Castel del Monte, illustrato nel 1895

Contenuto

L’ARTE IN PUGLIA
NEL MEDIOEVO E NEL RINASCIMENTO

STORIA E CRITICA
per cura
DI UNA COMMISSIONE DI SCRITTORI
NOMINATA DALLA SOCIETÀ DI STUDI STORICI PUGLIESI
con incisioni intercalate nel testo
e tavole in fototipia

Fascicolo I - IL CASTELLO DEL MONTE

Prezzo di ogni fascicolo: Lire sei
Rivolgere le domande all’editore E. Bambocci, Bari, Corso V. E., 54
BARI
EDITORE ENRICO BAMBOCCI
1895
Cot Sp_ V. V_cc…… [indecifrabile sull’originale]

ANDRIA

Il Signor Enrico Bambocci, artista egregio, si propone di illustrare con grandi e diligenti tavole in fototipia i monumenti dell’arte Pugliese dal X al XVI secolo.
Siffatto lavoro non fu mai tentato da altri. Il D’Agincourt, lo Schulz, lo Huillard-Breholles e il cav. Demetrio Salazaro diedero in luce, negli atlanti delle loro opere, varie cose nostre fra le più belle; ma nessuno di essi si spinse più in qua del secolo XIV, allorché, pur cessando il periodo della maggior fioritura, non si esaurì tuttavia la nostra produzione artistica. Il signor Muscioni, fotografo romano, ha una numerosa raccolta di fotografie, ma non disposte in ordine, né corredate di note di storia critica, e talvolta inesatte nella indicazione della età dei monumenti. Il signor Bambocci, ponendo a partito gli ammaestramenti ed anche gli errori altrui, e soprattutto l’abilità propria e la propria educazione estetica, vuol fare opera completa.
Con questo intento, egli si è rivolto, per la compilazione della prima parte dell’opera, alla Società di studi storici Pugliesi, risiedente in Bari, e ne ha invocato l’aiuto in ciò che riguarda la designazione dei monumenti da illustrare e la redazione del testo.
Al suo invito la Società non poteva a meno di fare accoglienze lietissime, vedendo in esso la possibilità di svolgere nel modo migliore una parte assai importante del proprio programma. Epperò il Consiglio Direttivo, accettandolo, affidava ad una Commissione di soci l’incarico di redigere l’elenco completo dei monumenti e di collaborare col Bambocci nella illustrazione di essi. Compongono la Commissione i signori: architetto Ettore Bernich, ingegnere Angelo Cicciomessera, Giuseppe Ceci, prof. Raffaele D’Addosio, Gaetano De Luca marchese di Melpignano, ingegnere Giuseppe Lanari, ingegnere Pasquale Malcangi, ingegnere cav. Pio Alberto Nencha, prof. Cav. Giuseppe Orlandi, ingegnere Francesco Sarlo, r[egio]. ispettore degli scavi e dei monumenti antichi, e ingegnere dott. Luigi Sylos. L’elenco, che essa dovrà compilare, comprende non solo le opere di architettura e di scultura, le quali saranno dal signor Bambocci fotografate, ma i quadri, i merletti antichi, gli oggetti di oreficeria e simili. Ognuno intende che a fare con accuratezza questo lavoro si richiedono studio e ricerche pazienti e non brevi. E frattanto il signor Bambocci, lungi dallo sprecare il suo tempo, presenta, come saggio dell’opera, il primo fascicolo contenente la illustrazione del più meraviglioso tra i monumenti nostri: il Castel del Monte.
Se sarà accolto degnamente, gli terranno subito dietro altri fascicoli intesi ad illustrare, con la scorta di speciali monografie, gli altri monumenti, da cui ci parla solenne la voce del passato. Queste monografie saranno redatte da vari scrittori, che, per lunga dimora fatta nei luoghi in cui i monumenti sorgono, abbiamo avuto campo di conoscere ad una ad una le più ascose bellezze e di studiarne la storia. I critici forestieri, viaggiando e studiando en touriste, ce ne dissero, framezzo a molte cose giuste, molte inesatte. Prima di loro, ben poche indagini noi altri vi avevamo fatto, e con la scorta di una critica errata e poverissima; dopo, intendemmo la necessità di far nuove ricerche fra la polvere densa degli archivi e di riparare al disonorevole oblio di noi stessi. Così la storia nostra va rinsanguandosi di studi nostri, va delineandosi nettamente anche nei particolari, va prendendo forma e colore: fra breve, sostando nella analisi e sceveratine