Viaggi nella Terra di Bari, di C. Bonucci

Contenuto

da “Poliorama pittoresco”

al Signor Filippo Girelli Direttore del Poliorama

(estratto)

Viaggi nella Terra di Bari

dell'arch. Carlo Bonucci (1799-1870)

Io aveva veduto in Grecia, e salutato dalle rive di Corfù l’ultimo raggio del sole che tramontava nell’Esperia. Era assai giovine, allorché abbandonai la terra dell’ospitalità, e ritornava nella mia patria come in un paese straniero. Nel traversare l’adriatico, nel giungere a quell'isola incantata, ove Calipso aveva accolto Ulisse, ed amato Telemaco, il mio cuore era commosso, ed i miei occhi ripieni di lagrime. Altre isolette coverte di ulivi e di uccelli marini sembravano formare in mezzo a quelle onde azzurre e risplendenti un ponte di verdura fra l’Italia e la Grecia.

Immobile sulla prora del mio naviglio, contemplava la più magnifica prospettiva. Da un lato apparivano i monti acrocerauni, e le coste selvagge della Dalmazia e dell’Istria; da un altro, la Magna Grecia ci additava su dei promontori, che pareano avanzarsi verso di noi, le rovine dei tempî di Minerva e di Giunone Lacinia; e di rimpetto si scopriva fra la nebbia, umile e modesta, la sponda amica d’Italia.

Salve, o lidi celebrati dal cantore di Enea; io m’inchinai sulla vostra polvere, e baciai la sacra terra delle lettere e delle arti, della gentilezza e del genio.

Ma da un lungo periodo di secoli sparirono da questo suolo beato i vestigi della sua prisca grandezza. Non più le flotte di Cesare e di Guiscardo apportano i trofei delle vinte nazioni nel porto di Brindisi, Taranto è contenuta nel solo recinto dell’antica sua cittadella; Gallipoli non è più leggiadra, che per le palme che la coronano; ed il viaggiatore cerca invano Salento, e la reggia d’Idomeneo.

Pur se la sorte le involò lo scettro del potere, la religione glie ne rendé uno più bello. Ai prodigi operati dal valore e dalla gloria succedettero quelli dell’onore, della cavalleria, e della fede. Guiscardo, Boemondo, e Tancredi non tardarono a comparire su quel sentiero, che dovea fornire a un grand’epico moderno il tipo degli eroi, ch’erano scomparsi colla musa di Virgilio e di Omero.

Mi trattenni ad Otranto soltanto per visitarne la cattedrale, e venerare la tomba di quei Santi Martiri, che aveano salvata col loro sangue l’Italia dal servaggio dei Musulmani.

Attraversai rapidamente, la terra di Lecce, ove il piano è tutto sparso di mirto e di timo, e le colline di vigneti, di olivi e di allori; ove le donne sono sì affabili, ed il cielo sì rilucente e sereno. Nel passare per una delle città che i Greci dell’Arcadia abitano tuttora, non mancai di salutarla col suo caro nome di Calimera, (bel giorno).

Entrai poscia nella terra di Bari, la regione delle mandorle e della bombace, ove le uve di Cipro e di Corinto maturano all’ombra degli olivi, dei fichi, e dei melograni. Il sentiero domina la marina, come un loggiato; e percorre l’una dopo l’altra le più belle, ricche e popolose città del regno; Monopoli, Polignano, Mola, Bari, Giovenazzo, Molfetta, Bisceglie, Trani, e Barletta. Esse sembrano attendere colà fra il mare e la terra, in mezzo ai giardini, l’arrivo del navigante e dello straniero.

Finalmente, pervenni alle sponde dell’Ofanto nel confine della Capitanata; e mi assisi un istante sulle rovine di Canne, nel luogo stesso ove Paolo Emilio ferito e rovesciato a terra, avea detto al Centurione che gli offriva il suo cavallo, «amo piuttosto morire, che sopravvivere al disonore di Roma.»

