene da ambo le parti valorosamente e fieramente colle baliste e coi sassi si combattesse. Sull’alto del castello stava Malospirito, come a difesa degli Andriesi, ma rampognando sempre la testardaggine e l’incredulità del popolo, che non aveva voluto prestare ascolto ai suoi consigli; mentre Giannotto coi suoi soldati non cessava di chiamarlo traditore. Quando lo Schultz comprese l’insulto, scese adirato dall’alto del castello, per difendersi da tante ingiurie. Dalle parole si venne alle mani, e Malospirito dovette rifugiarsi precipitosamente nella fortezza. Allora i Tedeschi ed i Lombardi, che stavano alla difesa del castello, nel vedere ciò, cominciarono a lanciare i sassi dai merli contro i difensori di una delle porte della città, detta del castello, per cui quelli non potettero più difenderla. Cessata la difesa, gli assedianti irruppero violentemente nella città, ed a mano armata si precipitarono sopra i miseri e dolenti cittadini.

— Fecero cose orrende! Tutto restò in balia della sfrenata soldataglia. Spietatamente uccisero, ferirono, chiusero in carcere molti Andriesi. In un lampo devastarono e saccheggiarono tutta la città. Altissimi e disperati i pianti degli uomini e gli ululi delle donne! Immenso quant’altro mai lo sperpero delle ricchezze degli imprudenti cittadini, ai quali, con danno e con vergogna, venne rapito per forza ciò, che con loro vantaggio non vollero vendere. Rifugge l’animo dal dire quante donne nobili e popolane fossero oltraggiate sotto gli stessi occhi dei genitori, dei mariti, dei fratelli e dei figliuoli! E mentre esse erano state sino a quel tempo per la loro meravigliosa bellezza, bontà e castità sommamente levate a cielo in tutto il barese; ora ahi! sono da tutti nominate pel vergognoso scempio patito! Chiuse le porte della città, nessuna di esse poté sfuggire dalle mani di quei predoni, assetati di sangue, di libidini e di rapine! Furibondi i Tedeschi cercano da per ogni dove il nobile Giannotto, ma questi, saltando il muro della città, per sua buona ventura, erasi ricoverato in Trani, lasciando le ricchezze, la famiglia e la moglie, che era nobilissima e bellissima, e che sciaguratamente cadde nelle mani di Malospirito!—
Sono indicibili gli oltraggi ed i dolori grandissimi, fatti soffrire ai miseri Andriesi, che per tutte le strade vennero torturati dai carnefici con brutale ferocia, per estorcere le ricchezze nascoste! Dopo tre giorni i Tedeschi, sazi di libidini, di sangue e di rapine, permisero che i vecchi, le vedove e le coniugate coi bambini cercassero un asilo in Trani ed in Barletta, ritenendo le più giovani e le più avvenenti! Per avarizia chiusero in carcere, e torturarono con vari supplizi gli uomini, finché nello spazio di otto giorni, per forza estorsero tutto il denaro, che avevano. Finalmente accordata la libertà a quei miseri, si trattennero per molti e molti giorni ancora in Andria, sino alla sua quasi totale distruzione, predando per puro dispetto i santi arredi e gli archivi (18), ed incendiando la città spietatamente (19).

Intanto mentre le fiamme gigantesche e spaventose avvolgevano nei turbinosi loro nodi e case e chiese e masserizie; Malospirito, se vuolsi credere al D’Urso, per sempre più vendicarsi del conte di Andria e Montescaglioso, Bertrando del Balzo, che aveva dichiarata innocente la regina Giovanna I per l’uccisione del re Andrea di Ungheria; assalì il monastero di S. Tomaso Apostolo, martoriò quelle religiose benedettine con ogni crudelissimo ed iniquissimo atto, e trasse dal chiostro la giovanissima e piissima Catarinella del Balzo, figliuola di Bertrando. L’infelice benedettina carica di catene fu menata prigioniera nel castello di Melfi! Se non che alquanti prodi cavalieri, amicissimi del conte, essendo felicemente riusciti a strapparla dalle mani degli Ungheri, sana e salva di notte tempo la condussero in Napoli, ove terminò i suoi giorni tra le religiose di Santa Chiara (20). Il Lauria la fa stare per due giorni nascosta in Castel Monte (21), senza ricordarsi che questa rocca era già in potere degli Ungheresi!

