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“Andria nel Medioevo”

DA “LOCUS” ROMANO-LONGOBARDO A “CONTEA” NORMANNA

di Pasquale Barbangelo

Parte prima:   ANDRIA NELL’ALTO MEDIOEVO

II – LE ORIGINI STORICHE DI ANDRIA

Alcuni storici sostengono che Andria fu fondata da Pietro il Normanno, figlio di Amico, dopo che nel congresso di Melfi (1043) i Normanni gli ebbero assegnato la contea di Trani, da conquistare.
A tal proposito riferiscono i versi di Guglielmo Apulo:

"Edidit hic Andrum, fabricavit et inde Coretum
Buxilias, Barolum maris ædificavit in oris"

Guglielmi Apuliensis, Gesta Roberti Wiscardi, L.II

In verità non si trattò di vera e propria fondazione, ma di elevazione al rango di «civitas» fortificata della «villa» preesistente, dopo avervi concentrati i «loci» o i «casali» dei dintorni.

Dell’esistenza di Andria prima che i Normanni conquistassero la Puglia non v’è alcuna ragione di dubitare, anche se bisogna convincersi ch’è vano ricercarne le origini in età remotissime.

L’importante stazione archeologica - illustrata dallo Jatta e dal Gervasio e più volte ricordata dal Patroni nella sua "Preistoria" (1) che va sotto il nome di Andria ha la sua ubicazione nella "Villa Porro-Regano", distante circa un miglio dal centro abitato, le cui origini sono in questione.

Né di Andria v’è alcun cenno negli scrittori antichi: le epigrafi e le tombe con oggetti romani, rinvenute nelle campagne dei dintorni di Andria - ammesso che sia vero quanto asseriscono alcuni studiosi locali - testimonierebbero, tutt’al più, che nel territorio dell’antica ed opulenta Canusium, «municipium» romano, sorsero, nel tardo impero e nell’alto medioevo degli agglomerati di case: «villæ», «vici», o «pagi», per la presenza di estesi latifondi e di grandi proprietà signorili. Comunque nessuna di tali località è mai ricordata negli scritti di quei tempi, neppure in quelli di carattere storico o geografico, né - d’altronde - è segnata negli «Itinerari».

V’è chi si è appellato a Strabone, a Plinio, alla Tavola Peutingeriana, all’Itinerarium Antonini; ma, non trovandovi segnata o nominata la nostra città, s’è dato a fantasticare su altri nomi di centri, una volta abitati, del nord-barese - come Netium e Rudae/-as, che appaiono localizzati nelle carte tra Bari e Canosa - e con estrema leggerezza, se in buona fede, con saccente disinvoltura, se mosso da vanità campanilistica sostiene che 1’uno e/o 1’altro sono i nomi di Andria in epoca romana.

Non si può accettare neppure l’Andri di cui si fa menzione nella lettera-relazione di S. Placido a S. Benedetto (563 d.C.), perché si tratta di una lettera dichiarata apocrifa dagli studiosi.

Il vero è che il nome della nostra città - in una forma leggermente diversa da quella odierna - compare la prima volta in un documento, storicamente ineccepibile, degl’inizi del X secolo: precisamente in una «carta» dell’Archivio del Capitolo Metropolitano di Trani. (2) È un «breve»(3) redatto in Trani dal giudice Teodelgrimo «tercio anno imperio domini Constantini gloriosissimum imperatorem nostrum mense octubrio quarta indictione»(4), cioè nell’ottobre del 915.