Una pianura sterminata come l’oceano, ove ondeggiano le biade, e pascolano numerosi armenti di pecore, di vacche e di cavalle, costituisce ciò che chiamasi comunemente la Puglia piana. Alcuni alberi di pere selvagge vi crescono spontaneamente, e spandono qua e là un po’ d’ombra su quei campi inariditi. Vi s’incontra talora qualche casa di campagna cinta da gruppi d’alberi e da capanne. Dovunque una mestizia, una solitudine, un silenzio. Verso il lato meridionale una vasta montagna, il Vulture, altre volte vulcano, si eleva isolato come il Vesuvio, e segna il termine delle Puglie colla Basilicata. Una vecchia badìa circondata da folte boscaglie comparisce su di un greppo elevato. Due laghi solitari sono ai suoi piedi. Di là si gode una delle vedute più variate del nostro paese.

Ad oriente, lo sguardo si perde nelle spiagge lontane di Taranto, di Metaponto, e di Eraclea; a ponente, si ha il principato longobardo di Benevento, che resisté a Carlo Magno, e dominò l’Italia inferiore; a mezzodì sono le pianure, i gioghi montuosi, e le valli della Lucania e delle Calabrie; e a settentrione, si estendono le Puglie irrigate dall’Ofanto, e terminate dal Gargano. L’adriatico chiude il fondo del quadro con una fascia d’oro, e d’azzurro. In questo spazio immenso che abbraccia diversi popoli e diversi climi, si osservano sparse nelle pianure, inerpicate sui monti, e nascoste in fondo ai burroni e alle selve, grandi e piccole città. Alcune divennero celebri nei tempi dei Longobardi e del basso impero, altre potenti sotto i Normanni e gli Svevi, ed altre note solamente nelle nostre cronache angioine ed aragonesi: finito il dramma, e caduto il sipario, quasi tutte son rientrate nell’oscurità e nell’oblio.

Alle falde del Vulture, su di un’amena collina giace Melfi città incantevole e sede dell’antico Ducato di Puglia. Situata nel centro delle nostre province, non fu mai soggiogata dai Saraceni. Se la loro fortuna avesse potuto prevalere a quella dei Cristiani, essi vi avrebbero fondato un gran regno, e gli avrebbero dato il dolce nome di novella Granata. Tappeti di verdura e di fiori, fontane e ruscelli che vi spargono la freschezza e la vita, e viali di salici e di cipressi ne rivestono la pianura. Il tepido soffio di zeffiro dolcemente vezzeggia le rose dei suoi giardini; e l’usignuolo canta notte e giorno nelle sue valli, all’ombra dei vigneti, e degli ulivi. ...

Ruvo

Dopo molti anni, ritornai a visitare le Puglie, e mi trattenni qualche giorno nella provincia di Bari alla fine del 1853. Desiderava rivedere la sua parte interiore, che non avea conosciuta nei miei primi viaggi. Città floride e sorridenti si succedono a breve distanza, e su di una stessa linea, come un filo di perle, o come le gemme che adornano il diadema di una regina. I loro nomi ti rivelano lunghe e variate memorie: Canosa, Andria, Ruvo, Bitonto, Ceglie, Altamura, Fasano, Brindisi, e Conversano. In mezzo a queste graziose città, dal seno della terra di Bari, sorge su di una facile altura la modesta e classica Ruvo. Le sue origini appartengono ai tempi dei Pelasgi, ma s’ignorano le sue vicende nell’epoca della sua floridezza, ed autonomia. Passò sotto il dominio dei Romani. Situata sulla via Appia accoglieva i passeggieri stanchi da un lungo viaggio. Orazio vi si riposò, allorché si recava a Brindisi con Mecenate. ( Satira V. )

«Dopo un lungo cammin, e da la pioggia
Renduto più malvagio, a Ruvo al fine
Lassi giugniamo. Fu nel dì seguente
Migliore il tempo, ma peggior la via,
Sino a le mura del piscoso Bari.»