gli elementi, noi potremo scriverla. E per ora, cominciamo dalle opere d’arte, che sono sempre la espressione più integra della civiltà. Le studieremo dapprima ad una ad una, conciliando come possiamo, per ciò che riguarda l’ordine, le nostre vedute critiche con le necessità imposte al fotografo nelle sue peregrinazioni. Poi, alle monografie staccate seguirà uno studio sintetico, da cui si desumano i caratteri propri all’arte Pugliese e le evoluzioni che questa  ha subito traverso ai secoli. Ci adopereremo a che la diligenza del testo corrisponda al pregio delle incisioni; e se non raggiungeremo in tutto lo scopo, non sarà per difetto di buonvolere.
Ma la parte principalissima di questa pubblicazione sarà rappresentata dalle tre o quattrocento tavole che il signor Bambocci promette.
Chiunque di pubblicazioni artistiche abbia esperienza e sappia quanto poca fortuna le accompagni nel nostro paese, può immaginare di quante difficoltà l’editore debba trovare irto il suo cammino e quanti sacrifici debba accettare per superarle. Ma ognuno intende anche quanti vantaggi potrà recare un’opera siffatta e quanta gratitudine ne dovranno al signor Bambocci gl’italiani, e in modo particolare gli studiosi d’arte, se egli, perseverando nell’ardore e nel coraggio con cui vi si accinge, la reca a compimento.
Fra i vantaggi, va notato questo: che essa rende facile a tutti, mediante una spesa relativamente tenue, il conoscere perfettamente la nostra bellissima arte, la dove le poche opere che in modo incompleto la illustrano, sono, per rarità e costo dell’edizione, accessibili soltanto ai prediletti della fortuna. Essa può, in altre parole, rendere popolari il culto e lo studio dell’arte: il che dovrebbe essere in cima ai pensieri degli educatori del popolo nostro, e tuttavia non si è mai potuto o voluto fare. L’arte, che nella storia della democrazia italiana ha tradizioni così luminose, oggi in Italia è puramente aristocratica. Nelle nostre scuole continua a prevalere il malinteso classicismo limitato a recare in mediocre lingua vivente un pezzo di Cicerone o di Virgilio; e fra i nostri operai l’utilitarismo socialistico non ha altro a predicare, se non quello che si riferisca direttamente alla soluzione del problema dello struggle for life. Altri campi, altri ideali si additano al popolo, obliando, che pur nelle industrie e nei commerci esso fioriva, più assai di oggi, al tempo dei Comuni, quando l’arte era in grandissimo onore e mostrava di non essere un lusso di gente corrotta, ma uno dei precipui fattori di bene intesa civiltà. E intanto il popolo non trae più dalla ammirazione del bello le inspirazioni al bene, e, al contrario, deprime in una educazione gretta ed egoistica le forze più vitali dello spirito. Dove sono più quelle maestranze girovaghe dei Comacini e dei Cosmati e quei buoni frati di san Benedetto e di san Francesco che si crearono nel mondo la bella fama di popolo d’artisti? Ohimè! Nei grandi caseggiati da pigione sorgenti rimpetto ai palazzi del Buonarrotti e del Bramante con la sfacciata prosopopea di fattori arricchiti in presenza del loro vecchio signore; nelle stazioni ferroviarie rumoreggianti a quattro passi dalle silenziose e malinconiche terme degl’imperatori romani, - l’Italia oggi ride dell’arte come di religione morente, e chiama pazzi quei pochi spiriti eletti che, ultimi sacerdoti, si raccolgono nelle ultime pratiche protestando al sacrilegio. Tornare all’antico, tornare alle glorie dell’arte nostra, indagarne con pazienza e con amore le squisite bellezze, cercare di trarne gli elementi per la creazione di uno stile nazionale, noi che non più del bello stile ma del mediocre gusto siamo costretti a contentarci: questo è dovere di educatori e di patrioti, se vogliamo mostrare al mondo che siam tornati a dignità di nazione per continuare la tradizione dell’antico primato civile, e non già solo per far commercio di vini e di oli coi popoli stranieri.
Per la Commissione Direttiva
Luigi Sylos     