Davanti a lui s’eran presentati tali Pietro di Landone e Maiulo di Rattiperto, entrambi del «loco» di Tretaso «in finibus Canusinis». Pietro aveva prodotto una «cartula», rogata dal notaio Bartolomeo e «roborata» «per testes», «facta bicesimo quinto anno imperii domini leoni et alexandri imperatorum nostrorum mese augusti quartadecima indictione», cioè nell’agosto del 911. Si trattava di un contratto, in base al quale lo stesso Pietro era divenuto proprietario di certi beni, posti nel «loco» di Tretaso, in quanto gli erano stati donati da Maiulo «pro anima sua». Ora, col consenso di entrambi i contraenti, Pietro rescindeva il contratto e restituiva «cartula» e beni a Maiulo. Per garantire che né lui né i suoi eredi avrebbero affacciato pretese sui beni appena restituiti e che questi potessero essere minacciati di evizione, Pietro presentava come mallevadori Zaffiro di Grifone «qui et Teodelgrimos vocatur», protospatario imperiale, e Adelprando di Ralemprando «ex loco Andre» e per loro «mediatore» o fideiussore poneva Ursone. Il contratto si concludeva con la penale: venti solidi costantiniani e l’eventuale pignoramento. Seguiva la dichiarazione dell’estensore del «breve», Nandolfo diacono e notaio. In calce al «breve» ci sono le firme del giudice Teodelgrimo e dei testimoni Teudelperto e Maielgardo.

Quindi nell’ottobre del 915 Andre era un «locus» dipendente dalla città di Trani. Il Prologo (5) spiega l’origine dei «loci», numerosi nella nostra regione, risalendo all’«ordinamento stabile che si dette al colonato romano nei secoli del basso impero». In quell’epoca infatti, furono promulgate leggi che asservirono alla terra i coloni, costringendoli a dimorare sulle terre che lavoravano, senza potersene mai allontanare.
In caso di vendita o di un qualsiasi "passaggio di proprietà" i coloni seguivano la sorte dei fondi ed era proibito alienare gli uni separatamente dagli altri. Diventavano, così, "servi della gleba" e questa condizione di servaggio si trasmetteva ereditariamente. La costante diminuzione di lavoratori liberi, l’inarrestabile diffusione del latifondo, l’area sempre più estesa di terre deserte obbligarono lo Stato ad alimentare il colonato, il cui vero scopo fu - a dir del Tamassia - (6) "quello di avvincere colla terra l’uomo, sia per rendere possibile il pagamento dell’imposta fondiaria, sia per tramutare gl’inabili al servizio militare - gli schiavi - in persone che, pur se non del tutto libere, tali potessero essere considerate agli effetti della milizia". Coloni divennero i prigionieri di guerra donati dall’imperatore ai provinciali, i mendicanti "inutile peso della terra" e i "suscepti", poveri che si "commendavano" ai ricchi. Si giunse persino da parte dei proprietari ad ottenere dall’imperatore il diritto di "colligere extraneos" e di tenerseli se questi chiedevano di essere accolti nelle loro terre. Tale diritto era giustificato dalle particolarissime condizioni dell’Italia meridionale, in cui vasta era 1’estensione dei latifondi e delle terre incolte.

In tal modo «ogni grossa proprietà territoriale, o diverse proprietà più piccole unite insieme, coltivate com’erano da una popolazione più o meno numerosa, ebbero un centro comune destinato all’abitazione dei coltivatori e delle loro famiglie». (7)

I più importanti abitati colonici di questo genere erano chiamati «loci» o «vici» (8) ed in essi risiedevano anche un parroco o un «chorepiscopo» per l’amministrazione dei sacramenti e per il governo spirituale delle popolazioni rurali. La dominazione longobarda lasciò intatta 1’istituzione del colonato.

Comunque, non sembra essere stato questo l’unico processo storico-sociale che diede origine ai «loci». Altri studiosi richiamano giustamente l’attenzione sulle divisioni di terre che i generali vittoriosi prima, i feudatari poi, fecero tra i loro soldati o tra i loro sudditi; e principalmente sull’opera dei monasteri dei due grandi ordini religiosi del tempo, Basiliani e Benedettini, che ricevevano frequenti donazioni di terre dai conquistatori, sia longobardi che bizantini. Intorno ad una «cella» di monaci o ad una «laura» di cenobiti si raggrupparono a mano a mano le capanne dei servi, dei ministeriali, dei censuali, dei guardiarménti. L’abate diventò barone e il «locus» prese il nome o del monaco o del papasso o anche lo derivò da quello a cui era dedicato l’eremo o il cenobio o la chiesa. Talora i «vici» o i «pagi» presero il nome dai predi su cui sorsero, sicché non c’è da meravigliarsi se nei loro nomi ci si riferisce a particolari aspetti del paesaggio o a coloro che un tempo erano stati i proprietari dei predi. (9)

