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“Andria nel Medioevo”

DA “LOCUS” ROMANO-LONGOBARDO A “CONTEA” NORMANNA

di Pasquale Barbangelo

Parte terza:   ANDRIA NORMANNA

II – LA SEDE VESCOVILE DI ANDRIA
E IL SUO VESCOVO RICCARDO

Pur nell’assenza totale di documenti a cui far riferimento, ritengo sia sufficiente la conoscenza dell’organizzazione ecclesiastica nella Puglia longobardo-bizantina perché si possa desumere che Andria, finché non fu elevata al rango di città, e perciò in quanto “villa” e “chorìon”, fu il centro di un “distretto arcipretale” ed ebbe una “chiesa arcipretale” “che fungeva da «ecclesia baptismalis» con oneri come l’amministrazione dei sacramenti e benefici come il diritto di decima” (1).
Unità minori del “distretto arcipretale” erano le chiese affidate ad un “rector”, che esercitava le stesse funzioni carismatiche di esclusivo diritto della “ecclesia matrix” alla quale rimaneva sempre legato. Tale fu l’ “ecclesia S. Pantaleonis” del “locus tremodie” che nella “charta” del Prologo dell’843 troviamo affidata al “rector” Arrioaldo. D’altra parte la “chiesa arcipretale” di Andria con il suo distretto rientrava nella giurisdizione episcopale di Trani, come ci mostrano le “chartule confirmationis” della “Chronica Monasterii Casinensis” di Leone Marsicano e Pietro Diacono e quelle del “Syllabus græcarum membranarum” del Trinchera, in cui si leggono espressioni come “in loco Andre, sub Trane” oppure “et in villa que est de civitate ipsa (Trane), que cognominatur Andre” e – senz’alcuna possibilità di equivoco – “eis ten diacràtesin teu càstrou tranòn cài eis to chorìon to caloùmenon Andras”.

Ma una volta che Andria divenne città, e dal 1073 contea normanna, non ci è dato sapere se e quando essa fu eretta “sede episcopale”, almeno fino alla metà press’a poco del XII secolo.

Il Fonseca sostiene che “alla fine dell’XI secolo”, nell’ambito di un intervento dei conti normanni sull’organizzazione ecclesiastica – conforme alla “politica di Urbano II nei confronti delle istituzioni diocesane dell’Italia Meridionale, sia per quanto riguarda la ristrutturazione delle provincie metropolitiche … sia per quanto riguarda la creazione di nuove sedi episcopali nei territori conquistati dai Normanni” – “Andria, Bitetto, Bisceglie, Castellaneta e Mottola furono erette sedi vescovili". Inoltre, partendo dal presupposto – fors’anche fondato – che “la dignità vescovile venisse richiesta per quelle città che i Normanni avevano scelte quali centri amministrativi del loro potere politico(2), trova il modo di ribadire che Andria “in quanto sede dell’omonima contea normanna fu eretta sede vescovile” alla fine dell’XI secolo.

Ora, a parte il fatto che una siffatta argomentazione lascia l’impressione di essere soltanto speciosa, dal momento che non è suffragata né da documenti né da testimonianze di cronisti coevi; c’è da chiedersi chi fu il Conte normanno di Andria che, uniformandosi alla politica su accennata di Urbano II, avrebbe chiesto ed ottenuto che Andria fosse creata sede vescovile. Non certo il fantomatico conte Riccardo, figlio di Goffredo e nipote di Pietro II: un evento d’importanza così rilevante avrebbe lasciato, oltre tutto, una sia pur minima traccia, non dico nella storia della nostra città, ma almeno nella sua tradizione.

