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Storia della Città di Andria ...

di Riccardo D'Urso (1800 - 1845), Tipografia Varana, Napoli, 1842, pagg. 7-9

Libro Primo

Capitolo III.

Prove di fatto, che assodano maggiormente l’antichità di Andria.

Essendo questa Città, potrebbe dire taluno, di un marchio così antico, è ragionevole che ivi si trovassero alcune traccie della sua vetustà. Quali monumenti, quali reliquie, quali vestigii quivi rimangono superstiti all’onta del tempo? Adagio. Già il suo aspetto interno palesa a prima fronte il volume de’ secoli, e principalmente il sito, dove si vuole avere essa ricevuto il primordiale apparimento; cioè nel basso di S. Lorenzo in continuazione della contrada delle Grotte, luogo, dove il piano si avvalla, molto favorito dal mezzogiorno. Siti per lo più erano questi tanto prescelti dagli antichi per le fabbriche e per andar difesi dal rigore del freddo, e dalla furia de’ venti. Ne fanno fede tante reliquie, e rottami di antichi edifizii, che quivi s’incontrano ne’ scavi; e segnatamente la moltiplicità de’ vasi. Questi sono non dissimili da quelli da me veduti nell’Erculano, nel Pompei [1] in rapporto alla loro varia, e prisca forma. Differiscono solo pel colorito; poichè ne sono privi assolutamente.
In effetti nell’ultimo sepolcro a caso scoperto nella valle di S. Lorenzo, si è trovato moltissimo vasellame; ma sprovvisto affatto, come diceva, di colore. Questo difetto quando non si volesse attribuire a rusticità, dobbiamo dire, essere questi vasi di un’epoca anteriore al lusso, ed all’incivilimento spiegato dappoi intorno alle tinte di essi. Non sono rare ancora le invenzioni di alcuni idoletti e metallici ed argillosi. Merita sopra ogn’altro essere curiosato un Priapo di fuso metallo ultimamente qui trovato [2]. Non mancano antiche corniole, come del pari monete di antichissimo marchio di ogni sorta di metallo.
Che dirò poi del numero infinito dei sepolcreti che qui da giorno in giorno si scoprono? Non possono essi pareggiarsi, lo confesso, con quelli di Ruvo, e di Canosa in riguardo alla dovizia, ed al lusso, essendo state queste città colonie romane; ma intorno al numero forse più frequenti nella loro nuda semplicità. In effetti qualunque piccolo scavo che venisse praticato nel d’intorno delle mura e principalmente sulle fornaci, o sia nella contrada di S. Lorenzo sull’alto: come parimente sull’orto Episcopale, e sue adiacenze: sullo spianato di S. Michele al lago, ed in tutto il contorno di quella chiesa: nelle vicinanze ed accanto la chiesetta di S. Lucia, tosto, diceva, si scoprono tante piccole nicchie capaci a ricettare un cadavere, di cui ancora sono visibili gli avanzi polverosi. Quelli sepolcri che appajono intorno le nostre Chiese suburbane segnano un’epoca più recente, cioè quando il popolo Andriese aveva già abbracciato il cristianesimo: indicano il sesto secolo [3] ; mentre fino al secolo nono fu vietato darsi tomba agli estinti nelle chiese: credendosi una contaminazione del sacro luogo [4]. Or essendo immenso il numero di questi sepolcri; ne viene per necessaria illazione di essere passato un lunghissimo, ed incalcolabile tempo per gli Andriesi anteriormente a quest’epoca.
Non mi si dica che gli Andriesi vivendo coi costumi greci, questi al par de’ Romani bruciavano i cadaveri conservandone le ceneri, così che questi sepolcri potrebbero essere di più fresca data come in occasione di qualche peste. Non mi si affacci questa difficoltà; poichè cade, quando si riflette, che tra i Greci ed i Romani si praticava l’uso del rogo nelle città cospicue, ed a persone notabili; ed anche tra queste si accordava la tumulazione e l’uso egizio del balsamo in molti rincontri: ma tra paesi incolti e gente povera si consegnava villanamente alla terra ciocch’era di terra. Nè questi sepolcreti possono dirsi effetto di qualche peste; mentre in tali opprimenti sventure non si pensa al sito ed all’ordine; ma uno sfondo, uno sventolo raccolgono in mucchio indistinto la inonorata messe dell’ira di Dio. Al contrario noi osserviamo qui le linee, la disposizione, l’ordine, la misura, essendosi praticato l’incavamento e nel tufo cedevole, ed in quello duro come pietra; dunque dobbiamo convenire sulla loro antichità: mostrando i medesimi il rito consueto de’ popoli abjetti prima del secolo nono: essendo questi quei funebri recinti, chiamati dagli Antichi Cryptae et arenaria.
Quanto ho detto fin qui intorno ai sepolcreti, è da supporsi, che queste nicchie tanto povere, ed anguste avessero raccolte le caduche spoglie della gente volgare; mentre si trovano, e non in iscarso numero ne’ luoghi suburbani grandi sepolcri; com'è da congetturarsi, di persone facoltose con qualche arma e vasi, sempre però scoloriti. Che poi questi vasi sieno stati travagliati in Andria, posso francamente sostenerlo; anche perchè comune è il sentimento di quegli scrittori, che hanno parlato di questa Città: asserendo essere state pregiatissime presso tutte le genti le produzioni argillose Andriesi [5]. Di fatto la patria tradizione risuona ancora della loro rinomanza. Esistono tuttafiata solo alcuni lavori del Medio Evo, i quali sono ammirandi anche per la squisitezza delle tinte. Presentemente vigoriscono le fonti; ma i loro prodotti piuttosto inclinano al grossolano.
NOTE
[1] Parlo de’ piccoli , che qui solamente si trovano.
[2] Conservasi questo dal Signor Canonico D. Lorenzo Troja in unione di altri antichi oggetti qui scoverti.
[3] «Successu temporis atque in saeculis sexto, et duobus seguentibus fideles laici in Atrio, vel porticu Ecclesiarum sepeliebantur.» Conc. Bracar. can. I. XXXV. Cavall. Inst. jur. Can. Pars 11. n. 48.
[4] Primum Imperatoribus, veluti privilegio datum est, ut in vestibulo Ecclesiae eorum corpora quiescerent. Eus. lib. IV. de vit. Constan. cap. 71.
Inde Reges, Episcopi, Abbates, digni Presbyteri, et ipsi laici sanctitate conspicui in ipsis Ecclesiis sepulti sunt. Chrysost. hom. XXVI.
Donec tandem saeculo nono mos receptus est, ut cadavera omnia in Ecclesiis humarentur. Conc. Meldenso Can. LXXII.
[5] Coronelli nella sua opera universale sotto la voce Andri - dice essere celebre questa Città per l’arte figulina.
Pacichelli nel suo Prosp. Del Reg. di Nap.
Fr. Leandro Alberti da Bolog. Nella sua descr. Dell’Italia pag. 221.