CASTEL DEL MONTE *

Questo insigne monumento dell’architettura civile del periodo Svevo sorge a 17 chilometri a sud di Andria in Terra di Bari e  a 15 chilometri da Corato, su una collina elevata 502 m. sul livello del mare. La più alta della catena delle Murge basse . In quei pressi era nel cadere del secolo XII un monastero di Benedettini, circondato, come soleva, da case di coloni e da campi coltivati. Del qual monastero e dell’annessa chiesa di S. Maria del Monte restò memoria, oltrechè nel nome che da loro prese il castello Svevo (chiamatosi Castello di S. Maria del Monte fino ai tempi Aragonesi), in due documenti.
Nel Liber Censuum di Cencio Camerario nel 1192 è segnato quel monastero pel tributo di un’oncia e mezza di oro dovuto al Vescovo di Andria; e in un decreto di Re Roberto del 24 ottobre 1317 si ordina di trasportare a Napoli per esservi adoperate nella costruzione del monastero di S. Chiara (allora del SS. Corpo di Cristo) due colonne che si trovavano giacenti nel suolo di S. Maria del Monte. Quelle due colonne avevano adornato l’edificio benedettino, sgomberato, come è facile arguire, e ridotta ad altri usi sin dall’inizio della costruzione del castello.
Intorno a questa costruzione noi sappiamo ben poco: appena, e per fortuna, l’anno in cui fu compiuta. Nel 29 gennaio 1240 l’imperatore Federico II così scriveva da Gubbio a Riccardo da Montefuscolo giustiziere di Capitanata:
«Volendo fare eseguire il lastrico nel castello, che presso S. Maria del Monte volevamo elevare, benché esso non appartenga alla tua giurisdizione, pure affidiamo alla tua fedeltà l’incarico di far comporre il detto lastrico con calce, pietre e le altre cose opportune, tenendoci frequentemente informato di quanto farai.»
Abbiam voluto riportare per disteso questo documento, non soltanto perché è il solo di tutto il periodo Svevo che ci sia rimasto su Castel del Monte, ma principalmente perché ci rivela la cura che il grande imperatore prese in questo edificio, la sua diretta sorveglianza anche nei particolari di minor conto.
Dal che riceve conforto l’ipotesi, che della mirabile costruzione sia stato architetto Federico stesso. Avrà avuto, naturalmente, ad aiuto, dei matematici per la composizione delle piante così strettamente armoniche, e degli artisti per la parte ornamentale; ma il concetto informatore dovette essere suo. Ricercare quale sia stato questo concetto e come sia stato esplicato, stabilire quale posto spetti all’opera, che ne originò, nella storia dell’arte in generale e specialmente a quella particolare delle Puglie, è quanto ci proponiamo per questo lavoro. E la mancanza di notizie nei documenti del tempo è compensata ampiamente dal fatto, che l’edificio nella sua struttura e in molti dei suoi ornati è giunto fino a noi quasi integralmente. [1]
  La pianta del Castel del Monte è un ottagono regolare. Sui vertici si avanzano come vigili scolte otto torri esagonali [2], delle quali alcune sono rotonde all’interno e sostengono le scale, altre si mantengono ottagonali e sono destinati a usi diversi, come si vedrà in seguito.
Ciascun lato esterno del gran ottagono misura in media m. 16,30 (e diciamo in media perché vi sono tra essi delle piccolissime differenze [3]), e ciascuno dei lati interni che racchiudono la corte m. 6,60; onde l’apotema dell’ottagono esterno risulta di m. 20,50 e quella dell’interno di m. 9,20. ciascun lato delle torri all’esterno è di m. 3,10 e l’apotema di m. 3,75. La lunghezza totale dell’edificio, presa diametralmente, compreso lo sporto delle torri, è di m. 52; lo sviluppo del perimetro di m. 280 circa. La spessezza dei muri è considerevole in rapporto alle altre dimensioni: nei muri d’ambito esterno è di m. 2,40, e in quelli che racchiudono la corte di m. 2,20. i muri esterni delle torri sono spessi m. 2,30 e i muri divisori m. 1,50. l’altezza media attuale dell’edificio è di m. 24.
disegno pianta del castello
La costruzione è eseguita tutta in pietra da taglio di grana  finissima, compatta, lucente e bianca come il marmo. Per le  parti decorative venne adoperata la breccia corallina, la quale sotto l’azione atmosferica si è disgregata e frantumata, onde parecchi, e fra gli altri il Salazaro, la credettero un impasto artificiale di rottami di marmi colorati uniti insieme con glutine rossa. Questa breccia è invece cavata nel territorio stesso di Castel del Monte, e si rinviene in pezzi calcarei compatti cementati di una roccia calcareo-argillosa d’un color rosso scuro, che può acquistare moltissima consistenza e che, levigata, assume un bellissimo aspetto [4]. Anche il marmo venato fa bella mostra di sé, specie nell’interno, dove fu adoperato a profusione come rivestimento. Siffatta combinazione di materiali costruttivi è di un effetto meraviglioso, e in certe ore del giorno assume colori indefinibili, lasciando incancellabile ricordo nell’animo dell’artista. Ma più che l’armonia dei colori e delle linee è mirabile la tecnica. Le piante sono tagliate ed apparecchiate così maestrevolmente da formare un tutto organico come di getto: negli sguinci delle finestre, nelle strombature delle feritoie, negli estradossi delle crociere le figure geometriche più complicate sono svolte con una semplicità e precisione che incanta; i più difficili problemi di statistica sono risoluti con una sapienza che ben pochi edifici possono vantare; e quanta diligenza e quanto ordine perfino nei particolari più minuti! Nessuna incertezza, nessun pentimento; ma tutto