È vero che il Fonseca, per dare autorevolezza alla sua congettura, richiama in nota l’ “Italia Pontificia” del Kehr (3); ma, se la si consulta, riguardo ad Andria si viene a sapere che non è ammissibile la pia tradizione andriese dell’inglese S. Riccardo, primo vescovo di Andria nel V secolo – restano così convalidate le conclusioni a cui giunsero il Lanzoni, il Monterisi e lo Zagaria – e che “non si sa assolutamente nulla dell’epoca in cui Andria fu eretta sede vescovile”. Dei vescovi di Andria del XII secolo, poi, si conoscono solo Leone e Riccardo. Leone compare come “donatore” al Monastero di S. Stefano ad rivum maris nel 1137 dell’ “Hospitalis” di S. Maria, detto del Monte Balneolo, e nel 1144 della Chiesa dei SS. Martiri Nicandro e Marziano, edificata “in silva Andriensi”: in quella “Cronaca di S. Stefano ad rivum maris” che Michelangelo Schipa dichiarò “un'impostura storiografica”, ma il Kehr ha rivalutata (4). Riccardo partecipò nel 1179 al Concilio Lateranense convocato dal pontefice Alessandro III (5).
Stando così le cose, si deve concludere che l’ipotesi avanzata dal Fonseca non ha l’appoggio di alcuna prova.

Alcuni nostri storici locali, poi, – per i quali la sede vescovile di Andria sarebbe stata istituita con S. Riccardo alla fine del V secolo – danno per certa l’esistenza di due vescovi di Andria nel primo trentennio nel XII secolo: Desidio e Ilderico. Essi comparirebbero rispettivamente in due “pubblici istrumenti”: il primo in una “Bolla” del settembre 1104, il secondo in un “Decreto” del settembre 1126, entrambi intesi a stabilire rapporti giurisdizionali ed economici canonicamente corretti – pur nelle graziose concessioni – tra il Vescovo e il Clero del Capitolo della Cattedrale di Andria e il “Præpositus” e il Clero della Chiesa di S. Maria di Trimodie, trasferitisi ed accolti nella nostra città, dove per ragioni di sicurezza s’erano rifugiati “multi cives” trimodiesi.
Ma, se si esamina la “Bolla” del cosiddetto “vescovo Desidio”, riportata parzialmente dal D’Urso (6) e integralmente dal Merra (7), si giunge ad una sola conclusione: che essa è apocrifa e, pertanto, non la si può addurre come prova dell’esistenza né del vescovo Desidio né della sede vescovile di Andria agl’inizi del XII secolo.

Già il Merra incontra serie difficoltà nell’accettare come autentica la “Bolla” suddetta (8). Ma più interessante è il giudizio che ne dà il dotto paleografo Francesco Nitti di Vito in una sua lettera indirizzata al nostro illustre storico Giuseppe Ceci, datata “Andria, 23-1-1909”:
“Il documento è indubbiamente falso sotto il rispetto paleografico: per me non è anteriore, a dir poco, al 1350. Il carattere è tutto di una mano, forzato nelle sottoscrizioni; elementi di falsificazione sono, oltre la scrittura, il suggello di cera viola, la pergamena, un segno che vuol essere tabellionato, ma che non ritrovasi se non in documenti della fine del XIV secolo, l’indizione tralasciata e errata etc.". E più oltre aggiunge: “… e con un po’ di studio accurato potrà venirsi a una di queste conclusioni:
1) Il documento è tutto un’invenzione e fu manifatturato per accampare diritti giurisdizionali o economici: il falsario, poco esperto, tenne presente, pel carattere, suggello e tabellionato, un documento del secolo XIV e XV. Questa totale falsificazione io l’escludo a priori, essendoci la tradizione che, per quanto ampliata e svisata, deve avere, come tutte le tradizioni, un fondo di verità.
2) Il documento è una falsificazione parziale; cioè interessando al Capitolo di esibire un documento che attestasse qualche diritto di più del reale, il falsario, avendo presente il documento originale, lo trascrisse, cogli elementi scrittorii di cui disponeva, aggiungendovi e togliendovi delle frasi che interessava togliere e aggiungere per la propria causa. Dopo avrebbe distrutto, per ogni buon fine, il documento originale.
3) Esisteva la tradizione, esisteva forse il documento originale, che non si seppe rintracciare e non si seppe leggere, e allora, a memoria si sarebbe foggiato il nuovo documento” (9) (10).

