Ricordi degli Hohenstaufen in Puglia - A. Haseloff

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"Ricordi degli Hohenstaufen in Puglia"

di   Artur Haseloff (1872-1955), traduzione di G. Battisti Guarini

(stralcio )

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[Castel del Monte]

La Puglia è tanto povera di legname da costruzione quanto è ricca di pietra facilmente lavorabile.
Il contadino pugliese raccoglie le pietre dei suoi campi e le ammassa in forma circolare; restringe man mano, verso l’interno, gli strati superiori fino a dar loro la forma di cupola, alla cui costruzione non è necessaria né la calce né il legno. E queste costruzioni informi non stanno soltanto isolate per la campagna: in qualche masseria venti o più di queste cupole a punta si accalcano attorno ad un fabbricato; e di tali trulli è composta una piccola città, Alberobello.

La maggior parte delle città interne della Puglia ha, per vero, ben altro carattere. Esse sorgono su alture basse, prolungantisi parallelamente alla costa, come Bitonto e Ruvo, entrambe note per le lor cattedrali, come Andria, che coi suoi tetti piani e i suoi numerosi agili campanili, a forma di minareti, ricorda così vivamente le città orientali.
Andria era un sito prediletto a Federico II: questi celebra la fedele Andria in parecchi versi che ancor oggi leggonsi sulla porta della città: qui egli fe’ seppellire due delle sue mogli e nei dintorni edificò il suo castello fastoso, Castel del Monte, che troneggia, come una corona, sulla pianura di Puglia. Quanto più sale la strada, tanto più desolata diventa la campagna. Cessa il suolo coltivato, nude alture rocciose appajono, dove un dì boschi sconfinati rallegravano il sentimento venatorio di Federico II. Finalmente la salita si fa più erta e dall’altipiano s’eleva, a forma di cono, la collina fortificata.
Castel del Monte ne occupa tutta la cima. Mura di cinta a forma di terrazza, riconoscibili ancora nei ciottoli numerosi, circondavano le pareti del monte.
Già il piano dell’edificio coincide con logica conseguenza al luogo della costruzione; già non un rettangolo allungato ma un ottagono forma la corte, attorno alla quale si aggruppa l’edificio ottagonale, con otto torri ottagonali emergenti agli spigoli. La stessa ferrea regolarità di costruzione: otto sale al pianterreno, otto al piano superiore, nelle otto torri scale o piccole camere. Regolarità matematica nella pianta e nell’esecuzione.
I vani del pianterreno sono identici, con stretta simmetria, a quelli del piano superiore. Questo rigore nel piano di costruzione e il cupo e possente aspetto di fortezza che presentan l’esterno dell’edificio e la corte e l’ampiezza delle volte poderose colpiscono dolorosamente il visitatore.
La corte è vuota e triste: un luccichio verde corre per l’umido suolo e per le sale vuote odesi gocciolar lentamente l’acqua: le concrezioni stalattitiche mostrano il lungo infiltrarsi della pioggia, dal tetto, attraverso, le volte. Che immagine fulgente dell’antica bellezza può la fantasia contrapporre alla melanconica rovina del presente!
Penetriamo nella camera soprastante all’entrata principale, l’unica che abbia un solo mezzo d’accesso e che però fu creduta sempre la camera privata dell’imperatore. Il pavimento era ricoperto di splendidi mosaici, le pareti di pietre da taglio calcaree, accuratamente lavorate; fasci di candide colonnine marmoree — oggi ricoperte di una patina verde e rossastra — reggevano gli archivolti, attorno alle porte era un rivestimento di marmo rosso—scuro, venato di bianco. Per gradini di marmo si ascendeva a una finestra bifora, a godervi, da comodi sedili, la vista della Puglia. Questa vista può abbracciarsi nella sua completa bellezza solo dalla terrazza del tetto. Scale a chiocciola salgono nell’interno delle torri, quando queste non sono adibite a cisterne, dalle quali un sistema di condutture provvedeva d’acqua il palazzo. Lo sguardo spazia dal monte Gargano fin oltre Bari, con lo sfondo azzurro del mare senza fine, sul quale si profilano luminosamente le bianche città della costa con i loro castelli e le loro cattedrali; le città dell’interno si adagiano alle molli colline, ricoperte di ulivi; e attorno al castello e sui monti, verso l’interno, ove ora impera una grigia solitudine inanimata, si stendeva, un tempo, il bosco.
Nessun altro punto in Puglia era appropriato a reggere un castello imperiale come questo culmine, ai cui piedi giaceva la terra soggetta, cui vaste difese di caccia cingevano tutt’all’intorno.
Quassù fu il 29 aprile 1905 l’imperatore Guglielmo II, lasciando passar nel pensiero i ricordi della luminosa epoca sveva.
Sembra che Federico II abbia personalmente partecipato alla costruzione del castello, cominciata nel 1240. Ciò si può dedurre anche dalle forme architettoniche. Nella corte, in alto, è murato un antico rilievo: è noto che l’imperatore era un collezionista di opere antiche: di esse egli soleva adornare i suoi edifici. Le forme arcaicizzanti del portale maggiore, un arco trionfale svevo un dì adorno del busto dell’imperatore, corrispondono alle sue tendenze di richiamare in vita una prima rinascenza dell’arte, della quale son testimonii ancor oggi le sue celebri monete auree.
Anche le forme franco—gotiche della costruzione e dell’ornatistica dimostrano che all’imperatore non dispiacevano i grandi progressi dell’arte francese. Sì che l’edificio è lo specchio della sua poliedrica e perspicace personalità.
Come che sia, noi non sappiamo se l’imperatore abbia visto finita la sua opera o se la morte lo abbia colpito prima. Un tragico destino incombette dopo sull’edificio. Quando, il 4 marzo 1266, Elena, la vedova del figlio prediletto di Federico, Manfredi, fu fatta prigioniera in Trani, i figli minorenni di Manfredi, il maggiore dei quali aveva allora appena quattro anni, furono imprigionati a Castel del Monte. Anche ventott’anni dopo il feroce lor nemico si ricorda di essi: e dichiara, con mirabile magnanimità, essere cosa indegna lasciarli morir di fame; e si ricorda, tardi, di toglier loro le catene! Questo potrebbero raccontare, del destino della famiglia imperiale, le mura del superbo castello di Federico II.
Ma i pastori, ancor oggi, nelle chiare notti di luna, quando gli asfodeli ammantano la collina, vedono il bel Re Manfredi cavalcare verso il castello.
Le alture inospitali dietro Castel del Monte, le quali chiudon lo sguardo verso la terra senza coste, formano la linea di displuvio delle acque.