Benché non possediamo alcun documento storicamente affidabile, che ci illumini almeno sull’epoca in cui ebbe origine il «locus» Andre; tuttavia da una «carta» del Prologo, datata «quarto anno principato domini nostri Siconolfi mense iunios sexta indictione», quindi del giugno dell’843, sappiamo che nei dintorni della città, entro il raggio di circa un miglio, esistevano altri due «loci»: Tremodie e Cicalio (10).

È quindi altamente probabile che esistesse anche Andre in epoca longobarda: Adelprando di Ralenprando - sia il nome sia il patronimico ne denunciano la nazionalità longobarda - doveva appartenere alla classe sociale dei «maiores», se la sua consistenza patrimoniale gli consentiva di offrirsi come mallevadore «in solido», col figlio di un «protospatario imperiale». D’altra parte anche il rettore della chiesa di S. Pantaleone in Tremodie, il «rationabilis» e «diaconus» Arrioaldo è di nazionalità longobarda e quindi socialmente di rango elevato.

Entrambi facevano parte di comunità rurali, in cui si indovina una stratigrafia sociale di non recente formazione: la dominazione longobarda non solo aveva lasciato le sue tracce vistose nell’ambito delle consuetudini e del diritto - l’istituto della «wadia», con relativa penale ed eventuale «impignatio», è tipicamente longobardo -; ma aveva altresì impresso il suo marchio nella struttura sociale dei «loci»; di Andre e di Trimodie.

A mio modesto avviso, perciò, Andre - così come Tremodie, Cicalio e Tretaso - esisteva come comunità rurale prima che i monaci basiliani istituissero le «laure» nel nostro territorio. Il fatto, poi, che Andre, Tremodie e Cicalio sorsero nei pressi di grotte naturali o artificiali o di «grave» trova la sua logica spiegazione nella frequente necessità della popolazione rurale di avere per così dire «a portata di mano» un rifugio provvisorio, ma pronto e sicuro, in quei tempi calamitosi. Infatti frequenti erano le guerre tra Goti e Bizantini durante il VI secolo e tra questi e i Longobardi durante quasi tutto il VII secolo; alle quali bisognerebbe aggiungere il trattamento ostile e persecutorio dei Longobardi ed ariani nei confronti delle nostre genti romane e cattoliche, almeno fin verso la metà del VII secolo.

Quasi che le conseguenze disastrose di tante guerre non bastassero, la vita travagliata delle nostre popolazioni fu resa sempre più precaria, difficile ed esposta ad ogni genere di rischi dalle incursioni, dai saccheggi, dagli incendi e dalle distruzioni a cui i saraceni, ora per proprio conto, ora al servizio dei Longobardi beneventani, sottoposero le nostre terre.

Questa mia spiegazione vuol essere anche la risposta al legittimo dubbio che si affacciò alla mente del Prof. Salvatore Liddo, che in un suo studio compiuto sulle condizioni edilizie del quartiere della nostra città "Grotte di S. Andrea" ritiene discutibile la tradizione popolare, secondo la quale esso fu il nucleo originario di Andria; ed arbitraria l’affermazione "che le grotte di formazione naturale, realmente esistenti anche nelle zone adiacenti, fossero state abitate". "Codesta vita trogloditica - commenta il Liddo - non è ammissibile se non in epoca neolitica, se non addirittura paleolitica, alle quali ere non si può assolutamente far risalire l’esistenza anche di un primo nucleo di abitanti di Andria"; e poi conclude: "Resta intanto certo che in epoca remota fu costruito nell’attuale quartiere delle "Grotte" un complesso disordinato di abituri, con un numero di abitanti di molto superiore all’attuale". (11)