Nell’anno 858, i cittadini di Salerno e di Benevento combattendo a Canne contro i Saraceni furono respinti fino a Ruvo, e si salvarono fra le sue mura, — Allorché i Baroni pugliesi seguirono Boemondo nella sua spedizione in Terra Santa, quel cavaliere Pagano che fu il primo a piantare il nostro vessillo sulle mura di Antiochia, e che fondò poi l’ordine de’ Templari, era forse un nobile di Ruvo; il certo si è, che un Pagano possedeva un feudo in questa terra, e in Terlizzi, e seguì con alcuni militi Guglielmo il buono nella seconda crociata di oriente.

Nel 1503, Consalvo di Cordova sorprese in Rnvo i Francesi comandati dal sig. della Palissa. Dal suo Castello era stata poco prima spedita da La Motta la lettera che dié luogo alla disfida fra i 13 italiani contro altrettanti Francesi. — Ruvo fu infine posseduta dai Duchi di Andria.

Però se tacciono le storie antiche sulle vicende di Ruvo, nel periodo della sua civiltà greca, suppliscono in modo ampio e luminoso i suoi classici monumenti.

L’antica città doveva Occupare il sito elevato e pittoresco, ove attualmente trovasi il convento di S. Angelo; la città moderna non era che la necropoli dell’altra. Quivi le tombe greche di varia forma e ricchezza si scuoprono continuamente sotto le stesse abitazioni, e sui fianchi della collina che discendono verso gli orti e la pianura. Tali sepolcri hanno offerto di tratto in tratto tesori d’arte e di archeologia, che son divenuti sopra tutto in questi anni giustamente rinomati. Le loro scoverte fin dal principio attirarono l’attenzione del sig. Salvatore Fenicia, uno degli uomini istruiti e benemeriti del suo paese. Ei si rivolse al Real governo, ed ottenne nel 1835, che gli scavamenti si proseguissero sotto la sua direzione, a spese del Real museo. Qual fu la sua soddisfazione nello scoprire più di 500 tombe, ove raccolse oltre a 580 vasi dipinti, ed oggetti di bronzo, e di varie sorti, d’un merito eminente! I più importanti di quei vasi rappresentano le nozze fra Cadmo ed Armonia, la morte di Archemoro, vari combattimenti di Amazoni, il giudizio di Paride, Ajace che strascina Cassandra, i Giganti che assaliscono l’Olimpo, e molti altri soggetti.

Notabili ancora sono le armature dei guerrieri scoverte nei sepolcri, quelle che servivano di difesa ai loro cavalli, gl’idoletti, i tripodi, le patere, i candelabri di bronzo, i vasi di vetro colorato, i lavori di plastica, e gli ornamenti d’oro, fra cui la collana formata da teste di vecchi Sileni, le fibule ed i sostegni dei balsamari d’ammirevole lavoro. Il sig. Fenicia ha illustrato i principali di questi vasi, che tanto interessano la storia, la scienza e le arti antiche; le sue dotte memorie gli hanno meritato gli elogi delle accademie e dei personaggi più illustri di Europa.

Io mi son trattenuto due giorni a Ruvo per osservare le belle collezioni dei signori Jatta nipote, Fenicia, e Caputo. Ritrovai nelle loro case la più squisita ospitalità e cortesia. Ristretto però fra i limiti di un giornale, non posso che in un’altra opera separata trattare distesamente di queste preziose e magnifiche raccolte di stoviglie dipinte, in gran parte inedite, o poco conosciute. Mi propongo ancora in altra occasione osservare la collezione numismatica del celebre Cotugno posseduta dai suoi eredi.

Nel tempo che mi trattenni a Ruvo, il sig. Fenicia presidente della commissione dei Reali scavi fu la mia guida e il mio autore. Ei mi condusse alla sua pittoresca casina; e di là mi fece osservare le belle campagne che rendono la terra di Bari il giardino del regno. Dalle logge superiori si scorgeva di rimpetto la città colle sue mura quasi diroccate, le sue porte, e la torre detta di Orlando.