La terra di Bari non ha alcun corso d’acqua, ma qualche sorgente isolata: al di là di questi monti comincia una rete di valli profonde, le cui acque si riversano nel mar Ionio. L’aspetto del paesaggio muta completamente: quale contrasto tra la pianura pugliese e le aspre vallate boscose della Basilicata, il cui fondo colman di continuo le acque dei monti, impetuose e mugghianti! In alto della catena montana, alla base del Vulture, il cui profilo vulcanico attira lo sguardo fin dalla Capitanata, preser piede, un tempo, i Normanni: a Melfi era la loro fortezza, a Venosa l’Abbazia ove furon sepolti i loro principi.
Gli Svevi soggiornarono spesso e di buon grado in queste contrade, e Federico II qui, come da per tutto, in punti strategicamente importanti o dove la bellezza delle campagne, il bosco o il fascino selvaggio del paese lo colpiva, costruì castelli. Lagopesole, a cavaliere del lago omonimo, ancor oggi in piedi; a Gravina, sull’altura della cittadella, onde l’occhio spazia per una rete di vallate, stan le ruine del castello; un frutteto occupa il cortile e ricopre l’antico suolo; pure, sulla ripida costa della collina, il palazzo s’erge ancora, con le sue magnifiche mura di pietre da taglio, fino al terzo piano, lasciando scorgere il sito originario dei vani e la solidità e la bellezza della sua costruzione. …

[tratto da “Ricordi degli Hohenstaufen in Puglia”, di Artur Haseloff, estratto dai “Westermanns Illustrierte Deutsche Monatshefte” (aprile 1906), traduzione di G. Battisti Guarini, Tip. Antonio Liccione, Melfi, 1906, pagg. 26-31