Pianta delle "Grotte di Sant’Andrea"
Pianta delle “Grotte di Sant’Andrea” prima che il rione fosse "abbattuto" negli anni ’50: la sua superficie era di mq. 7880; vi abitavano 626 persone. Le "Grotte", presumibilmente, furono il primo nucleo della nostra città.
Da "Amministrazione Comunale di Andria, Le Grotte di Sant’Andrea in Andria", Inchiesta d’Igiene Sociale del Prof. Salvatore Liddo, Molfetta 1953 p. II.
NOTE
(1) G. Petroni, “Preistoria”, Milano 1951, vol. I, pp. 220, 223, 224, 226, 227 e 236.
(2) A. Prologo, “Le carte che si conservano nell’Archivio Metropolitano della città di Trani”, Doc. IV, p. 26, Barletta 1877.
(3) Il «breve» nel Medio Evo e fino al sec. XIII è il documento di prova redatto dal notaio, a richiesta del destinatario e privo della firma dell’autore, posteriormente alla conclusione del negozio, allo scopo di conservarne la memoria. Differiva perciò dalla «carta» che aveva valore dispositivo. Questa, infatti, sempre nel Medio Evo, è un documento dispositivo in stile soggettivo che, redatto nelle forme volute per assicurare l’autenticità, compie e rende valido un negozio giuridico, ne costituisce testimonianza autentica, e come tale può essere prodotto in giudizio dalla parte interessata. Il negozio giuridico può essere sia pubblico che privato. «Carta» ma anche «charta»: dim. «chartula». Dizionario Enciclopedico Treccani, vol. II, p. 480, vol. III, p. 130, Roma 1978.
(4) L’indizione è un ciclo cronologico di 15 anni - a quanto pare introdotto in Egitto - che dal sec. IV d.C. in poi fu usato nei documenti sia in Occidente che in Oriente. Anno di partenza per il computo dell’indizione è il 313 dell’era volgare. Il numero d’ordine che spetta ad un qualsiasi anno dell’era volgare nella sua indizione si trova aggiungendo 3 al detto anno e dividendo per 15. Il resto di tale divisione ci dà l’indizione. Se il resto è nullo, l’indizione è 15. Il giorno da cui le indizioni avevano inizio, poi, non era sempre il 1 gennaio - secondo l’indizione romana o pontificia, largamente usata in Occidente dal sec. IX in poi e nel calendario ecclesiastico -; ma il 1 settembre: indizione greca o l’8 settembre: indizione senese o il 24 settembre: indizione bedana o costantiniana»,. Enc. Ital. Trec.
Pertanto, benchè 915 e. v.+3:15 dia per resto 3, l’indizione del nostro «breve» è la quarta, essendo questo stato redatto in ottobre e trovandosi Trani a far parte delle terre governate da Bisanzio.
(5) A. Prologo, "I primi tempi della città di Trani", Giovinazzo 1883, p. 78.
(6) N. Tamassia, "Lo ius affidandi", in "Studi sulla storia giuridica dell’Italia Meridionale", Bari 1957, p. 248.
(7) A. Prologo, "I primi tempi della città di Trani", l.c..
(8) Cod. Justin. I, 12,5 (a. 451) c, «vel vici vel loci» in "Thesaurus linguae latinae" vol.VII, fasc. X, p. 1581, Leipzig 1976.
(9) G. Racioppi, "Origini storiche basilicatesi investigate nei nomi geografici", Napoli 1876, pp. 12...23.
(10) A. Prologo, "Le carte che si conservano" ecc. ecc., Doc. II, p. 24.
(11) Amministrazione Comunale di Andria, Le Grotte di S. Andrea in Andria, "Inchiesta d’Igiene Sociale del Prof. Salvatore Liddo", Molfetta 1953, pp. 9-10.

[da “Andria nel Medioevo”, di P.Barbangelo, tip Guglielmi, 1985, pagg.18-23]