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Acquaforte di Castel del Monte del 1860 circa

Il Castello del Monte
in Terra di Bari

Studi e pensieri

di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)


II.
La collina di Castromonte

Sorge a poco men che due leghe da Andria, verso ostro procedendo, una verde acclive collina, la qual fra le altre che le si congiungon di lato e terminano con le Murgie di Minervino, e con gli Appennini della Lucania boreale, singolarmente uniforme e piramidale si estolle. Sì che, formando essa l’estremo confine di una montana regione nel piano, pare ivi messa dalla natura a specula ed a guardia della lunga contrada, che dalle Murgie all’Adriatico si allarga, dal Gargano insino ai Monti Fasanesi si protende.

Tutta coperta da alta e fina boscaglia era a tempi di Federico quella regione; e per chi dall’apice di quel monte avessela guardata, egli era un succedersi non interrotto di foreste a foreste, un prolungarsi di alti boscosi monti, che declinavano in verdi poggiuoli, i quali andavan poscia a terminar nel piano. E que’ boschi, se non davano origine a grandi fiumane, bene è ragion che si creda dessero in quel tempo sorgente a ruscelli e fonti senza numero, siccome lo indicano le concavità non ancora colmate delle calcaree convalli, consunte dalle acque che vi trovaron letto, e che ora sono scomparse per lo vandalico furore che distrusse gli antichi boschi, e per la dissennata profanazione che pose la scure nelle secolari foreste.

In que’ fitti boschi, e lunghesso le sponde di que’ romiti ruscelli, e fra i tenebrosi recessi di quelle verdi convalli in gran copia si annidavano daini e capriuoli, lepri e martore. E dalle foreste degli Appennini Lucani scendevano nella state in gran copia gl’ispidi cinghiali, venivano i cervi dalle ramose corna, accorrevano i conigli e i scojattoli, e cento altre famiglie di quadrupedi popolavan i vepri e i pruneti le macchie ed i cespugli di quelle foreste.

Innumerevole era poi la quantità dei maggiori e minori volatili che nidificavan per quelle valli, ed ogni stagione avea i suoi proprî; e le periodiche migrazioni di que’ pennuti, or da borea or da ostro procedendo, venivano a farvi mostra dei loro vivi colori, giocondando i boschi dei soavi loro concenti.

Temperata e salubre era l’aria di quei colli, ameno e facile il vagare per essi. E una pace ricreante e beata, un silenzio solenne, una voluttuosa fragranza di piante e di fiori facevano di quei luoghi una assai dilettevole estiva dimora.

Un bel Lago mancava, è vero, a far compiuta la vaghezza del sito, siccome quel di Nemi faceva bellissimo il ritiro di Trajano fra Ariccia ed Alba. Ma del lago faceva ben le veci l’amenissima conca del vicino Adriatico, che tra le falde del Gargano e le Baresi coste, in questo breve golfo si accoglie, e mostrasi sempre splendente di luce, sempre solcati da navi.

E tale era l’indole, la inclinazion naturale, e l’avventuriera educazione di Federico, che un luogo più acconcio ai suoi studi, ai suoi piaceri, alla quiete del suo animo, ed alla operosità del suo corpo trovar non si poteva.

Gli Arabi manoscritti de’ quali egli ebbe generoso donativo dal Soldano di Kaïrah, le belle schiave, i gerifalchi, i cammelli, de’ quali fecegli grazioso presente Melek-hamel; i filosofi che lo seguirono dalla Soria [=Siria] e dall’Egitto, lo avean siffattamente divezzato dalla vita anteriore mezzo Italiana e mezzo Tedesca, e un gusto sì forte e possente gli avean quasi ispirato per le cose orientali, che appena quietate, siccome già dissi, i torbidi della Germania, e restituita la tranquillità all’Italia, goder si volle la pace dci prediletti suoi studi, in quella beata regione della Peucezia.