Fra le tre conclusioni del Nitti sono d’accordo con lui nell’escludere la prima: il fatto stesso che il Clero della Collegiata di S. Nicola poté produrre la “Bolla” di Desidio nelle controversie con quello della Cattedrale – e non senza successo – davanti a vescovi, arcivescovi e protonotari apostolici, nel corso di vari secoli, esclude che si possa rifiutare il documento giudicandolo una “totale falsificazione”.

Neppure la seconda conclusione – secondo la quale la Bolla desidiana sarebbe stata parzialmente falsificata dai Nicolini “aggiungendovi e togliendovi delle frasi che interessava aggiungere e togliere” per ottenere e rivendicare “qualche diritto di più del reale” – sembra realisticamente accettabile. L’esistenza del reale documento originale – che poi sarebbe stato distrutto dal “falsario” – gli avrebbe impedito di incorrere in errori storici e filologici grossolani.

All’epoca in cui fu steso il documento originale spettava all’autorità politica non a quella religiosa la facoltà di concedere ai cittadini o al clero di un villaggio di trasferirsi nella città. Se a Bisceglie il vescovo Dumnello nel 1074 concesse alle genti dei “loci” di Cirignano, Pacciano e Zappino la chiesa di S. Adoeno, la concessione fu un atto di amministrazione ecclesiastica nei rispetti di cittadini biscegliesi che avevano già costruito la Chiesa a proprie spese e vantavano su di essa il diritto di patronato.

Inoltre, nei documenti dell’XI e del XII secolo il nome “Desidio” compare solo e sempre sotto la forma di “Disigius”, sicché esso non è che la “deformazione” a cui andò incontro nei secoli successivi. D’altra parte non vi compaiono mai nomi come “Ladislao” e “Tarquinio”, in uso se mai nel XIV secolo.

Infine, all’estensore della “Bolla” originale sarebbe stato impossibile incorrere nell’incredibile svista di determinare la “penalità” in “oboli” – moneta in corso mezzo millennio prima – (11) invece che in “solidi aurei” e in “denari bizantini” e in “miliaresi” e in “follari”: tutte monete, quale di conto, quali reali, che uniche ebbero corso durante la dominazione bizantina e quella della prima generazione normanna (12), destinate ad essere soppiantate dalle monete imposte dal re Ruggero II.

Per tutte queste ragioni sono propenso ad accogliere la terza ed ultima conclusione proposta dal Nitti. Anzi mi conforta la constatazione che tale conclusione e le ragioni da me esposte furono anticipate sostanzialmente da un dotto studioso del XVIII secolo, Filippo Festa, che nella “Dissertazione su S. Nicola Pellegrino” (negli “Zibaldoni Manfredi”, vol. II, p. 182 della copia Beltrani) così si esprime sulla “Bolla di Desidio” e sul “Decreto di Ilderico”:

“Dell’altro nominato Ilderico formarono (i “Clerici” del Capitolo della Cattedrale) un altro diploma con la data del 1126, con cui si vuole rimproverato che li preti di detta Chiesa di S. Nicola avevano apprestato il viatico e l’estrema unzione ad un cittadino chiamato Feliciano, il cui cadavere avevano nella loro chiesa seppelito estendendo la concessione di Desidio dell’anno 1104 fuor dei casi in quella espressi, i quali restringevansi nella comune cura del fonte battesimale e nel ricevere li chierici e seppelire i cadaveri di coloro che avessero in detta Chiesa di S. Nicolò i propri cimiteri. Per lo che ordinò che gli ecclesiastici di quella Chiesa rinnovato avessero sotto pena di mille oboli e di scomunica “Domino nostro Honorio reservata”. Ritengo finti i due vescovi (Desidio e Ilderico) e falsi i diplomi (del 1104 e del 1126), perché non conformi alla disciplina ecclesiastica e alla “pulizia civile” del tempo. Nei villaggi non era immaginabile un collegio di ecclesiastici presieduta da Preposto, mentre allora v’erano soltanto decani nominati o dal Vescovo con presentazione dell’Arcidiacono o dell’Arcidiacono stesso o infine dall’Arciprete. In tutti i casi dubbi dovevano riferire o al primo o al secondo. (Capitolo de Officio Archipresbiteri e Capitolo de Officio Archidiaconi). L’Ufficio di “Præposito”, la cui autorità si riferiva agli affari temporali, era proprio dei monasteri di monaci e passò ai Capitoli dei Canonici allorché anche fra questi s’introdusse la vita comune. (Tommasini, "Discipline". Libro II, Capitolo VI Paragrafi II e III). Così fu stabilito dai decreti di Carlo Magno e di Ludovico il Pio. Nell’XI secolo era cessata la vita comune dei canonici. Non vale l’esempio di Canosa essendo ivi la carica di prevosto una concessione speciale venuta posteriormente. Tutte le formule ed espressioni sono anche false: i nomi non sono comuni a quel tempo, come quelli di Antonio, di Vigilio, di Ladislao, di Coluzio, di Tarquinio, ma furono in uso nel secolo XIV.

