Aurora di Pace

Contenuto

[sul ritmo di una ode pindarica]

Aurora di Pace [1]

Esile e rosea aurora all’uscio
filtra i suoi rai;
le intese speranze dal guscio
del burbero verno giammai
perse libera e assieme
alletta il sopito mio meme,
ridesto ormai.

Cantò Ovidio d’amor poeta
la primavera
quando Cerere abbracciò lieta [2]
la figlia evasa dalla sfera
di Plutone e, tornata,
feconda fu la terra amata,
di frutti fiera.

Splendore di color nei campi
per ogni dove in fiore,
avverto in soffi alterni ed ampi
di olenti fragranze un sentore
e dei sensi il turbamento affiora,
soave ognora.

 

Ma come improvvisi s’addensano
nembi paurosi
e terra e cielo d’un tratto infoscano
e smorzano gli impulsi gioiosi
negli animi angosciati
per gli inermi or minacciati,
eccoci ansiosi,

ché un cupo bagliore agghiacciante
in marzo ci tange:
da brividi evento, aberrante
e greve, letizia e quiete infrange;
atroce è quel che sento,
un triste stonato concento:
un Popolo piange

tra le rovine i suoi caduti,
la libertà perduta,
gli umani diritti insoluti,
senza alcuna ragion veduta.
È tempo che sorga un’aurora
di pace: è l’ora!

Bandiera della Pace

 

 

Un arcobaleno attraversi
questo grigiore,
disperda gli appetiti avversi
alla fratellanza e all’onore
da ogni cuore in guerra,
ritorni ad irradiar la terra
il sol d’amore.

S’alzeranno le verdi messi
ch’è primavera
allor che Eirene avrà successi;
di abbondanza sarà foriera
non sol di lauti beni
pur anche d’orizzonti ameni
se ognun l’avvera.

Quanta serenità e letizia
sentirsi amici dona
senza limiti e con dovizia!
Tutto al bieco fratel perdona
l’operator di pace, beato
in eterno amato.

7 marzo 2022.

Sabino Di Tommaso
da "I pensieri del Folletto" sdt

Nota

[1] In questo mio testo in versi è evidente il riferimento all’imminente primavera e alla disumana guerra in corso in Ucraina, per la quale auspico la difficile pace.
   Ho utilizzato un mio schema di ode pindarica, elaborato tenendo presente alcuni elementi strutturali rilevabili dagli stasimi delle classiche tragedie greche, in particolare l’Antigone di Sofocle; ovviamente ho inteso da essi derivare solo alcuni elementi portanti, non ad esempio la metrica, che nella nostra lingua attuale non è quantitativa.
Il motivo di questa impostazione è che tale schema poetico, esistente nei cori della tragedia greca, col suo alternarsi di strofe, antistrofe ed epodo, è molto atto ad evidenziare l’avvicendarsi degli intenti comunicativi.
[2]

Cerere accorre al ratto della figlia Proserpina da parte di Plutone

Ratto di Proserpina (o Persefone)
[Cerere (a sx, con la face sul carro con serpente) accorre al ratto della figlia Proserpina da parte di Plutone (a dx, sul carro con cavalli) - Galleria degli Uffizi - Firenze]

Bellissimo questo frontale di sarcofago del 2° secolo d.C., presente nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
Negli angoli sono scolpite due delle tre (quattro) Ore alate, che rappresentavano sia le quattro stagioni carpofore (portatrici di fiori e frutti), che le tre "Virtù" greco-romane: Legalità, Giustizia e Pace;
sulla sinistra della scena c’è Cerere (Dea della fertilità che amava accompagnarsi con una delle Ore, la Pace), la quale Cerere, per recuperare la figlia Proserpina, la cerca sulla Terra con un carro trainato da serpenti imbracciando una torcia;
sulla destra invece è scolpito il fulcro del racconto: Plutone che rapisce Proserpina portandola via sul Mare con un carro trainato da due cavalli, con in alto il piccolo Imeneo alato con face e preceduto da Mercurio avente il petaso alato sul capo ed il caduceo nella sinistra;
tra il carro di Cerere e quello di Plutone tre dee intervengono: Venere che trattiene per lo scudo Minerva che tenta di impedire il ratto, e Diana che si frappone tra le due.
Sotto i due carri due dee simboleggianti il mondo nell’epoca greca e romana: Gea, la terra sulla quale corre il carro di Cerere, e Thalassa, il mare mediterraneo sul quale si allontana quello di Plutone.