ha la sua ragione di essere, tutto è studiato e calcolato con profonda e matematica disciplina. Così è che la maggior parte dell’edificio ha resistito intatta all’urto di sei secoli e mezzo, ne vi si scorge alcuna di quelle alterazioni che accennano a decadenza. Quella stessa parte, che, esposta dove più  spirano i venti marini, si è sfaldata e corrosa, resiste tuttavia sfidando i secoli e le intemperie e l’incuria degli uomini. Senza dubbio come ora apparisce quella gran massa, disegnantesi con un profilo incerto nell’orizzonte, priva di slanci e di contorni salienti, deserta e abbandonata, vi desta un senso di malinconia. Ma ai tempi del gran Federico noi pensiamo che le sue torri dovevano innalzarsi col loro coronamento ne l’aere purissimo, e d’intorno la muraglia doveva girare adorna della sua merlatura ghibellina simile a quella che l’imperatore aveva fatto costruire nel castello di Lucera. E la grande robustezza dell’insieme doveva essere ingentilita dalla grande squisitezza della ornamentazione; nella quale pare che si fondano il medioevo con la più pura classicità e l’oriente con l’occidente, sicché ne nasce un eclettismo pieno di buon gusto e di trovate felicissime, improntate a fine sentimento estetico ed a sicura libertà ed originalità di concezione.
Il castello ha due porte e due piani. Sugli assi dei lati dell’ottagono sono otto finestre al piano superiore e sette nel piano terreno, dove il luogo dell’ottava finestra è tenuto dalla porta principale.
Magnifica e superba è questa porta: grandiosa nell’insieme, e coi dettagli e profili arieggianti il classico. E va notato, che da le sue linee schematiche appare concepita con rapporti dedotti dall’arte romana. Proviamolo. Tutta la porta è inscritta in un quadrato e mezzo: la larghezza presa agli estremi dei due pilastri è di m. 6,90, la quale misura è uguale all’altezza della traduzione orizzontale, mentre il fronte è alto quanto la metà del quadrato.
confronto porta romana - portale castello
Queste proporzioni non solo riproducono il modulo principale dell’architettura romana, che fu il quadrato (in questa figura è scritto perfino l’assieme del Pantheon di Agrippa), ma sono appunto quelle che si osservano negli archi trionfali di Roma antica, da cui questa porta trae la sua origine. Per rendere evidente al lettore questa osservazione abbiamo disegnato schematicamente la metà della porta nelle figure   BGNE   e   ABGF   e, accanto, l’insieme di un arco trionfale romano. Dove si vede che le linee di assieme dell’una e dell’altro stanno nel medesimo rapporto. Notevoli sono i pilastri con scannellature e i capitelli alla maniera corinzia differenti tra loro, vagamente intagliati, uno con foglie di palma, l’altro con foglie di palma e di acanto: e anche qui si sente la tendenza al classico, quantunque le palme abbiano nervature di medioevale rigidezza. Così nella cornice e nel frontone, in cui le mensole variate e belle seguono l’angolo d’inclinazione, come si osserva in molti esempi della romana architettura. I profili delle cornici sono un po’ duri, ma di sicuro effetto, mentre gentili e quasi carezzevoli sono le basi dei pilastri. All’arco tondo venne sostituito l’acuto con un raggio poco discosto dal centro, onde l’arco non si slancia in alto. Certo questo motivo è medioevale, come sono pure quelle colonnine dove l’arco imposta ed i leoni accovacciati sui capitelli di queste simboleggianti forse l’impresa degli Hohenstaufen [5].
disegno del portale
disegno di porta cortile
disegno cornice delle torri
Se in luogo dei leoni si pongono le sfingi e in luogo dell’ogiva l’arco romano, avrete quasi perfettamente riprodotta la bellissima e magnifica porta dell’ospedale di S. Antonio a Roma. Essa, opera certo dei maestri Cosmati, edificata nel 1269, reca i nomi di Ottone Tusculano, già cancelliere di Parigi, fautore delle crociate, dei Cardinal Pietro Capocci e di Gian Gaetano Orsini, che poi pontificando col nome di Nicolò III doveva consacrare la basilica di S. Nicola a Bari. Ora paragonando queste due porte, non si può negare che per grandiosità e sapore classico e finezza del dettaglio quella di Castel del Monte sia molto più perfetta: e tuttavia l’altra fu costruita trent’anni dopo, il che sempre meglio conferma la superiorità che l’arte Pugliese aveva su quella di ogni parte d’Italia durante l’impero del gran Federico.
Il materiale adoperato per la costruzione di questa porta è la breccia rossa, della quale abbiamo già parlato. È sorprendente come l’artefice condusse l’intaglio dei capitelli e di tutta l’ornamentazione in una pietra così malagevole a lavorarsi: e pure le foglie di acanto e di palma che finiscono a trifoglio sono di una finezza ammirevole. Forse questo portale dovette in origine essere abbellito anche di mosaici nello sfondo della lunetta e di bassorilievi marmorei nel triangolo del frontone. Allora l’insieme doveva risultare ricco di sfolgorante colore. E se è vero che il vano era chiuso da una porta di bronzo con ornamenti geminati d’argento, l’opera doveva essere completa e degna della dimora di un tanto Signore. Ma non vi sono documenti per affermarlo. Solo possiamo dire che vi era la saracinesca scorrente in una specie di intercapedine tra le colonnine che vi stanno di qua e di là dagli stipiti, come si vede nella pianta (fig. 3.).
La luce è di metri 2,33 per 3,60; il diametro dei pilastri scannellati e di metri 0,45, mentre quello delle colonnine è di m. 0,18; ed è notevole che in queste dimensioni, come in altre, il modulo abbia costantemente per base il tre.