Era la fine di ottobre; i fichi, gli olivi, gli alberi di pesche, melagrane, di mandorle e di carrubbe si vedeano tuttora carichi delle loro frutta; la vendemmia era terminata, e si raccoglievano sul verde tappeto dei campi le bianche noci della bombace. Percorreva in distanza cogli occhi estese pianure, terreni leggiermente ondeggianti, e le belle città bagnate dal mare adriatico. In quella terra degna di essere celebrata dai poeti orientali, in quell’eliso senza confini si nascondeano altre città, casine e borgate che si ravvisavano in lontananza dalla cima dei loro campanili normanni. In una linea alquanto più remota, verso il mezzogiorno, sorgea su di un’altura isolata coverta di giovani noci il Castello del monte, edifizio tutto di marmo, di forma ottagona, e costruito dai Normanni e da Federico II per dimorarvi nel tempo delle cacce.

Il sig. Fenicia mi fece poi percorrere le sue vaste possessioni, ove ha piantato in pochi anni, per dar lavoro ai poveri agricoltori, oltre a 85 mila alberi di olive, di mandorle e di altre frutta. Le ha divise in molle porzioni; e le ha date a censo ai coloni. Possa il suo esempio trovare numerosi imitatori.

Nel partire da Ruvo volli salutare le vecchie magioni che aveano veduto nascere Domenico Cotugno, Antonio Sancio e Giovanni Jatta, tre nomi che faranno per lungo tempo la gloria di quella terra, e del nostro paese.

Rimesso in cammino per Corato, mi fermai un istante alla matina di S. Vito per osservare la pianura che servì di campo chiuso ad Ettore Fieramosca ed ai suoi celebrati compagni contro i 13 valorosi cavalieri guidati da la Motte. La gran giostra avvenne il 13 febbraio del 1505, su quello stesso terreno ove aveva poc’anzi pugnato il famoso cavalier Bajardo contro Don Alonso. Colà Italiani, Francesi e Spagnuoli fecero prove memorabili d’eroismo; e gareggiando di generosità e di cortesia, appresero che gli uni erano degni degli altri, e si abbracciarono sul campo dell’onore, della lealtà e della gloria.

Andria

Giunsi alfine in Andria. Le sue belle strade, il suo traffico, e la sua numerosa popolazione le conferiscono l’aria di una capitale. Mi volsi a contemplare la deliziosa prospettiva dei suoi giardini dalle logge del palazzo Ceci.
Distingueva qua e là boschetti di olivi e di mandorle, gruppi di querce, piccole alture, graziose vallette, e gli alberi di limoni e di aranci, che rivedea per la prima volta nelle Puglie.

Riassumendo in poche parole la storia d’Andria, dirò ch’ essa ebbe origine greca.
S. Riccardo, inglese di nazione, e primo suo vescovo e protettore, nel 563 si recò sul Gargano di unita a S. Sabino pastor di Canosa, e ad altri prelati, per consacrare quella chiesa ov’era apparso l’arcangelo S. Michele.
Pietro conte normanno di Trani ricostruì ed ampliò Andria insieme alla vicina Corato, innanzi alla fondazione della nostra monarchia.
- Nel 1126 contava 25 mila abitanti.
- Jacopo cugino di Papa Innocenzo III, e capo della crociata che partì per l’oriente, nel 1216 era conte d’ Andria. Questa città passò nel dominio privato dell’Imperatore Federico II. La bella ed infelice Jolanda regina di Gerusalemme, che morì a Castel del Monte nel dare alla luce Corrado, ed Isabella figlia del Re d’Inghilterra, consorti di Federico, vi ebbero le tombe. Colà nel 1240 un Conte di Acerra sposò, in mezzo alle feste, la figlia dell’Imperatore.
- Re Carlo I d’Angiò nel 1271 donò Andria al principe suo erede, e questi la cedé a Beatrice ultima sua figlia, che vedova d’Azzo di Este duca di Ferrara, si maritò nel 1308 a Bertrando del Balzo. Francesco loro successore sposò Margherita d’Angiò, la quale, per la morte di Filippo suo fratello aveva ereditato il dominio di Taranto, ed il titolo e i dritti all’impero di Oriente. Giacomo del Balzo loro figliuolo duca di Andria, principe di Taranto e di Acaja, despota di Romania e imperatore di Costantinopoli, si rendé glorioso per le sue imprese guerriere.
- Federico di Aragona, che poi fu l’ultimo nostro sovrano di quella dinastia, avendo presa in moglie Isabella del Balzo, divenne per essa duca d’Andria. In. fine gli succedé il gran capitano, e poi Elvira sua figlia, e in ultimo Consalvo da Cordova di lei fratello. Costui, per riparare in parte ai suoi debiti, vendé Andria alla famiglia Caraffa.