La formula “de consensu nostri presbiteri” è molto più antica e affatto disusata quando i collegi dei preti si chiamavano a capitolo: il vedersi conceduta ai preti e agli abitatori del villaggio l’ingresso in città conferma l’impostura, non essendo ciò in facoltà del Vescovo. È poi inverosimile la concessione di tutte quelle ampie facoltà date ai preti di S. Nicola senza nessuna ragione, mentre simili privilegi si davano ai soli capitoli-cattedrale. Il tributo di otto denari è anche una prova della falsità non essendo quella moneta in corso a quel tempo, mentre allora nei contratti si specificava sempre se erano soldi di Costantinopoli, follari, michelati e romesini, che erano le monete più in corso. Inoltre manca l’indizione (nella Bolla di Desidio) perché probabilmente il falsificatore non era pratico nel computarla. Finalmente che il Vescovo segnasse in cera rossa con suggello pendente ed il vedersi sottoscritto dal tabellario erano cose purtroppo improprie e dimostrano l’ignoranza di chi fu il costruttore, mentre né le chiese e i capitoli avevano nel duodecimo secolo li Tabellarii, come nomi aborriti dalla Discipli-na Ecclesiastica e molto meno di loro suggelli pendenti erano in uso in tal maniera presso dei Vescovi e nelle di loro Bolle. Che poi (?) ed il Vescovo Desidio, e la concessione vedesi una miserabile finzione posta in campo per li litiggi della Cattedrale, e questa diede motivo all’altro infinto Vescovo Ilderico ed alla spiega del riferito diploma esposto dalla Cattedrale, non avendo per l’ignoranza della Diplomatica altra maniera di ribatterla.

Con l’erezione del Vescovado di Andria ai tempi dell’Arcivescovo Ubaldo (1130-1144), non furono varie chiese che allora si veggano soggette al Vescovo di Andria, nell’istesso tempo smembrate dalla giurisdizione spirituale dell’Arcivescovo.
Infatti il Monastero di S. Maria del Monte, che era abitato dai Monaci Benedettini, sito tra le selve e ai piedi di una collina alla sommità della quale l’Imperatore Federico II edificò un sontuoso castello, fu espresso nella Bolla di Anacleto II e nell’ altra di Callisto II ed in quella di Eugenio III a Bisanzio e di Alessandro III a Bertrando dicesi (?) “Monasterium Sancte Marie de Monte quod in territorio tranensi situm est”, mentre nel libro di Cencio Camerario che si dice del 119(?)6 appare nella diocesi di Andria. Continuarono pure nella diocesi di Trani le chiese di S. Marziano in Silvis e di S. Vittore alle quali provvedette di persona (?) l’Arcivescovo, ma distrutti i luoghi esse passarono nella diocesi di Andria e si vedono le vestigia nel territorio della R. Corte che dicesi Bosco di Andria e che attacca col territorio di Trani” (13).

Ma neppure il Merra crede all’autenticità dei due documenti in discussione e all’esistenza dei vescovi Desidio e Ilderico, dal momento che gli pare che “la Bolla sia stata inventata dai preti di S. Nicola contro quelli della Cattedrale; a quella guisa che i preti della Cattedrale, alla lor volta, inventarono un Decreto del 1126 contro dei Nicolini, creando anch’essi un nuovo Vescovo di Andria per nome Ilderico(8).