La caccia soprattutto col falcone costituiva uno de’ suoi prediletti piaceri, e di essa, sempre che le cure dello Stato gliene concedevano agio, prender soleva grande diletto. E già per siffatto nobile esercizio avea egli fatto costruire un Castello presso Avigliano nella Lucania, che denominò di Lago Pesole, un altro a Montepeloso, che togliendo nome da un monte vicino, chiamò di Monte Serico, e poscia quello di Minervino tra le foreste del Garagnone, oltre ai due famosi di Apricena, e dell’Incoronata presso Foggia.

Era in que’ tempi nel massimo fervore e nella più alta onoranza la caccia col falcone; la qual, succeduta all’antica caccia classica dell’arco, e della lancia, avea congiunto alla forza individuale domatrice delle fiere, gloria unica degli antichi cacciatori, l’arte e la destrezza degli uomini del settentrione; accettando l’ajuto che la speculazione dell’istinto di taluni animali dar poteva a quel grato esercizio.

Non fu più solo il cane a percorrere i campi e le foreste, ad affaticarsi pei monti, a perlustrar le macchie e i pruneti, in compagnia dell’uomo, all’assalto del cinghiale, alla corsa del cervo, alla ricerca della lepre; ma vennero i gerifalchi, i sacri, i lanieri, con altri molti uccelli da preda a prender parte alla caccia dei Principi, e dei Signori del medio evo — Né a tutti del popolo era concesso il cacciar col falcone, sia perché di assai ricca fortuna esser dovea dotato ehi avesse vaghezza di quel genere di caccia, e sia ancora perché i Sovrani, e i Baroni per sé soli serbavano il privilegio di quel piacevole esercizio.

E pria di ogni altra cosa la ingente spesa che costavano i gerifalchi della Islanda e della Norvegia, i falconetti della Scania, i lanieri di Tunisi, e gli aleti dell’Egitto tale non era che bastar vi potessero le facoltà dei modesti borghesi. La educazione poi di que’ volatili, e la immensa pazientissima cura che essi dimandavano, dava luogo al mantenimento di una innumerevole famiglia di servi valletti familiari; laboriosa ed ingegnosa genia di uomini, i quali per lunga consuetudine di vita con quegli uccelloni da preda, ed abituati allo studio dell’istinto, e della sagacia della ferina loro indole, parea che tenessero il mezzo, nel loro carattere morale, tra lo sparviero e la volpe. La spesa poi dei cavalli e dei ginetti addestrati a quella caccia, quella dei bracchi, de’ levrieri, dei segugi che accompagnare e seguir doveano i falconi; e per ultimo le feste e i conviti cui quel falconeggiar dava luogo, bene si vede quanto esser dovessero superiori alle modeste facoltà de’ semplici cittadini. E grande era pur la cura che di quelle straniere belve prendevano gli stessi Baroni; i quali lasciavano morir nella ignoranza i proprî figliuoli, mentre diligentemente e faticosamente educavano i loro falconi!

Le Falconerie eran pruove, eran titoli più che argomento di nobiltà generosa; epperò nobili chiamavansi quegli uccellacci da preda, perché ministri di nobili giuochi, ignobili e volgari dimandavansi tutte le altre famiglie di volatili; comunque di quella loro nobiltà spregiassero il titolo le aquile, e contestasser la potenza gli avvoltoi.

Né alla sola vita arrestavasi la superbia c il vanto della Nobiltà Falconiera (mi si lasci dir cosi); ma andavasene con postuma arroganza a prender posto sulle lapidi dei marmorei sepolcri; sui quali ancor si vedono i cavalieri, e le dame col cane ai piedi e il falcone in pugno, ostentare i fasti della magnanima loro prosapia.

Severe, e talor capitali punizioni minacciavano la tracotanza di coloro che avessero osato di stender l’audace mano sui falchi del loro Signore: onori e ricompense serbavansi ai falconieri che meglio esperti riuscivano a quel genere di ferina educazione.