Sullo stesso asse della porta principale ve n’ha un’altra, che in generale gli scrittori trascurarono di studiare; e pure essa nella sua semplicità costruttiva e per l’apparecchio dei conci per dell’arco ogivale, egregiamente combinati, è ben degna di considerazione, onde non crediamo inutile darne il disegno e le dimensioni (fig. 4.). Il vano, tutto aperto, è largo m. 1,59, alto all’imposta m. 1,86: la saetta dell’arco è di m. 0,98. Merita esame anche la cornice che ricorre a guisa di stilobate a piè delle torri (fig. 5.). è una delle sagome più simpatiche fra quante ornino il monumento dalla parte esterna: è un profilo attico gradevolissimo all’occhio che sembra disegnato dalla mano di un abile artefice greco. È noto di quanta difficoltà sia il profilare con garbo e il trovare combinazioni vaghe e nuove: le sagome, si può dire, sono come la firma dell’artista. Nella medesima figura 5 diano una parte delle torri, col disegnarvi uno degli spiragli o saettiere, che vi danno luce. Nella parte superiore facciamo rilevare il toro o cordone, che gira in torno in torno al Castello, poco più sotto al piano del davanzale delle finestre superiori.
Questa robusta modanatura, che poi venne messa in uso nei castelli e fortilizi, e divenne una sagoma caratteristica nelle opere militari, apparisce qui per la prima volta. Ma continuando a descrivere l’esterno, si deve specialmente richiamar l’attenzione sulle finestre e dimostrare quanta intelligenza e quanto studio l’artista vi pose. Le finestre nell’architettura, specie in quella civile, sono come gli occhi dell’uomo: esse rispecchiano l’interno; e le finestre di Castel del Monte rispondono degnamente alla splendidezza degli appartamenti. In verità, a confronto della mole dell’edificio, esse sembrano alquanto tozze e meschine, ma considerate a parte e specialmente nei dettagli, traspare da esse quell’aura di rinascenza latina, che due secoli dopo doveva avere il suo pieno svolgimento in Toscana, e si potrebbero paragonare a quelle che Leon Battista Alberti disegnò e Bernardo Roscellino eseguì nella casa dei Rucellai a Firenze verso il 1448. Ciò è più mirabile se si pensa che le costruzioni romane del secolo XIII, vaste di mole, ebbero finestre di nessuna importanza artistica, disadorne, di meschine proporzioni, piccole tanto da parere che temessero quasi quella luce, per la quale erano state costrutte.
disegno di una monofora
Le finestre di questo castello sono di due tipi: spiccatamente romaniche quelle del piano terreno, ogivali quelle del piano superiore. Le prime, in numero di sette, situate nel mezzo di ogni lato dell’ottagono, sono alte dal piano dello stilobate circa m. 2,40: hanno l’arco a pieno centro, gli sguinci all’interno e all’esterno strombati, e sono circondate da una fascia di breccia rossa con una membratura tonda sul vivo dello stipite che da loro carattere di robustezza. La larghezza del vano esterno è di m. 1,20, e va restringendosi nell’interno fino a 0,75; l’altezza all’imposta è di m. 1,67, e all’esterno di 2,10: l’intera fascia è larga m. 0,40. nella fig. 6 se ne vede il disegno.
Molto più ricche sono le finestre del piano superiore, riprodotte nella figura 7. Hanno l’arco ogivale trilobato, compreso da quello acuto, come sempre poco sviluppato. Gli ornamenti tutti in breccia rossa, meno i pilastri d’angolo e la lunetta, che sono di marmo bianco venato. I capitelli compositi, tutti variati e le basi profilate con gusto fine, ripartite con membretti e listelli in combinazione con astragali e cavetti alla maniera della base atticurga, sono per invenzione ed esecuzione veramente mirabili. Le colonnine erano parte in marmo bianco e parte in breccia rossa, come i pilastri: esse mancano ora del tutto [6]. Il davanzale è assai ben scorniciato, ed, esempio nuovo per quei tempi, è sorretto da graziose mensolette.
bifora sul portale
trifora a Nord
Tutte le finestre superiori corrispondono con l’asse di quelle di sotto, meno una, ed è strano  in un edificio costruito con tanta esattezza. Sette sono bifore; l’ottava, che guarda verso Andria, è trifora, e magnificamente decorata (fig. 8.) ed ha sopra l’arco trilobato un’altra apertura di piccole ed eleganti proporzioni: il che produce un insieme nuovo e di effetto grandioso. Ogni bifora è larga all’esterno m. 1,70 e all’interno m. 1,50, ed alta all’esterno m. 2,40 e all’interno m. 1,65; la trifora all’esterno è di m. 2,00 per 2,55. Girando intorno al castello alla distanza di m. 4,50 si trovano tracce di muri, che si prolungano interrottamente verso nord e ovest e sono radenti al piano. Il ch. Ing. F. Sarlo, che nel 1877 diresse i lavori di restauro, afferma che queste dovettero essere le muraglie di cinta, e sembra che il castello ne avesse tre e tutte su pianta ottagonale. Noi pensiamo che esse siano avanzi di costruzioni che a guisa di scaglionate servissero in certo modo di basamento al castello, e l’ultima sia servita di recinto. In tal modo il castello avrebbe fatta ben mostra di se, non essendo occultata alcuna delle sue parti. Ma lasciando stare questa congettura, entriamo nell’interno del castello e descriviamolo, come abbiamo fatto dell’esterno, partitamente.
NOTE
[Precisazione: nelle note che seguono alcune parole, specialmente molte straniere, sono state trascritte in modo approssimato, con alta probabilità di errore, in quanto illeggibili nella copia in possesso del sottoscritto.]

