La S. Spina, che si venera nel Duomo di Andria

Contenuto

da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi"

Capitolo VIII.

di Michele Agresti (1852-1916)

La S. Spina, che si venera nel Duomo di Andria

   

Sommario:
- Un serto della Corona di spine di N. S. G. C. passa nelle mani di Re Baldovino di Fiandra; indi nelle mani di Luigi IX, Re di Francia.
- Luigi IX dona a suo fratello Carlo I d’Angiò due Spine di quel serto.
- Una di queste Spine vien donata da Carlo II d’Angiò a sua figlia Beatrice, sposa, in seconde nozze, a Bertrando Del Balzo, Conte di Andria.
- Provenienza della S. Spina in Andria.
- varii Reliquiarii della S. Spina.
- Il nuovo Reliquiario, costruito nel 1837.
- Descrizione della S. Spina nel suo stato normale.


La Sacra Spina nel reliquiario Morselli

LA SACRA SPINA ! … — Questo impareggiabile tesoro, che possiede il Capitolo Cattedrale di Andria, è la gloria più genuina, più invidiabile, che può vantare Andria. I tanti monumenti cittadini, antichi e moderni, nulla sono al paragone di questa preziosa Reliquia.

Fra le tante Spine, che trafissero il Capo del Divin Redentore, la Spina, che possiede Andria, è una delle più grandi, e, forse, l’unica, che opera costantemente il prodigio di ravvivarsi nelle macchie di sangue, che seco porta lungo lo stelo, nella coincidenza del Venerdì Santo colla festività dell’Annunziazione di Maria.

Come pervenne in Andria questa S. Spina?
Stando a quel che raccontano gli Storici, il serto delle spine, che trafissero il Capo del Nazareno, insieme agli altri ordegni della Passione, venne pietosamente raccolto dalle pie donne, e, secondo dice il La Emmerich [1] fu depositato nel sepolcro, come usavasi dagli Ebrei, i quali, col cadavere, interravano quanto avea servito al supplizio del giustiziato.

Risorto che fu Cristo, quelle Sacre Reliquie vennero raccolte e custodite gelosamente in Gerusalemme.

Fino al secolo IX, come ne fa fede il Monaco Bernardo [2], la Corona di Spine era depositata nella Basilica di Sion.

Secondo asseriscono molti scrittori, l’Imperatrice Elena, madre del gran Costantino, reduce dal suo pellegrinaggio in Gerusalemme, nell’anno 326, seco portò una parte della Croce di Cristo, il titolo messo sulla medesima, un chiodo ed altre reliquie [3], che donò alla Basilica di Santa Croce di Roma. Fra queste Reliquie vi furono due Spine della Corona di Cristo, che Cornelio Alapide assicura di aver vedute coi proprii occhi: vidi duas Spineae hujus Christi Coronae Spinas Romae, quas S. Helena ex Jerusalem Romam in Basilicam S. Crucis transtulit [4].

Come si concilia ora l’asserzione del Monaco Bernardo, il quale dice che ai suoi tempi (cioè nel 870), la Corona di spine era depositata nella Basilica di Sion, con l’asserzione del Baronio, il quale assicura che l’Imperatrice Elena, nel 325, avesse trasportata una parte della Corona di Spine, delle quali due ne aveva viste a Roma Cornelio Alapide?. A noi sembra che il serto di quella Corona di spine fosse stato dismembrato, una parte restando a Gerusalemme, presso il Santo Se-polcro di Cristo, e l’altra parte donata, od asportata dall’Imperatore Costantino a Costantinopoli. E, quando questa Metropoli, nel 1204, cadde nelle mani dei Crociati, le sacre Reliquie furono ripartite fra di essi, come prezioso bottino. Dovette, allora, la parte di quel serto di Spine venire nelle mani del Re Baldovino I di Fiandra, il quale, da Costantinopoli, aveva mandato al Re Filippo Augusto di Francia una di quelle Spine, ritenendo per se il rimanente del serto, che formava parte della Corona, posta sul Capo del Nostro Divin Redentore [5]. Venuto poscia quel serto di spine nelle mani di Baldovino II, suo figlio, questi, vedendosi traballare il suo Impero in Costantinopoli, rifuggiò in Italia, seco portando quel Sacro deposito.