Belle e gioconde a vedere eran veramente quelle signorili cacce del Secolo XIII, e la compagnia delle dame assai spesso servir le faceva ai trionfi e alle glorie del figliuol d’Afrodite — Bello il vedere quelle allegre cavalcate di galanti Signori, e leggiadre castellane coi falconi berrettati sul pugno, spandersi pe’ campi, aggirarsi pe’ colli, circondati da scudieri in ricco arnese, preceduti, e circondati da stupende mute di segugi di levrieri di alani, scuoprir da lungi la timida lepre, scorger tra le nubi il sublime rotear dell’airone, torre il berretto ai falconi, dare il grido dell’assalto; e tra lo acclamar festoso dei falconieri, e il latrar concitato dei cani, mirar l’arte e la forza di quei veloci assalitori, ed assistere al trionfo di quei figli della Norvegia e dell’Africa, che per gli aerei campi rinnovavan le stragi dei Goti, e de’ Saraceni.

Eran quelle veramente cacce regali, e signorili; ché tolto di mezzo ogni pericolo di rischioso giuoco, e sottratto ogni genere di molesta fatica, comodamente cavalcando, vedevano i cacciatori cadersi ai piedi la preda, frutto della destrezza dei loro falconi, premio della fatica de’ loro levrieri — Né è a dire quanto diletto prendesser di quelle cacce i giovani dediti al mestiere delle armi, avvegnacché per essi quella maniera di cacciare toglieva apparenza di un bel simulacro di militari inganni ed era un giocondo riposo dai cruenti giuochi dello armeggiare.

E Federico più che ogni altro principe dei suoi tempi, passionatamente amava quella specie di caccia, tra perché delle scienze fisiche solerte cultore, egli avea studiato della natura e delle abitudini delle fiere, fino a lasciarci un libro intorno all’arte di cacciar col falcone (De Arte venandi cum avibus), e tra perché alla destrezza ed accorgimento, singolar pregio dell’animo umano, meglio che alla sola forza, ed al caso, comune qualità di ogni essere vivente, confidato voleva il governo di ogni onesto piacere d’un principe.

Ora a questo, come ad ogni altro genere di caccia oltremodo acconce prestavansi le sterminate pianure della Daunia, gli alpestri gioghi del Gargano, le boscose colline della Peucezia, imperocché in gran copia vi si annidavano quadrupedi e volatili; e presso tutti i baroni di quelle contrade era io onoranza la caccia col falcone.

Senonché, alle cacce estive meglio prestandosi i monti della Lucania, e le foreste Garganiche, eran preferibili nella state e nella primavera le colline delle Murgie, sia per la mitezza dell’aere, e sia per la prossimità del mare, per lo quale compivansi le annue migrazioni dei volatili che venivano dalle coste della Dalmazia, e dall’Isole della Grecia.

Tela di Alfonso Di Pasquale, 1937
[Tela di Alfonso Di Pasquale, 1937; nel Municipio di Andria - foto Sabino Di Tommaso]

Ma non era già solamente il piacer della caccia che far dovea gratissimo il soggiorno di Castromonte a Federico. Con immenso amore era egli tratto alle lettere ed alla poesia Italiana; la qual poesia nata appena in Sicilia già dimostrava a quanto di gloria fosse per riuscire.

Fu egli che tolse la nostra lingua dai trivi, la introdusse nella sua corte, e con grande amore andò coltivandola insieme coi suoi figli Manfredi ed Enzio, e col suo segretario Pietro dello Vigne. Egli poetava nell’età giovanile già un secolo prima che venisse al mondo il poema dell’Alighieri, siccome appare dalla sua bella canzone.

«Null’uom potria vostro pregio cantare,
Di tanto bella siete … … .
» [1]

Nella sua corte di Palermo nobilitata egli avea la volgare favella, ed a lui affluiva quanto di più nobile e colto ingegno l’Italia andava allor producendo. «La gente che avea bontade — dice un Novelliere di quel tempo — veniva a lui da tutte le parti; e l’uomo donava molto volentieri, e mostrava belli sembianti; e chi avea alcuna speciale bontà a lui accorreva, trovatori, e belli parlatori … .»

A lui si deve la fondazione della Università di Napoli; a lui la restaurazione della Scuola Salernitana, a lui il fausto progredire delle Siciliane lettere.

Né vuolsi pretermettere la sua passione per l’Araba letteratura, tanto ricca di leggiadre immagini, e così acconcia a buono innesto sulla Italiana fantasia.