* Il testo è redatto per la parte tecnico-critica dall’architetto Ettore Bernich e per la parte storica da Giuseppe Ceci.  I disegni intercalati sono dell’arch. E. Bernich, e furono riprodotti in zincotipia dallo stabilimento E. Turati di Milano.

[1] Il primo a parlare di Castel del Monte come di un monumento degno di curiosità fu GIOVAN BATTISTA PACICHELLI nelle Memorie novelle dei viaggi per l’Europa cristiana (Napoli, Parrino, 1690, p. 53): egli stesso ne riparlò nelle Memorie in Puglia e in Andria nella stanza di Federico Barbarossa e dei francesi abbattuti, lettera al signor dott. Bernardo Lodoli pubbl. nelle Lettere famigliari istoriche et erudite (Napoli, 1695, p. 156-141), confondendo Federico Barbarossa con Federico II. Ma il Pacichelli scrisse pochi cenni del castello. Quegli che pel primo se ne occupò di proposito, descrivendolo minutamente e raccogliendo quelle notizie che sono poi servite di canovaccio agli scrittori posteriori, fu PLACIDO TROYLI nella Istoria generale del Reame di Napoli (Napoli, 1749, anno IV, parte I, p. 128 a 131). Il Troyli visitò il castello nel 1743, pochi anni dopo vi fu ENRICO SWINBURNE, che ne discorre nel suo Voyage dans les deux Siciles dans les  années, 1777, 1778, 1779, 1780, traduit de l’anglois par M.r de Heralio (Paris, Théophile Barrois le jeune, MDCCLXXXV, p. 367 a 368).