Al dire degli storici, trovandosi Baldovino II a corto di denaro, pensò d’impegnare quel serto di spine a parecchi ricchi Veneziani, i quali, avidi di avere quella preziosa Reliquia, sborsarono ben volentieri la richiesta somma, a condizione però che non avrebbero più restituito quel deposito, se non fosse stata puntualmente versata la convenuta somma di tredicimila cento trentaquattro Pepri [6] pel dì 19 giugno di quell’anno. Venuto ciò a conoscenza del Santo Re Luigi IX di Francia, amico di Baldovino, affinché quella preziosa Reliquia non cadesse in altre mani, si offrì di versare la importante somma ai Veneziani, riscattando così quel serto di Spine [7].

Riscattata così quella preziosa Reliquia, Re Luigi IX, che erasi recato ad incontrarla sino a Villeneuv, giunto a Parigi, la fe' depositare in una cappella del suo Regal Palazzo, facendovi poi costruire una nuova e più sontuosa Cappella, nel suo medesimo Palazzo, per più degnamente custodire quel sacro deposito, istituendo, in pari tempo, una nobile Corporazione di Canonici e Cappellani Regii, che ne mantenessero il culto [8]. Guglielmo Durando narra d’aver veduto quella Corona, ch’era composta di giunghi marini [9], nella Cappella dei Re di Francia [10]. Benedetto XIV ne fa anche menzione in Canonizat: Sanctorum (Lib: IV: p. 5; cap. 30).

Venuto nel Regno di Napoli Carlo I D’Angiò, fratello del Santo Re Luigi IX, portò due delle maggiori spine di questo serto, una donandola alla Cattedrale di Napoli [11], e l’altra serbandola per se nella Cappella Reale del suo Palazzo. Quella reliquia passò poi al suo erede Carlo II D’Angiò, il quale la cedè a sua figlia Beatrice, quando venne sposa a Bertrando Del Balzo, Duca di Andria. Difatti, venuti in Andria Bertrando e Beatrice, seco portarono quella Santa Spina, che affidarono al culto ed alla venerazione del nostro Capitolo Cattedrale, come ne attestano anche parecchi autori [12].

Di ciò ne fan fede antichi scrittori cittadini, come il Pincerna, Arciprete di questa Cattedrale; il Pastore, Prevosto della Collegiata di S. Nicola; il Medrano, Vicario Generale del Vescovo Palica; il Durso, ed altri, confermando la immemorabile tradizione di riconoscenza alla pia Contessa Beatrice D’Angiò, che fece dono di quel preziosissimo tesoro alla nostra Chiesa Cattedrale [13].

Pervenuta questa preziosa Reliquia in Andria, fu fatto costruire un ricco Reliquiario per gelosamente e devotamente custodirla [14]. Il Vescovo Resta (che occupò la Sede di Andria dal 1582 al 1597), nel suo Direttorio della Santa Visita, pubblicato in Roma nel 1593, scrive:
Una Spina della Corona con la quale fu coronato N. S. G. C. la quale si conserva in un Tabernacolo di rame ben lavorato, indorato et essa sta affissa in mezzo amovibile, che si può mostrare coperta d’una vainella d’argento indorata con trenta perle, et quattro rubini, con una crocetta piccola di cristallo rossa in cima, et da piedi un pometto indorato, con quattro gemme preziose, et un diamante
[15].

Nell’intorno di questo Reliquiario erano incisi i seguenti versi:
En Cuspis de tot maioribus [16] una Coronae
Qua dirae pupugere manus pia tempora Iesu
Quando Parasceve, et Martis vigesima quinta
Concurrunt (veluti maiores ore probarunt)
Tunc haec (o quam mirum!) tota cruenta videtur,
Quae solet esse alias guttis aspersa quibusdam [17]!
Ad nos Trinacriae Carolus Rex ille secundus
Transtulit ex Paridis quae Urbs Regia Galiae habetur [18]
Pectore devoto venerandaque flexo est
Spina Redemptoris roseo suffusa cruore,
Cum sentes, ut acus totidem tolleravit ultor
Humani sceleris: gratissima metro canamus.
Gloria Victori, et monumenta perennia palmae;
Cornua enim Satanae spinosa fronte repressit:
Detque illi Dominus pro tanto huc pignore vecto,
Cuncti exoremus, felicia Regna Polorum.