E dell’Oriente ei pregiava grandemente le delicate morbidezze del vivere, le cavalleresche usanze degli uomini, le soavi carezze delle donne, la generosa magnificenza, e la graziosa ospitalità dei signori e la tenacità preziosa della fede, e tutte quelle virtù patriarcali che ancor continuano nel deserto la vita e i costumi dei primi padri della umana famiglia.

L’Araba favella, familiarmente parlava e da Arabi maestri aveva imparata la medicina, l’astronomia, la geografia.

Oh assai si dilunga dal vero chi sotto il nome (odiato per non giusta tradizione di sanguinose conquiste) di Saraceno, oblia tutto il tesoro di scienze, di lettere, di arti che incolume serbaronci gli Arabi di Sicilia ce gli Arabi di Granata. Per buona fortuna monumenti assai ancor ne rimangono per farne fede a noi e agli avvenire; e la Italiana, la Francese, e la Spagnuola letteratura tali elementi primitivi Arabi hanno conservato che senza dissennata e vana superbia dissimulare e niegar non si possono.

Or qual mai regione esser poteva a Federico sì cara quanto questa delle Puglie così vicina alla Grecia ed alla strada di Soria, così di recente uscita dalla Greca dominazione, e tanto popolata di Saraceni?

Oltreaché a sole dieci leghe da Andria trovavasi da lui fondata una colonia di Saraceni colà tramutati dalle coste della Sicilia; e se nelle armi eran costoro valenti ed esperti, tra essi pur trovavansi valorosi ingegni in ogni genere di civili discipline ed amene lettere esercitati.

E fu ben ragione che il chiamassero Sultano di Lucera, imperocché di Arabi scienziati era piena sua Corte, con essi prendendo diletto a conversare; e negli Arabi di Lucera giustamente avea messa sua fede, veggendoli invariabilmente affezionati alla sua causa, in mezzo a sì perenni e sconci mutamenti dei suoi alleati e degli amici suoi.

Oltreaché di bellissime schiave Saracene godevasi l’amore, e con esse in soave voluttà viveva una vita affatto Orientale, tra i soavi concenti della musica, e le liete danze di quelle Odalische esuli dell’oriente.

E per quei suoi studi, e per que’ suoi piaceri, meglio che Napoli e Palermo, era singolarmente opportuna quella stanza Pugliese, e i beati ozi del Castromonte.

Or dalle discorse cose agevole mi pare il vedere quale esser dovesse nell’anno 1237 lo intendimento di Federico nello immaginare ed ordinare la costruzione del Castello del Monte, e confidentemente la ritengo nel desiderio ch’egli allor nutriva nell’animo di riposarsi dalle gravi cure del governo dci suoi popoli nella pace dei boschi, nella solenne quiete de’ monti, tra i piaceri della caccia, la ricreazione degli studi, la soavità dello amore.

E per uno scopo siffatto aveva egli mestieri di grandiose scuderie pei suoi cavalli arabi, di sublimi torri pe’ suoi girifalchi Norvegiani, di comodi canili pe’ suoi segugi di Tartaria; avea mestieri di ricche e splendide stanze per le sue schiave, di recondite sale pe’ suoi studi — E tutto ciò all’aria libera dei monti, in mezzo alle foreste de’ colli Subappennini, nella pace refrigerante della solitudine, lungi dai rumori, e dalle censure di coloro che di quella sua vita Africana meglio che Asiatica, non sapevano o non volevano troppo ammirarlo.

Veggiamo ora in qual modo il senno e l’espertezza dell’incognito architetto, e la splendidezza del principe risponder seppero alla vastità dello scopo proposto; e facciam di ravvisare dai suoi ruderi quale esso già fu questo Castello del Monte che da sei secoli ancor pugna col tempo, e tra i cespugli e le macerie sorge e grandeggia, e porgesi ancor a splendido documento della magnificenza dell’arte antica.


[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 18-29]


NOTE

[1] Stralcio dalla poesia attribuita a Federico II “ Poi ch’a voi piace, amore”, e da lui probabilmente scritta per Bianca Lancia d’Agliano.
[Nota non del Lauria, ma di Sabino Di Tommaso, redattore di questa pagina].