Appena mi ritrovai in Andria, corsi ad ammirare le sue belle chiese di architettura romana del basso impero, detta in Italia, per le varie contrade ed epoche cui appartengono i monumenti, lombarda, normanna, e sveva.
Noterò le chiese (già dell’ordine teutonico) di S. Leonardo e di S. Agostino che ne conservano ammirevoli avanzi.
La cattedrale mirasi costruita da nuovo [forse per le opere del 1844 di Federico Santacroce] a cagione de’ tremuoti: io non potei osservare i sepolcri di Jolanda e d’Isabella, perché l’ingresso alla cripta o soccorpo trovasi attualmente murato. Del resto neppure al Can.[onico] d’Urso scrittore d’una buona storia di Andria fu dato vederli, impedito da non so quali imbarazzi che ritrovò sopra luogo, allorché vi si recò a visitarli. Lessi all’uscire di quel Duomo la lapida antica, che sola rimane della tomba di Beatrice figlia di Re Carlo II duchessa di Andria; e salutai le statue delle due Imperatrici, appartenute forse ai loro sepolcri.

L’ospedale di S. Maria della misericordia ed altri ospizi ancora, oltre ad una palazzina che scorgesi dietro la cattedrale, sono tutti de’ tempi normanni e svevi.

Passando per davanti alla casa baronale, mi ricordai che ivi era l’antico castello baronale, e che Federico II l’aveva affidato a’ cavalieri teutonici. Vi si raccolsero poi tutt’i proscritti templari.

Il prospetto che abbellisce la chiesa della Porta Santa, appartiene all’epoca del risorgimento; vi si scorgono due ritratti a basso rilievo, che si credono di Federico II, e di Manfredi.

Io voleva giungere la stessa sera a Canosa; non ebbi perciò il tempo di poter conoscere il ch.[iarissimo] canonico Lorenzo Troja, autore d’un cenno sulle vicende della sua patria e di quel vescovato. Ebbi la soddisfazione di rinvenir questo riassunto nell’Enciclopedia dell’ecclesiastico, che si è pubblicata in Napoli dall’abate Vincenzo d’ Avino, opera profonda, variata e di somma utilità, che onora il nostro paese, e i nostri tempi, e rende l’illustre Abate d’Avino meritevole degli elogi e della riconoscenza universale.

In cambio del Canonico Troja, ebbi la sorte d’incontrarmi col signor Salvatore Russo, il quale mi presentò a suo cognato Nicola Fasòli. Benché fossi giunto in un momento d’imbarazzo per essi, trovandosi occupati ne’ molti affari delle loro cariche municipali, pur tuttavia mi riceverono colla più spontanea e cordiale gentilezza. Mi fecero esaminare le loro antiche medaglie, e mi offrirono quelle che più sembravano interessarmi. Ringraziandoli, presi congedo da loro in gran fretta.
- Nel rendere oggi ai signori Russo e Fasoli un omaggio di grata memoria, son lieto dichiarare aver trovato nelle Puglie qualche cosa di più raro delle sue medaglie, vale a dire la generosità e la fiducia verso un viaggiatore sconosciuto quale io mi era; virtù, che sole bastano ad onorare gli uomini, ed il paese.

Continuando il mio viaggio per Canosa, percorsi di nuovo un tratto di quelle amene strade della provincia di Bari, che prenderesti volentieri per un viale dei giardini di Alcina. Gli olivi sembravano affacciarsi da sopra le mura che cingono il sentiero: carichi del loro frutto maturo annunziavano una raccolta superiore a quante venivano ricordate dai vecchi coloni. Ne colsi qualche ramo, ed ammirai il gran numero e la grossezza di quelle olive d’Andria, che godono in tutto il regno una sì meritata riputazione.