Rimane da valutare una supposizione, affacciata dal Papebroch in forma dubitativa (14) e accettata acriticamente da alcuni storici locali, secondo la quale “la dignità episcopale fu donata ad Andria da papa Gelasio II (1118-1119) quando risiedeva a Terracina”. Tale supposizione non è validata né da documenti né da testimonianze di storici e risulta essere un ripiego — neppure brillante — del dotto bollandista, nella ricerca vana di un riferimento storico-ecclesiastico alla leggenda bauciana. Non sarebbe stato Gelasio I ad istituire la sede vescovile in Andria alla fine del V secolo, perché “Andria non sembra città di così grande antichità”, ma se la tradizione chiamava in causa un “papa Gelasio”, tutt’al più era possibile ritenere che si trattasse di Gelasio II che, sia pure per breve tempo, aveva governato la Chiesa alla fine del secondo decennio del secolo XII. Non pare abbia tenuto conto il Papebroch che lo sfortunato Gelasio, eletto nel gennaio 1118 fu subito esposto alle violenze dei Frangipane e ai tumulti suscitati dall’imperatore Enrico V di Ger-mania, entrato nascostamente in Roma, sicché dovette rifugiarsi a Gaeta, dove ricevette la consacrazione il 9-10 marzo. Enrico V creò allora antipapa Maurizio Burdino, vescovo di Braga, col nome di Gregorio VIII (che rimase tale fino al 1121); ma ambedue furono scomunicati da Gelasio II.

Questi poté rientrare in Roma, appena Enrico V se ne allontanò per tornare in Germania, ma il 21 luglio per una sommossa dei nobili romani dovette di nuovo uscire da Roma e per mare si portò in Francia, dove tenne un concilio a Vienna nel 1119.

Ammalatosi a Cluny, morì in quel monastero dopo aver indicato come suo successore Guido, arcivescovo di Vienne (15). Ne consegue che la congettura del Papebroch, oltre che infondata, è anche priva di senso storico ed ecclesiologico. Gelasio II, eletto papa fra violenti contrasti ideologici che dividevano anche il cardinalato e l’episcopato – a tal punto che Enrico V poté opporgli Gregorio VIII come antipapa – e consacrato fuori dalla sua sede naturale in circostanze fortunose, non aveva alcun interesse ad aggravare la situazione creando una nuova sede vescovile – o concedendo che venisse creata – nel normanno Ducato di Puglia e di Calabria. Data per scontata la precedenza all’investitura pontificia del vescovo nella sede istituenda, l’investitura laica sarebbe toccata al Duca Guglielmo o agli indipendenti Conti normanni pugliesi e – nel caso specifico di Andria – al conte Goffredo?

Sappiamo con certezza che proprio nel 1118 “il grande dominio (del duca Guglielmo) esisteva solo sulla carta, lacerato di fatto da un pulviscolo di signorie autonome e rissose(16) e in Puglia il normannofilo signore di Bari, Argiro di Daniele, dopo aver ucciso l’antinormanno arcivescovo Risone, fu messo a morte dal conte di Andria Goffredo. Se quello stesso anno Andria fosse stata eretta sede vescovile, un evento così rilevante avrebbe lasciato tracce nella storia pugliese proprio per le sue implicazioni ecclesiologiche. In realtà esso è solo una supposizione scaturita da un’associazione di nomi.

Quindi, ad un esame critico oculato, spassionato e storico filologicamente rigoroso, il “terminus post quem” dell’erezione di Andria a sede vescovile non può essere fissato che nel quarto decennio del XII secolo: ai tempi dell’arcivescovo di Trani Ubaldo, come sostiene Filippo Festa riferendosi forse al vescovo Leone della “Chronica S. Stephani ad rivum maris”, accettato dal Kehr, e – più probabilmente – al Vescovo di Andria “absque nomine” che l’Ughelli trovò essere intervenuto alla traslazione di S. Nicola Pellegrino a Trani nel 1143 (17). Quest’ultimo è accettato anche dallo Schipa il quale, pur bollando d’ “impostura” la “chronica”, tuttavia rileva che “la notizia (di Leone vescovo di Andria nelle “carte” del 1137 e del 1144) non sarebbe priva d’interesse per la storia ecclesiastica di Andria, giacche finora non si conosceva alcun vescovo Leone di quella diocesi e s’ignorava il nome del Vescovo di quella città, che nel 1143 assistette alla traslazione del corpo di S. Nicola a Trani(18); e conclude col sospetto che il nome fosse inventato per riempire quella lacuna. Da tale sospetto, però, non è neppure sfiorato il Kehr, che evidentemente ritiene storicamente credibile la “Chronica” pur essendo questa una copia che il Polidoro trasse dall’originale da lui scoperto e poi andato perduto né più ritrovato: un manoscritto di tre autori diversi, “dei quali il primo (anonimo) scrisse fino al MLX, il secondo (anonimo fino al MCXXVII e il terzo, Rolando, decano e priore del Monastero, che due volte si nomina nella cronaca, fino al MCLXXXV(19).