Non sappiamo se questo primitivo Reliquiario ci fosse stato involato, o se si fosse abbandonato, per costruirne un altro nuovo e di maggiore valore. Solo sappiamo che, dopo 63 anni, il Vescovo Cassiani, nella Visita delle Reliquie, appartenenti alla nostra Cattedrale, fatta il dì 8 marzo 1656, parla della S. Spina, conservata in Teca d’oro, a forma di Pisside, ornata di gemme e di margherite, avendo due sfere di cristallo, circondate da una corona di spine d’argento.

Un vaso poi d’argento, di figura anche rotonda, portava, sulla base della medesima Teca di oro, due angioletti d’argento genuflessi avanti la S. Spina. Il piede di questa Teca, al dire del Vescovo Cassiani, era di rame dorato, ed in cima portava una crocetta d’argento anche dorata. Nel giro della superficie di questa teca erano poi incisi i 16 versi sopra riportati [19].

Di questo Reliquiario parla pure il Vescovo di Bisceglie, Monsignor Sarnelli, il quale dice d’aver veduto nella Cattedrale di Andria, un Ostensorio grande di cristallo, attorniato da corona di spine d’argento, dove sono scolpiti più versi [20]. Il Medrano, parlando del prodigio avvenuto il 25 Marzo 1785, dice che il Vescovo Mons. Palica, dopo di aver dissigillato l’antico Reliquario, dove conservavasi la S. Spina, la collocò in altro Reliquiario pur troppo magnifico e ricco, donato dal Duca e dalla Duchessa d’Andria (Riccardo Carafa e Margherita Pignatelli) [21]. È da ritenersi che questo Reliquiario sia stato di maggior valore del precedente, per collocarvi la S. Spina in questo, abbandonando quello.

Nel 1799 questo terzo Reliquiario ci fu involato dai repubblicani francesi, nel saccheggio dato alla città ed al nostro Capitolo. Un Reliquiario fu costruito nel 1837 (dopo che fu rinvenuta la S. Spina per opera del Vescovo Cosenza), a tutte spese del pio concittadino Sig. Vincenzo Morselli.

Riproduciamo qui questo Reliquiario, che, tuttora, custodisce la S. Spina, di cui ne faremo ora minuta descrizione.

Questo Reliquiario è tutto d’argento, in forma di grande Ostensorio, alto 80 centimetri dalla base al vertice della croce, che porta in cima. La base di sostegno, quasi ovale, ha il suo massimo diametro (diretto in senso trasversale alla perpendicolare) lungo nove pollici. Essa è vagamente adornata di foglie d’acanto, d’ulivi e di altri rabeschi, e poggia sopra quattro piedi con basi rettangolari, fregiati pure da foglie di acanto con elica a rilievo, andando a terminare, nella parte superiore, con teste di angioletti, ornati di ali al petto. Ai lati di questa base si vedono due interni Serafini, che portano alcuni simboli della Passione di Cri-sto; quello a destra i chiodi, la croce, la lancia, la canna con spugna; quello a sinistra la scala, il martello e la tenaglia. Dal centro di questa base s’erge poi una seconda base, a forma di collina, in fronte alla quale vedesi artisticamente scolpito un leone che si arrampica ad un albero [stemma del Comune di Andria], ed un gruppo di foglie d’acanto, delle quali talune dorate. Da questa seconda base, s’eleva un gambo a varii ringofii e rispettivi restringimenti, e che, all’altezza di un pollice, dilatasi a foggia di cono capovolto, portando nel mezzo (sul davanti) a basso rilievo dorato, di figura ovale, scolpita la Vergine Addolorata, fissata, su questa base, da tre viti di argento, e fregiata ai due lati di pietre color rubino, incastonate in foglie di argento.