Canosa

Verso il cader del giorno, arrivai piacevolmente a Canosa. Questa bella e pittoresca città contava una volta circa sedici miglia di giro; ma nei tempi feudali si rifugiò tutta e si rinchiuse nel recinto superiore del suo castello. Io mi diressi al signor Ferdinando Lopez egregio sindaco di quella terra, ed una delle persone più distinte ch’io mi abbia conosciute: noi ci trattenemmo per qualche tempo a discorrere delle ultime scoverte archeologiche colà avvenute, e di cui aveano parlato in questi giorni tutt’i giornali di Europa. Quindi mi offrì la sua carrozza, c mi recai presso l’arcidiacono Giuseppe Basta, tesoriere della cattedrale e custode della tomba di Boemondo. Egli mi ricevé con quella sincera effusione di amicizia, che ho avuto occasione di ammirar tanto nelle Puglie.

Mi recai col signor tesoriere Basta a visitare le celebri tombe scoverte nel 1844, e che vengono chiamate volgarmente il tesoro, nella contrada del rosaio. Sono composte di due magnifici ipogei, ai quali si giunge per una dolce discesa. L’uno a due piani è quello di cui diamo qui sotto il disegno; l’altro vien decorato da due colonne joniehe con un grazioso frontespizio; il suo muro d’ingresso è dipinto di rosso, lo stipite della porta è colorito di nero. In ciascun lato di questo sepolcro si osservano due altre porte egualmente decorate e dipinte.

Prospetto di una tomba greca recentemente scoperta in Canosa — The Illustrated London News
[Prospetto di una tomba greca recentemente scoperta in Canosa — The Illustrated London News]

Entrando nella prima, si giunge in una stanza funebre ove tutte le suppellettili si trovarono ancora nel loro sito, e nel modo che vi furono situate da ventidue secoli. Il pavimento era coverto da una stoffa d’oro, il muro di rimpetto abbellito da un ordine di colonne joniehe, e le pareti laterali esprimevano a varie tinte ora due finestrini, ora diversi riquadri. Un fregio, ov’erano figurati dei combattimenti a cavallo ed a piedi, vi girava all’intorno. Alcune bende sacre, o vitte funebri vi pendevano dai chiodi, ed erano ricamate in oro a meandri, ed a rami di olivo.

Ne! mezzo della stanza dormiva un eterno sonno il capo della famiglia. Esso era disteso su di un letto di bronzo dorato sostenuto da fregi, da maschere, e da geni in avorio. Negli appartamenti vicini s’incontrarono i suoi figli e le donne della famiglia. Queste ultime, forse giovani, erano vestite di stoffe d'oro, ed avevano la testa cinta di corone di rose anche in oro; altre portavano dei diademi risplendenti di smalti e di pietre preziose, e lavorati con un’arte infinita. Le loro orecchie erano ornate da pendenti che indicavano i pavoni sacri a Giunone; le braccia cinte da smaniglie che figuravano dei serpenti; le dita, fregiate da grossi anelli, dei quali uno conteneva un vuoto destinato a riporvi dei capelli, che veniva ricoverto da un grosso smeraldo, ed ornato nella parte opposta da un purissimo rubino.

Una tavola sontuosa sembrava attendere questi illustri defunti; e nel mezzo di essa sorgevano piramidi di pomi e di melagrane.

Il pavimento era sparso di foglie, di giacinti e di asfodelo sacro a Proserpina.

Quelle frutta, e quei fiori erano di argilla dipinta con colori vivi e naturali, e aveano lo stelo di metallo dorato.

I piatti, i bacini, le coppe, e le lampade erano di vetro meraviglioso per disegni a musaico in tutta la sua doppiezza.

II fondo di qualche piatto rappresentava delle ghirlande di fiori; altri offrivano alla vista i contorni disegnati in oro di sontuosi e fantastici edifici.