Il Kehr deve aver ritenuto certe incongruenze storiche, che infirmano l’affidabilità della “Chronica” e quindi ne invalidano l’autenticità, degli ammissibili errori di trascrizione, originati da oggettive difficoltà di lettura. Ad esempio, nel Cap. XXV compare un conte Roberto, figlio di Roberto di Loretello, all’anno MXCVI, mentre in altri documenti non figura prima del MCXIV. Nel Cap. XLIX, poi, nell’anno MCLVII si fa viaggiare Ruggero conte di Andria in compagnia di papa Alessandro III, da Siponto a Venezia, con una sosta prolungata a Vasto per sopraggiunte difficoltà di navigazione. In realtà nel MCLVII né Alessandro III era papa né Ruggero era conte di Andria. Nel primo caso per errore di lettura e di trascrizione sono state invertite le lettere CX in XC; nel secondo è stata omessa la lettera X dopo la L. Corretti gli errori, in cui l’amanuense poté incorrere anche perché sfornito di adeguate conoscenze storiche, niente ci vieta di credere che nel MCXVI il figlio di Roberto di Loretello abbia fatto una donazione al Monastero di S. Stefano ad rivum maris e nel MCLXVII Ruggero di Andria abbia viaggiato da Siponto a Venezia e soggiornato a Vasto con papa Alessandro III.

In conclusione, salva la credibilità della “Chronica” del Polidoro, si può ragionevolmente ammettere che Andria ottenne la sede vescovile nel quarto decennio del secolo XII, ai tempi dell’arcivescovo di Trani Ubaldo, durante il pontificato di Innocenzo II. Non è improbabile che re Ruggero, dopo che ebbe vinto ed imprigionato il ribelle conte Goffredo e ne ebbe ridotta la contea a feudo regio, abbia istituito in Andria la sede vescovile col beneplacito di Clemente II – che, da lui riconosciuto papa, l’aveva investito del Regno di Sicilia, del Ducato di Puglia e di Calabria, dei Principati di Capua e di Salerno, di Napoli ed Amalfi e della Marca Firmana nel 1130 – e vi abbia eletto a reggerla un ecclesiastico a lui fedele.

Erano i tempi in cui la lotta per le investiture, pur essendosi risolta col Concordato di Worms – 1122 – sostanzialmente a favore della Santa Sede nel contrasto con l’Imperatore d’Occidente, rimaneva ancora aperta e s’inaspriva tra guerre e scomuniche in una contesa politico-religiosa tra Ruggero II ed Innocenzo II: il pontefice che Bernardo di Chiaravalle era riuscito a far riconoscere come legittimo Capo della Chiesa dalle autorità politiche e religiose dell’Occidente cristiano, tranne che dal normanno Re siculo.

Del resto intorno all’elezione dei vescovi del Regno di Sicilia e del Ducato di Puglia e di Calabria un Anonimo Contemporaneo scrive:
“Rex enim aliorum more tyrannorum ecclesiam terre sue redegerat in servitutem nec alicubi patiebatur electionem libere celebrare, sed pronominabat quem eligi oporteret et ita de officiis ecclesiasticis sicut de palatii sui muneribus disponebat. Ob hanc causam taliter electos inibuit Romana Ecclesia consecrari adeo quod processerat inhibitio ut pauce sedes propiis gauderent episcopis et fere in omnibus ecclesiis residebant viri electi a multis annis. Nam consecrationis oleum deficit in terra eius ex quo cepit Innocentium papam.” (20)

Quando poi Leone, vescovo di Andria per investitura regia, consacrato dall’arcivescovo di Trani Ubaldo, ma non “confermato” dalla Sede Apostolica, morì, la sede vescovile di Andria rimase vacante.