Dalla base del cono risorge poi il suddetto gambo per un altro pollice, e termina in una sfera, circuita nel mezzo da una zona, larga una linea, incisa a foglie di rosmarino. Dalla parte superiore e centrale della sfera ripiglia ancora il gambo, sotto l’aspetto di un secondo cono capovolto, fregiato pure di foglie d’acanto, in bell’ordine disposte come nei capitelli delle colonne di ordine corintio, e dal centro della sua base si sfiocca in un gruppo ben combinato di nubi, che fanno da base sottostante a quella di un tempietto, entro cui poggia la S. Spina. Questo tempietto è di figura quadrilatera, avendo quindi quattro faccie, e quattro angoli, dai quali sorgono sopra basi quadrangolari quattro colonnine scanellate, d’ordine Corintio, ciascuna alta, dalla base al capitello, once quattro e mezzo [22]. Sui capitelli poggiano quattro rispettivi archi a regolare semicerchio, che sostengono una cupoletta, liscia nel concavo interno, ed intarsiata a foglie di pigna nel suo convesso esterno, nel cui centro avvi una sfera liscia del diametro di circa un pollice, circuita nel mezzo da un anello rilevato, intarsiato a linea spirale, e sormontato da una Croce. Nell’intercolunio di questo tempietto, e propriamente a destra ed a sinistra, vi sono due altri angioletti, che portano gli altri simboli della Passione e cioè, quello a destra il Sudario della Veronica con l’immagine del Redentore, quello a sinistra la colonna ed i flagelli.

Ai quattro angoli della Cupoletta si veggono, seduti, sulle cornici delle colonne, altri quattro angioletti, in atto di mesta contemplazione.

Nell’interno del tempietto, e propriamente nel mezzo, vi è un gruppo dorato [poggiante su base, pure d’argento dorato, della lunghezza di un oncia incirca], che raffigura, dalla parte posteriore un monte, dall’anteriore quattro teste di Serafini alati, ornate di pietre color rubino, incastonate in argento, e due rose, disposte come le prime a foggia d’ali. Ai lati del gruppo vi sono due intieri angioletti d’argento dorato, con larghe e lunghe ali, in atto di adorazione. Dal centro del medesimo gruppo, tra questi ultimi angioletti, sorge un gambo conico, fregiato nel basso da un serto di pietre color rubino e di perle, al disopra da un gruppo di piccole pietre, pure color rubino, a cerchi concentrici, incastonate a mo’ di diamanti, a forma e grandezza di anello vescovile, dal cui centro sortono quattro piccole foglie dorate, fra le quali è incastonata la Santa Spina. Una campanina di terso cristallo, alta sei pollici e mezzo, incastonata sulla base, chiude ermeticamente questo pregiatissimo gruppo, Al di sotto e dal centro di questa piccola base sporge un’asta d’argento, che s’intromette nel cavo del gambo della Teca, e fa che detta campanina, una col gruppo, possa essere asportata senza l’intiero Reliquiario, ed è in tal modo sita, che apponendosi al disotto i suggelli, la S. Spina non può essere estratta senza infrangere la medesima campanina.

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Dopo aver descritto il Reliquiario e la Teca, che sono un vero gioiello d’arte, fa d’uopo descrivere la S. Spina nel suo stato normale.

La sua figura è quella di un cono colla base in giù e l’epidermide leggermente piegante a sinistra. La sua lunghezza è di due pollici ed una linea, presa però dal suo incasto nelle foglie dorate innanzi descritte. La sua spessezza, nel massimo della base, è di circa due linee, gradatamente decrescendo sino alla punta semifranta, che può calcolarsi ad un decimo di linea. La superficie è liscia, levigata, compatta, tinta di color cece scuro. Una crocetta, i di cui bracci sono lunghi circa una linea e mezzo ciascuno, si vede incisa su questa Spina, a due linee incirca al di sopra dell’incasto nella base. Questa Crocetta, guardata con lenti di ingrandimento, che aumentano di sei volte il volume dell’oggetto, sembra avere naturalmente quattro lati, fra loro incrociati in modo da costituire, nel punto di sezione, quattro angoli retti. Il lato medio della Croce, che è messo al disotto, sembra avere una fenditura più profonda degli altri tre lati, i quali sono incisi superficialmente, e quasi capillarmente.

Nella punta poi della Spina, e quasi per lo spazio di poco più di una linea, a sinistra vedesi detta punta scheggiata dal suo compatto tessuto, e tagliata a sbieco, avendo quindi perduto il suo naturale ed originario aculeo, e terminando in due piccole punte distinte, nello stato attuale smussate. Nel fondo di tale perdita di sostanza legnosa, notansi, in direzione longitudinale, le fibre del tessuto legnoso, che spettano a quella parte della pianta, che dicesi alburno.