Una damigella greca sposata forse ad un cittadino romano, fu l’ultima ch’ebbe un asilo in queste tombe. Un’iscrizione Ialina incavata nel tufo ci fa sapere che Medella figlia di Dasmo fu colà collocata il giorno terzo prima delle calende di gennaio, essendo Consoli Caio Pisone e Marco Acìlio. Questa data segna l’anno di Roma 683, e ci ricorda il fine della repubblica ed il principio dell’impero.

Alcuni passi più lungi da queste tombe si scovrì nello stesso tempo il prospetto di un altro magnifico mausoleo. Quattro colonne doriche ne decorano il pianterreno con due poggi fra esse per le statue. Sei colonne d’ordine jonico formano il piano superiore; le loro proporzioni svelte ed eleganti, ricordano la miglior epoca dell’arte, quella che si estende da Pericle ad Alessandro. Questo grazioso prospetto era dipinto a diversi colori, che dovevano produrvi un effetto insolito e sorprendente. Una statua di marmo greco, appartenente ad un personaggio sconosciuto, sorgeva in mezzo alle colonne del secondo piano.

A sinistra dell’ingresso di questo gran monumento si osserva una stanza ove si erano deposte tutte le armi del defunto. Si raccolsero ancora le briglie ed i guarnimenti dei suoi cavalli di battaglia che avevano dovuto essere immolati nei suoi funerali, e di cui si rinvennero le grandi ossa.

L’interno della tomba resta ancora a scoprirsi, non essendosi fatto che qualche saggio per penetrarvi. — Sono stati già dati superiori provvedimenti perché gli scavi venissero proseguiti sotto la mia direzione nell’anno 1854.

Queste scoverte d’un interesse immenso erano appena sospese, allorché fu rinvenuta per casualità un’altra tomba greca a settentrione di Canosa fuori dell’antica sua porta poco lungi dalle sponde dell’Ofanto. Quest’ipogeo è composto di due stanze formate nel semplice masso della terra; ed apparteneva ad un guerriero che fu trovato ancora rivestito delle sue armi. Lungo le mura si rinvenne aggruppata una quantità di piccole e grandi patere, prefericoli, tazze, ed idrie ordinarie di argilla. Fra di esse sorgeano sei vasi, che formavano tre pariglie eguali d’una grandezza affatto straordinaria, Vi si ammiravano i soggetti più rari e preziosi, il ratto di Europa, la vendetta di Medea, la liberazione di Andromeda, ed il rogo di Patroclo, intorno a cui vien trascinato dietro al carro di Achille il cadavere di Ettore.

Vasi di terracotta rinvenuti nelle tombe di Canosa e ornamenti di avorio.
[Vasi di terracotta rinvenuti nelle tombe di Canosa e ornamenti di avorio.]

Ma il vaso che per grandezza e per l’argomento delle sue dipinture formerà un’epoca negli annali dell’archeologia e delle arti, e che pel suo interesse storico, affatto unico nei monumenti ceramici dipinti, merita lo stupore dei nostri contemporanei, si è quello che rappresenta la Grecia e l’Asia, ed il Genio della discordia, o Apate, che solleva fra loro le sue fiaccole ardenti. Dario è seduto in mezzo ai suoi Satrapi, e la Persia personificata gli rivolge una grave e dolorosa allocuzione. In ultimo si veggono varie graziose figure di donne ricoverte la testa della tiara persiana esprimenti forse i varii regni dell’Asia, e due giovani che offrono ad un eminente personaggio i ricchi tributi da servire per quella guerra funesta. Quel personaggio, forse un gran Sacerdote seduto fra gli altari innanzi ad una mensa riceve il danaro, lo numera, e quindi segna in una tavoletta, o diplico, che ha nelle mani, il valore delle somme.

Tutte le figure principali hanno le loro analoghe iscrizioni.

Questi vasi sono stati trasferiti nel Real Museo Borbonico, quelli di Dario. e di Andromeda vi giungeranno ben presto.