[Tratto da: Emanuele Merra, "Castel del Monte - presso Andria", 3ª edizione, Scuola Tip. Istituto Apicella per Sordomuti, Molfetta, 1964, pp. 93-105.]


NOTE - (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva dell'intero capitolo)

(1) Dominici De Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, Napoli 1890, pag. 26. Questo scrittore sincrono mette l’uccisione di Andrea ai 20 di agosto: «Qui obiit an. Dom. MCCCXLV. Ind. XIII de mense Augusti, XX die mensis eiusdem» pag. 30.

(2) Giannone. St. di Nap., vol. II, lib. XXIII, p. 103. Lugano, 1837.

(3) Reg. Ang., 1346 C, n. 353, fol. 235-237.

(4) «Imperatrix hilari vultu thesaurum ipsum accepit, innumerabilem et infìnitam argenti laborati copiam inestimabilis pretii et valoris, magnasque divitias et opulentas cameras invenerunt ibidem, quas singulas sibi recepii». Dominici De Gravina, Chronicon etc., pag. 43

(5) Minieri-Riccio, Gen. di Carlo II, in Arch. Stor. per le Prov. Nap., an. VIII, pag. 599.

(6) Reg. Ang., 1346 C, n. 353, fol. 24.

(7) Reg. Ang., 1346 B, n. 348, fol. 72

(8) «Eminenti juveni Francisco de Baucio duci Andrie concessio jurium terrarum Marathie et Scale contemplatione matrimonii jnter ipsum et illustrem Margaritam de Tarento carissimam sororem nostram». Reg. Ang., 1348 B, fol. 224, a t., ap. De Lellis nel vol. Iohanne I, p. 1275, Arch. Stor. per le Prov. Nap., an. VI, pag. 315.

(9) Giannone, Stor. civ, del Regno di Napoli, vol. II, lib. XXIII, pag. 107.

(10) Giornale delle Ist. del Reg. di Nap.

(11) Dominici De Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, pag. 95.

(12) Dominici De Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, pag. 98.

(13) La famiglia Della Marra è la più nobile e più antica della città di Barletta. Potentissima nel governo di questa, ricca di feudi e privilegi, sostenne lunghe lotte con altre famiglie grandi Barlettane, gelose della di lei preminenza e specialmente coi Nicastro, coi Contestabile e coi Pipino … I Della Marra sopraffecero tutte le altre restando sempre superiori a tutti per potenza. Cav. Filippo De Leone, Per Barletta — Passeggiata Storica, Barletta, Dellisanti, 1889, pag. 58.

(14) Dominici De Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, pag. 182.

(15) Dominici De Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, pag. 185.

(16) Dominici De Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, pag. 186-87-88.

(17) Dimorando gli Ungheri in Trani tirannizzarono la città, strappando violentemente dalla sagrestia del Duomo le scritture, le reliquie dei santi e gli oggetti preziosi. Beltrani, Cesare Lambertini, doc. XVII, pag. 67.

(18) «A quibus nondum (civitas) expoliata, verum etiam omnibus bonis nudata est … etiam tota Ecclesia bibliotheca fuit amissa». Franc. De Bianco, Hist. Inv. et Transl glor. S. Richardi Angl. Episc. Andriernis, pubbl. da Ughelli, Italia Sacra, t. VII. colonne 927 a 930.

(19) Dominici De Gravina, Chronicon de rebus in Apulia gestis, pag. 238 q 344.

(20) D’Urso, Storia della Città di Andria, lib. V. cap. V, pag. 89.

(21) Il Castel del Monte, Studii e pensieri, VI. pag. 82.