In tutta la superficie della Spina notansi molte macchie di diversa forma e tinta. Cinque di esse sono di colore oscuro e di forma lenticolare, non però perfettamente circolare, ma piuttosto oblunga. Di queste macchie, tre se ne vedono sotto la crocetta innanzi descritta, e due a destra, tra il braccio traversale e longitudinale della medesima. Una macchia, lunga circa tre linee e larga una, di colore rosso sbiadito, si vede dal lato destro, alla distanza di un dito traverso dalla base. Sotto e sopra questa larga macchia si vedono altre sei piccole macchie (una delle quali alquanto più grande) simili alle prime cinque innanzi descritte. Fra queste ultime macchie e la penultima, alla parte posteriore, per lo spazio di una linea e mezza di lunghezza e di un quarto di linea in larghezza, la Spina vedesi irregolarmente decorticata della parte corteacea. Simile decorticazione si vede due dita traverse dalla base, a destra, ed alquanto innanzi la convessità della Spina.

La figura di questa decorticazione è ovale; il suo massimo diametro è di una linea; il suo fondo è di colore cinereo più oscuro. Al di sopra di questa decorticazione la superficie della Spina, traversalmente, ed in senso obbliquo, da sopra in giù, da destra a sinistra, è leggermente sfumata da un’altra macchia color roseo-oscuro.

A destra, e nella parte convessa, pria di giungere alla punta smussata, per un dito e qualche linea, vedonsi, dalla parte superiore, un infoscamento, capace di potersi introdurre la punta d’una spilla ordinaria, dall’altra parte inferiore, un’altra macchia lenticolare, dal colore simile alle prime cinque, innanzi descritte, tendenti però più al rosso cupo, e del diametro di una capocchia di piccola spilla. Il su indicato infossamento, visto colle lenti d’ingrandimento, mostra di essere una vera decorticazione, identica alla precedente sopra descritta, notandosi nel centro della piccola macchia un vero intaglio nella sostanza legnosa della Spina. Al di sopra di questo infossamento, sino all’apice del cono spinale incomincia uno strato di tinta rosso-fosca, quasi bruna, diversamente intensa, cioè di colore più sbiadito nel basso, più denso nel mezzo, più carico nella punta e nella parte scheggiata.

Dal fondo della scheggiatura della punta del cono vedesi, anche ad occhio nudo, un piccolo filamento capillare, lungo circa due linee, non retto, ma a serpentina, piantato obbliquamente in strettissimo crepaccio di detta scheggiatura, da destra a sinistra, da dietro innanzi, dall’alto in basso, lasciando tra esso e la punta della Spina una divergenza, che, nel massimo, si calcola a due linee di distanza. Tale, filamento sembra di una tinta alquanto biancastra, e pare che esso appartenga, non alle fibre del tessuto cellulare della Spina, ma piuttosto ad un corpo estraneo, propriamente ad un filetto di bambagia [23].

Tutte le macchie sopra descritte non offrono, nella loro superficie, alcun che di lucido nello stato normale.

Quando, invece, il Divin Redentore, nella sua infinita misericordia, si compiace operare il prodigio [nella coincidenza del Venerdì Santo con il 25 marzo [24], quelle macchie prendono, in tutto o in parte, un color sanguinio, lucido, vivo, come di gocce di puro sangue ! …

NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)