Altre descrizioni sono nei seguenti libri di viaggi: RICHARD KEPPEL CRAVEN, A tour trough the Southern Provinces of the kingdom of Naples (London, Rodavel and Martin, 1821): CESARE MALPICA, Andria, la sua storia e Castel del Monte, reminiscenze di un viaggio nelle Puglie pubbl. in Annali civili del Regno delle due Sicilie (Napoli, 1845, vol. XXXVII. p. 25 a 40, 134 a 151); JANET ROSS, The Land of Manfred (London, 1889).

Ne avevano pure discorso RICCARDO COLAVECCHIA nella Descrizione della città di Andria pubblicata dall’ ORLANDI, Delle città d’Italia e sue adiacenze, compendiose notizie (Perugina, 1772, vol. II, 65 a 80) e il prevosto GIOVANNI PASTORE nelle sue inedite Memorie storiche della città di Andria (passim), parafrasato da RICCARDO D'URSO nella Storia della città di Andria dalla sua origine sino al corrente anno 1841 (Napoli, tip. Varano, 1841, lib. III, cap. III, p. 501). Il  Durso avrebbe potuto conoscere, ma non conobbe, la pubblicazione fatta dal Cavcani del registro di Federico II, dove fu stampato fin dal 1786 il decreto riguardante il lastrico di Castel del Monte, né quella del FORGES DAVANZATI sulla Seconda moglie di re Manfredi (Napoli, 1791) che contiene alcuni documenti interessanti. Di esse si giovò A. Huillard-Bréholles nelle sue Recherche sur les monuments et l’histoire des Normands et de la maison de Souabe dans l’Italie Meridionale publiées par les swins de m.le Duc de Luynes (Paris, 1844, p. 110 a 113) e nella Historia diplomatica Friderici II (Paris, Plon, 1859, Introduction, p. DL a DLIV). Per gli studi dell’Huillard-Bréholles che pubblicò dei bei disegni nell’album annesso alla sua opera e più per gli studi di HEINRICH WILHELM SCHULZ, fatti nello stesso tempo ma pubblicati molto più tardi in Denkmaelen der Kunst des Mittelalters in Unter-Italien (Dresden, 1860, p. 158 a 160), fu cominciato a tener conto di questo monumento nelle storie dell’arte. Conf. A. Ricci, Storia dell’architettura in Italia dal sec. IV al sec. XVIII (Modena, 1858, vol. II, p. 18 a 22); VERDIER ET CATTOIS, Architecture civile au mojen-age; PERKINS, Histoire de la sculpture en Italie (vol. II, pp. 40, 41 e 42); HUGHER, Storia dell’arte ; FREY, Ursprung und Entwicklung staufischer Kunst in Suiditalien (in Deutsche Rundschau dell’agosto 1891). Vennero poi gli scritti di GIUSEPPE  AURELIO LAURIA, Studii e pensieri sul Castello del Monte in Terra di Bari (senza 1. ed a. ma Napoli 1872) che sono una specie di romanzo storico, e di DEMETRIO SALAZARO, notizie storiche del palazzo di Federico II a Castel del Monte (Napoli, 1870, ristampato in Napoli 1875 e negli Studi sui monumenti dell’Italia Meridionale dal IV al XII secolo (Napoli, 1877, parte II, pp. 13 a 16 ) che non aggiunse niente di nuovo.

Intanto nuovi documenti per la storia del Castello nel tempo Angioino furono pubblicati dal Minieri Riccio ne I Notamenti di Matteo Spinelli da Giovinazzo difesi ed illustrati (Napoli, 1870), negli Studi storici della Dominazione Angioina sul Reame di Napoli (Napoli, 1876) e nel Diario Angioino dal 4 gennaio 1881 al 7 gennaio 1883 (Napoli, 1873); e dal DEL GIUDICE nel Codice Diplomatico del Regno di Carlo I e Carlo II d’Angiò (Napoli, 1869) e nel Don Arrigo Infante di Castiglia (Napoli, 1875); e di essi si servì FERDINAND GREGOROVIUS che visitò il Castello nel 1875, prendendone argomento per alcune corrispondenze al Beilage zur Allgemeinen Zenarg di Augusta (n. 327, 328, 329 dell’anno 1873), che furono ristampati negli Apulische Landschaften (i eipzig, 1877) e poi tradotte da R. Mariano col titolo Nelle Puglie (Firenze, Barbera, 1882, p. 223 a 344), dove è soprattutto notevole il preconcetto di riconoscere in ogni cosa l’influenza germanica. Quando comparve la traduzione del Mariano, il DEL GIUDICE aveva pubblicato da poco la sua Famiglia di Re Manfredi (Napoli, Giannini, 1880), nella quale tornò ad occuparsi del castello per la parte che riguarda la prigionia dei figli di Manfredi.

