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Acquaforte di Castel del Monte del 1860 circa

Il Castello del Monte
in Terra di Bari

Studi e pensieri

di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)


V.
Casa del Balzo

Per poco men che mezzo secolo rimase il Castello del Monte nella turpe condizione di carcere; alla quale, convien pur che si dica, riusciva singolarmente acconcio, sia per la fortezza del luogo, sia per la elevazione e solidità delle mura, e sia per la facilità e sicurezza della custodia. Ma allorquando un benigno sguardo della fortuna fece all’arrogante usurpatore del reame, vincitor di Manfredi, ed uccisor di Corradino, succedere l’ottimo suo figlio Carlo II., cangiò affatto di apparenza, e di destinazione quel bellissimo edifizio; non altrimenti che in benefica felicissima condizione di viver civile erasi, la mercè delle virtù del figlio, mutata la paterna durissima dominazione.

Di quattordici figli fé lieto il Cielo le nozze del secondo principe di Angioja; e poiché per virtuosa industria, ebbe egli collocati in assai cospicua condizion feudale i nove suoi figliuoli, dié Clemenza al Conte di Valois fratello del francese monarca, concesse Bianca al Sovrano d’Aragona, Lionora a Federico di Sicilia, e Maria a Giacomo Signor di Majorca; ed alla sua prediletta ultima genita Beatrice, diè marito Azzo di Este Signor di Ferrara, assegnandole in dote la contea di Andria col Castello del Monte.

Nel Castello di Canosa eran già morti, siccome dissi, i due ultimi figli del buon Manfredi; infermo, orbo della vista, ed anzi tempo canuto, gemeva da quarantadue anni nel carcere del Castello dell’Ovo l’infelice Errico, quando nel Settembre del 1308, accompagnati da nobili cittadini Andreani, e seguiti da numeroso corteggio di napolitani, e francesi Baroni, i regi conjugi recaronsi da Andria al Castello del Monte, già decorato a pompa di magnifica festa. Or narra la tradizione cronacale che la memoria delle calamitose vicende degli Hohenstauffen, tanto eloquentemente da quel luogo rivelate e ripetute, turbasse in parte la giocondità delle feste de’ novelli signori di quella augusta magione; e che l’Estense, ricco e possente principe d’un floridissimo Stato Italiano, amante riamato della sua leggiadra c virtuosa consorte, nel fiore della età, ed in mezzo a mille ragioni per metter fede nello avvenire, assai spesso in quel giorno, percorrendo le marmoree sale del Castello, si lasciasse andare a men lieti pensieri, ed esclamasse «Niente di più precario nel mondo quanto la vita e la potenza; niente di più certo e duraturo quanto la gloria generata dalla virtù» — Di sé quel dabben giovane, senza saperlo, era presago; ché appena tre anni eran trascorsi, e la buona Beatrice lo piangeva estinto.

Afflitto oltremodo fu Carlo per la vedovanza della sua prediletta figliuola, e bramoso di provvedere ad un novello più fausto imeneo, prescelse fra molti che l’ambivano, il suo fedele e valoroso Cavaliere Bertrando del Balzo.

Nobile e doviziosa famiglia di Provenza fu quella del Balzo che venne col primo Angioino alla conquista del Regno. Avean feudi in Provenza e ne1 Delfinato, ne avevano in Savoja ed in Piemonte, e in vari diplomi erano chiamati parenti del Re.

Fu ceppo di Casa Del Balzo nel Regno quel baldo giovane Ughetto, il qual comandato da Carlo I. e Beatrice, assisi in trono in Castelnuovo, di recar le bilance per dividere i tesori ammucchiati ai loro piedi «A che servono le bilance» esclamava «per opra sì agevole, e sì poco degna che un Cavaliere vi ponga le mani?» — E sì dicendo fè col piede tre parti di quel tesoro, e «sarà cotesta» soggiunse «per Messer lo Re: cotest’altra per Madama la Reina; verrà quest’ultima divisa fra’ Cavalieri». Piacque l’atto, e più piacquero i sensi del generoso giovanetto a Re Carlo, e molto ne lo andò commendando, e l’ebbe sempre poi caro ed accetto, e di molti feudi gli dette investitura, nominandolo Conte di Avellino, Conte di Tricarico, e Marchese di Montescaglioso — E di questo Ughetto era figlio Bertrando del Balzo che Carlo lI. scelse a marito della figliuola Beatrice vedova del Duca di Ferrara.