[1] La Emmerich: La dolorosa Passione di N. S. Gesù Cristo.
[2] Tobler: Itinera hierosolymitana: l, 2, 315.
[3] Baronius: ann. 326.
[4] Cornelio Alapide, In Mattheum: Cap. XXVII; V. 19.
[5] Rohrbacher: Storia univers. della Chiesa Cattol. Tom, XVII, Lib. LXXI, pag. 211-215.
[6] Pepro, moneta dell’Impero: 13134 pepri, pari a lire centosessantamila [del 1912].
[7] Eehard: Storia Romana, Lib. XII, Cap. II.
[8] Vedi Boss, Stor. Univers., An. 1239, nella 2. parte.
[9] Non convengono gli scrittori sulla qualità di quelle spine, di cui componevasi la Corona, posta in capo al Divin Nazareno. Alcuni, come il Durando, il Toleto, il Taulero ed altri sostengono essere di giunghi marini. Altri, come il Baronio, il Berti, il Grutzer ecc. sostengono essere di ranno, pianta che cresce in Palestina, e della quale solamente i giudei potevano averne in pronto un serto, per cingere il Capo del Divin Redentore: mentre che il giungo marino attecchisce presso il mare. Ed è perciò che trovandosi il Mare assai distante da Gerusalemme, i Giudei non avrebbero potuto avere in pronto una Corona di spine di giunghi marini. Il Sieber, rifiutando il ranno, che dice esser pianta molto dura e difficile a piegarne i suoi rami, sostiene essere stato invece il lycium spinosum, facile ad essere intrecciato nei suoi rami, per formare una corona. Altri scrittori dicono esser l’acanto; altri il pruno spinoso; altri lo spino. Ma di qualunque natura fossero state quelle spine, egli è certo che furono acutissime e di un legno assai duro, come ci apprende la S. Spina, che abbiamo' la fortuna di possedere.
[10] Ration. Divi: afficior. Lib: VI, Cap, LXXVII, par: 17.
[11] Essa è venerata nella Cappella del Crocefisso, di giuspatronato della famiglia Caracciolo.
[12] Muratori: Au: — Estens: Tomo V. — Rer: Italic: — Reali, Arciduca di Napoli.
[13] Chi volesse avere maggior contezza di questa preziosa reliquia, donataci dalla Contessa Beatrice de D’Angiò, e dei prodigi operati da N. S. G. C. in quella Sacra Spina consulti la nostra opera, La prodigiosa Reliquia della sacra Spina, che si venera nei Duomo di Andria. Tip. F, Rossignoli.
[14] Non sappiamo se questo Reliquiario fu pure donato dal pio Monarca o dai coniugi Del Balzo, ovvero costruito dal Capitolo: né sappiamo se il Reliquiario, di cui parla il Vescovo Resta fosse stato il primitivo, od altro Reliquario.
[15] Directorium Visitatorum ac Visitandorum etc.. auctore R. P. D. Luca Antonio Resta Messapiense Ep.o Andrien. Cap. XLVIII, par. I, pag. 57.
[16] La S. Spina, che possiede il Capitolo Cattedrale, è una delle maggiori, che trafissero il Capo di Cristo. Essa ha la lunghezza di circa quattro dita, e la grossezza di un doppio filo di spago alla base, che va, man mano, assottigliandosi sino alla punta semifranta.
[17] Questi quattro versi accennano al prodigio che si verifica tutte le volte che il Venerdì Santo viene a coincidere colla festività dell’Annunziata (23 marzo), quando quelle macchie di sangue sbiadito, che vedonsi lungo lo stelo e la punta della Spina, man mano si ravvivano, sino a prendere il colore vermiglio di vivo sangue!
[18] Questi due versi accennano alla origine della nostra S. Spina, pervenutaci dal Re Carlo II d’Angiò (e non da Carlo I, come sostengono alcuni scrittori) a mezzo della sua figlia Beatrice, Sposa a Bertrando del Balzo. Conte di Andria.
[19] Ecco le testuali parole, ricavate dagli Atti della Santa Visita del Vescovo Cassiani, del dì 8 marzo 1656: Pixis in qua est una ex Spinis majoribus Coronae D. S. I. C. gemmis et margheritis ornata, duae rutundae et circum circa superficiem ad modum Coronae spinarum argenteae, et vas in orbem ductum est similiter argenteum, intus in basi eiusdem thecae aureae genuflexi sunt hinc et inde duo Angeli argentei: pes ex auricalco deaurato, et crux in summitate argentea inaurata, circum circa in superficie conversa, et in facie hi versu. En Cuspis, etc. … (Curia Vescovile di Andria).
[20] Mons. Pompeo Sarnelli, Lett. Eccl. tom. III, lettera XXVIII; e tom. V. lettera XL.
[22] L’oncia equivale alla dodicesima parte del piede, come misura di lunghezza, alla dodicesima parte della libra, come peso.
[23] Probabilmente quel filo di bambagia dovè restare attaccato alla punta smussata della S. Spina, nel trasportarla da Venosa in Andria, dopo il ritrovamento di essa, per opera del Vescovo Cosenza, il quale la chiuse in un’astucce, ricoperta di bambage, come in seguito narreremo.
[24] Ciò fa supporre che la Passione di Nostro Signore Gesù Cristo sul Calvario avvenne proprio il 25 Marzo di quell’anno.

 [testo tratto da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi" di Michele Agresti, tipi Rossignoli, Andria, 1912, Vol II, pag. 126-135]