Compendiando le notizie dei precedenti e riunendo i documenti già pubblicati sparsamente, E Merra scrisse una monografia dal titolo Castel del Monte presso Andria, ricordi storici (Bologna, Marezziani, 1889) della quale sta apparecchiando ora una seconda edizione, interamente corretta ed ampliata, con l’aggiunta di molte notizie e documenti inediti. Abbiamo potuto studiarla sulle bozze, e ci è caro ringraziare qui l’egregio A, del gentile permesso. Per i lavori del restauro eseguiti nel castello dopo la compra fattane dal Ministero di P. I. si vegga Francesco Svevo Il Castello del Monte in Puglia e le riparazioni ora fatte per ordine del Ministero di Pubblica Istruzione , Firenze, op. della Pia Casa di Patronato 1885 estr. dal giornale Arte e Storia , Firenze, 1885, anno IV, n.13, pagg.100-101, n.14, pagg110-111, n.15, pagg.118-119), e Restauri a Castel del Monte e al Mausoleo di Boemondo in Arte e Storia (1889, vol. VIII, n. 26, pagg.203-204).

Per dar notizia completa della letteratura dell’argomento seguiamo altre due monografie rimaste inedite. Una di  ___ SCELZA che fu vista dal VOLPICELLA nel 1855 come è scritto nella sua Bibliografia storica di Terra di Bari (Napoli, 1844, p. 124), e l’altra dell’arch. SANTE SIMONE con un piccolo album di disegni, uno dei quali è stato recentemente riprodotto nel numero unico del Congresso della Dante Alighieri a Bari (Trani, V. Vecchi Edit.)

[2] Non rotonde come dice il Gregorovius, né quadrate come afferma l’Hecher ( Storia dell’arte ).

[3] In generale, delle figure simili che abbiano delle piccole differenze di misura tra loro, diamo la media.

[4] Conf. A. Jatta, Appunti sulla geologia e paleorologia della provincia di Bari , Trani, Vecchi, 1887, p. 17.

[5] Dobbiamo anche notare, che il mettere i leoni ai lati delle porte dei palazzi reali è usanza antichissima. Gli Assiri, i Persiani, gli Egiziani ponevano questi animali a guardia delle loro dimore, costume che poi i crociati, venendo dall’Oriente, applicarono alle chiese cristiane.

[6] Furono offerte nel secolo scorso a Carlo III, e questi, sul parere del Vanvitelli, le destinava alle reali delizie di Caserta «per qualche gioiosa fonte circondata da porticato gotico in uno dei boschetti del giardino» (Minieri Riccio, Catalogo dei manoscritti , Napoli, Del Re, 1869, p. 17.  Nel 1757 le 23 colonnine delle finestre esterne erano tuttora al loro posto. Da un rapporto del rev. D. Pasquale Valentino di Bitonto, ingegnere, inviato a Castel del Monte insieme con Francesco D’Autilia dal Presidente della Regia  Udienza  di Trani per verificare quanto vi fosse di vero in una denunzia del forzato Domenico Laini dell’esistenza di colonne di porfidione di verde antico in quel castello, ribade che « soltanto negli appartamenti superiori di detto castello esistono alla veduta del pubblico 96 colonne di finissimo marmo bianco dell’altezza di palmi 11¼, senza la base e li capitelli, ciascuna delle quali tiene di diametro un palmo e un sesto. Le dette colonne sono legate a tre a tre, formando una figura triangolare di palmi3½. Nelle finestre sì esterne che interne (del cortile) vi sono altre 31 colonnette: 15 bianche e 16 marmo mischio. Nell’appartamento inferiore 32 mezze colonne di marmo mischio (leggi Breccia rossa), dell’altezza di palmi 11¾, oltre la base e i capitelli e palmo 1¼ il mezzo diametro. Questo marmo mischio è ritenuto dai periti africano (1). Mancano le lastre di marmo che foderavano le pareti » ( Archivio suppletorio di Trani, Andria, processi di diversa materia, 1717-1796). Ma le colonnette, che non furono portate più a Caserta furono tutte depredate e due di esse possono vedersi ora nel giardino dietro stante al palazzo del fu D. Tommaso Accetta ad Andria sulla via di Barletta. E non esse soltanto ma parecchi altri frammenti si vennero con barbarico costume asportando dal castello fino a pochi anni addietro. Un capitello fu ritrovato in un fondo dei dintorni dal ch. Ing. Malcangi, capo dell’Ufficio tecnico di Corato, e raccolto da lui fu gelosamente serbato.