Feste vi furono per questo matrimonio in Napoli e in Andria; né fu obliato il Castello del Monte; perocché gli augusti sposi dopo alquanti giorni che passarono in Andria, presto si recarono a visitarlo in compagnia dei nobili cittadini Andreani Baldassarre Quarti, Leone Marcelli, Pomponio Madia e Cesare Bonelli; e per mo1ti giorni rimasero a goder le delizie di quella amenissima dimora.

Ma a molto più splendide feste fu teatro dopo tre lustri il Castello del Monte. Imperocché, pervenuta ai 18 anni la bella Principessa Maria, unigenita del Duca Bertrando, Re Roberto, suo zio, trattò per essa le auguste nozze del Principe Uberto Delfino di Francia; il qual venne a tal fine nel regno, e fu da Roberto e da tutta sua corte accompagnalo in Andria.

Fecero nobile corteggio a Re Roberto in quel viaggio la massima parte de’ suoi Baroni, siccome il Delfino da un gran numero di Signori Francesi fu seguito. Era Roberto, siccome le storie cel narrano, non solamente il più ricco, e potente Principe Italiano, ma il più saggio ed erudito nelle scienze e nelle lettere, e la sua corte offriva la più splendida riunione di letterati e scienziati Italiani, da lui amorosamente accolti ed altamente pregiati. Basti il rammentare di Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio, Bartolomeo di Capua, Nicolò d’Alife, Andrea d’Isernia, Luca di Penna, Sergio Donnorso, per vedere qual fosse la prospera condizione della Napolitana Reggia in quel tempo glorioso della umana intelligenza. Or la massima parte di costoro, con tutti i grandi uffiziali della corona, dal Principe convitati, e tratti dalla amenità della stagione, convennero in Andria nell’aprile del 1327 — E poiché bramava Roberto ammirar l’opera stupenda del magno Federico, si recò nel Castello del Montc con tutta la sua numerosa Corte. Ed il suo nobile e ricco cognato Bertrando, e l’amorosa sua sorella Beatrice, spesero, (come narra il Ducal Registro di Andria) molte e molte migliaja di fiorini d’oro per festeggiar condegnamente il loro ospite, e la sua Corte, che per più giorni albergarono nel Castello del Monte.

Non era più carcere duro quel Castello; la triste apparenza dei giorni del lutto avea deposta, assumendo un nuovo sembiante di gioja e di festa. Ombrosi viali eransi aperti fra que’ boschi, e lungo il margine di quelle fonti; e la benefica natura che a quella beata region del Barese fu avara di nevi, e prodiga di fiori, e dove l’olivo è l’albero della foresta, dovette per fermo render giocondo anzi incantevole quel soggiorno di Roberto nel Castromonte.

Di ricca suppellettile, di recente invenzione ignota alla ingenuità de’ tempi di Federico, vedevansi decorate le marmoree sale di quel palagio. La poesia e la musica riempivan di giubilo il cuore di Re Roberto, tanto alle muse amico, e sì splendido protettor dei poeti. Che tra i signori, e i letterati i quali seguirono il Re in quel viaggio fosse stato il Petrarca né la storia cel dice, né le cronache il rammentano; ma pur facilmente io mi conduco a crederlo, considerando siccome frequente era in corte di Re Roberto il cantore di Laura, e che bene vi si trovava nell’anno precedente e nel susseguente. Ed ove in Napoli vi fosse stato in quella primavera, non avrebbe lasciato andar solo Roberto in Puglia, né avrebbe abbandonato il Principe Francese; egli il poeta di Valchiusa, l’amante della bella Avignonese.

Furon quelle veramente splendide, magnifiche feste, né mai più bello era apparso il Castello del Monte. Egli è perché un intero secolo era trascorso da Federico a Roberto, e la eleganza ed il lusso erano andati crescendo, per opera di quell’ingentilirsi de’ costumi, il qual procede dal progresso delle arti, e dalla civiltà dei popoli, che ne è causa insieme ed effetto, epperò la precede e la segue. Ad un edifizio sì grandioso e monumentale, immaginato e compiuto da Federico, non avrebbe per avventura aperto l’animo e sospinto l’ardimento nessun Sovrano d’Angjoja; ma lo Svevo non avrebbe per fermo saputo farlo tanto bello ed elegante nella sua interna suppellettile, quale un secolo più tardi Bertrando del Balzo lo fece, per onorare le bene auspicate nozze della sua figliuola.

Oh! ma lasciam da parte le feste, che troppo ne abbiam narrate finora, e troppo costantemente uniforme è lo appalesarsi della umana gioja. Non così il dolore, che mille forme assume, e con imprevveduti stimoli, l’uomo e le sue idee, le fisiche e le morali potenze perennemente immuta e rinnovella.


[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 52-58]