Riporto anche uno stralcio dai "Fastorum", "I Fasti", di Publio Ovidio Nasone, il quale, nel 4° libro dedicato ad Aprile, poeticamente racconta il mito di Persefone (o Proserpina) che vien rapita da Dite (o Plutone) mentre è intenta a raccogliere i primaverili fiori con le compagne. Qui il poeta presenta Cerere come Dea che gioisce se c'è Pace, oltre che indicarla come Dea della fertilità della terra in ogni sfera vitale.
A lato una traduzione poetica in terza rima della seconda metà del Settecento di Giambattista Bianchi di Siena (1718-1790).
trascrizione dell'originale traduzione

... ... ...
Pace Ceres laeta est; et vos orate, coloni,
perpetuam pacem pacificumque ducem.


Farra deae micaeque licet salientis honorem
detis et in veteres turea grana focos;      [410]

et, si tura aberunt, unctas accendite taedas:
parva bonae Cereri, sint modo casta, placent.
... ... ...
Carpendi studio paulatim longius itur,
et dominam casu nulla secuta comes.

Hanc videt et visam patruus velociter aufert       445
regnaque cæruleis in sua portat equis.

Illa quidem clamabat «io, carissima mater,
auferor!», ipsa suos abscideratque sinus:

panditur interea Diti via, namque diurnum
lumen inadsueti vix patiuntur equi.
                   450

At, chorus æqualis, cumulatæ flore ministræ
«Persephone», clamant «ad tua dona veni.»

Ut clamata silet, montes ululatibus implent,
et feriunt mæsta pectora nuda manu.

Attonita est plangore Ceres (modo venerat Hennam)   455
nec mora, «me miseram! filia» dixit «ubi es?»

mentis inops rapitur, quales audire solemus
Threicias fusis mænadas ire comis.
... ... ...

... ... ...
Gioia la Pace a Cerere produce:
Perpetua pace or, contadin, chiedete,
per sempre chiedete sia vostro Duce.

Alla Dea farro e sale offrir potrete,
Ed i grani d’incenso in sulla brace
Por sull’antico altar non v’ha chi viete.   [410]
Che se l’incenso manchi, arda unta face:
Un picciol dono, purché casto sia,
Alla benigna Cerere non spiace.
... ... ...
Di coglier fior pel genio a poco a poco
Sì va ben lungi; e a caso tutta sola
La padrona [Persefone] lascian le altre in quel loco.
Lo zio [Dite] la vede, e lei veduta invola    [445]
Ratto; e con lei facendo indi partita
Sul fosco cocchio ai regni suoi sen vola.
Per duol la vesta ella stracciossi, e aita
Chiedea gridando per le cupe valli,
«Àhimè, madre diletta, io son rapita.»
Apronsi intanto a Dite i neri calli:
E ormai, che intorno a se luce baleni,
Non avvezzi mal soffrono i cavalli.
      [450]
I lor cestelli al fin di fior ripieni,
Le giovani compagne ivan gridando,
«Ai doni tuoi, Persefone, ne vieni.»
Empiono i monti di alte strida, quando
Chiamata a piena voce ella sta muta;
E afflitte vanno il nudo sen picchiando.
Cerere in Enna poco fa venuta,        [455]
Attonita al rumor tosto lagnarsi
S’ode, «Ove sei, mia fìglia? Ahi me perduta!»
Lascia priva di senno trasportarsi,
Qual soglion, come riferire ascolto,
Traci Baccanti andar coi crini sparsi.
... ... ...

[tratto da “ I Fasti di P. Ovidio Nasone tradotti in terza rima ...”, di Giambattista Bianchi di Siena, Stamperia Rosa, Venezia, 1811, pp. 262-266]