Io feci delle frequenti escursioni intorno Canosa, ora a piedi, ed ora in vettura, accompagnato talvolta dal sig. sindaco Lopez, di cui ho notato l’urbanità, lo zelo e le cognizioni, e talvolta dall’egregio dottor fisico sig. D. Vincenzo lo Bosco. Essi mi fecero rilevare che Canosa è la sola in tutto il regno, che può controporre lo spettacolo d’una Pompei greca ad una Pompei romana. La città è situata su di un poggio in mezzo ad una pianura cinta in semicerchio da piccole colline. Fra quest’ultime è la città moderna, la pianura rinchiude per molte miglia di circonferenza l’antica necropoli, o città dei morti. Ad ogni passo, cavando tre o quattro palmi di terra, s’incontra un sentiero antico in declivio, che vi conduce innanzi ad una tomba composta di una o più stanze, e ch’è cinta nei lati esteriori del suo ingresso da altre funebri magioni. Le loro porte sono così ben chiuse, che il terreno non ha potuto penetrarvi; si entra perciò in queste abitazioni dei morti, come si entrerebbe in quelle dei vivi. Il raggio del sole le illumina tuttora. Vi si ravvisano uno o più scheletri nel mezzo della prima stanza rivestiti delle loro armi, o dei loro ornamenti preziosi. I vasi dipinti, d’ogni altezza e figura, le suppellettili d’ogni forma, e gli utensili di varie specie, e di varii metalli si ritrovano intorno alla persona defunta nello stesso sito ove li avevano collocati i suoi congiunti, i suoi domestici, e gli amici ad essa più cari. Fa meraviglia, come fra tutti questi sepolcri appena qualcheduno sia stato frugato nei tempi successivi; e che pure in tal caso gli oggetti d’oro, i vetri, gli avorii, e le stoviglie figurate e dipinte per noi si preziose, non sieno state involate. Sembra che si andasse in cerca del solo denaro ivi accumulato.

Interno di una tomba greca a Canosa.
[Interno di una tomba greca a Canosa.]

In alcune contrade le tombe sogliono essere quelle dei poveri, come nel piano di S. Giovanni; in altre, la dimora d’una gente più agiata come i sepolcri che si rinvengono dal piano di S. Chirico a quello di S. Paolo, e lungo le strade di Lavello e del maneggio; altrove in fine, come nella contrada detta del rosaio, si ritrovano i mausolei dei più ricchi e potenti cittadini. Gli oggetti antichi che si raccolgono in queste varie classi di sepolcri formano delle categorie di natura diversa e distinta.

Pur tuttavolta fra gli avelli dei meno facoltosi s’incontra qualche sepolcro nobile e ricco. Ricordiamo quello sì famoso scoverto fra tombe volgari nel 1813, ed illustrato dal sig. Millin. Oggi è detto dal nome del proprietario il tesoro di Monteriso.

Ivi si scoprì un guerriero difeso dalle sue armi di bronzo dorato; e lungo le mura della stanza si ritrovarono quei famosi vasi, ov’erano effigiati Issione ed altri colpevoli puniti nell’Erebo, le furie di Oreste, quelle di Licurgo contro le Baccanti, e quelle di Medea contro gl’innocenti suoi figli. Anche attualmente questa tomba conserva le sue antiche sculture praticate nel tufo; da un lato è un cignale che fugge, da un altro un cane che l’insegue; al di sotto qualche ippocampo, ed altri mostri marini. Allusioni funebri, che indicavano il genio del male discacciato da un genio benigno, mentre quegli animali marini erano pronti intorno al poggio ove giaceva il defunto per trasportarlo ai confini dell’oceano nell’isole dei beati.

Cav. Carlo Bonucci

[testo di Carlo Bonucci, “Viaggi nella Terra di Bari”, estratto dal periodico “Poliorama pittoresco”, Stamperia e Tipografia del Poliorama Pittoresco, Napoli, Dic.1853 - Mar.1854, pp. 186-188, 1854, pp. 202-203, pp. 249-250. p. 264. pp. 273-274.]