Nel frattempo era stato elevato al Trono Pontificio l’inglese Nicolò Breakspear, abate del monastero benedettino di S. Rufo in Provenza che Eugenio III aveva creato vescovo di Albano ed inviato come suo legato in Svezia e in Norvegia. Preso il nome di Adriano IV, egli resse la Chiesa di Roma dal 1154 al 1159 e con l’imperatore di Oriente appoggiò la ribellione dei Baroni pugliesi contro Guglielmo I e l’ammiraglio Malone nel 1155. Sconfitti in maniera decisiva i Bizantini e domata la ribellione in Puglia, Adriano IV fu costretto a scendere a trattative con Guglielmo I presso Benevento nel 1156 e lo investì del Regno di Sicilia, del Ducato di Puglia e di Calabria e delle altre terre ereditate dal padre, ottenendone in cambio l’omaggio di 600 soldi aurei scifati annui per la Puglia e la Calabria e 500 per la Marca. Ma gli dové concedere anche il potere d’intervenire – pure se limitatamente al continente – sulle chiese metropolitiche ed episcopali e controllarle direttamente (21).

Si spiega così – e diventa storicamente affidabile – la tradizione, ancora viva ai tempi di Francesco II Del Balzo che la manipolò a fini di prestigio locale. Essa vuole, infatti, che il primo vescovo di Andria sia stato “Richardus anglicus”, consacrato dal Papa ed inviato a reggere la nostra diocesi.

Se Leone fosse stato eletto e consacrato secondo i canoni procedurali dei Concili Lateranensi del 1123 e del 1139 e avesse ottenuto la conferma di Innocenzo II, alla sua morte il suo successore, Riccardo, sarebbe stato anch’egli eletto dal clero e dal popolo e, una volta ottenuta la consacrazione dal metropolita di Trani, sarebbe solo stato confermato da papa Adriano IV.

Se invece prestiamo fede alla tradizione dobbiamo convenire con l’opinione del bollandista Papebroch che “in Actis Sanctorum, ad diem 2 Iunii” così si esprime:
“Denique nihil esse causæ apparet, cur S. Richardus Andriensium Episcopus, qui hac die colitur, non fuerit idem ipse, cuius initio monumentum protulimus, ab Adriano IV itidem ut ipse natione anglo, vel ante vel in Pontificatu ministravit, promotus et ordinatus intra annos 1154 et 1159, quibus ille universalem Ecclesiam rexit”.

Di conseguenza il primo Vescovo di Andria, riconosciuto ufficialmente dalla Santa sede fu l’inglese Riccardo, ordinato vescovo e assegnato a reggere la sede vacante di Andria da papa Adriano IV, suo connazionale, “probabilmente … istruito e preparato al sacerdozio in qualcuna delle abbazie benedettine diffuse in quel tempo in quasi tutta l’Europa occidentale e particolarmente in Francia e in Italia(22).

Del resto Andria durante il pontificato di Adriano IV era sicuramente sede vescovile: ce lo comprova – sia pure indirettamente – una Bolla di papa Adriano IV all’arcivescovo di Trani Bertando “Data Laterani XIII Kal. Mai. Ind. VII Inc. Dom. A. MCLVIII. Pontificatus vero domini Adriani pape IV A. V.”. In essa il Pontefice stabilisce “ut debitam et consuetam portionem, oblatorum vivorum et mortuorum in parochia tua Trano scilicet Barulo et Curato tu quam successores tui habere absque contradictione aliqua debeatis. Adicientes ut nullus in parrochia tua sine licentia et assensu tuo ecclesiam vel quodlibet oratorium edificare presumat(23).

È chiaro che nella Bolla di Adriano IV vengono stabiliti i nuovi confini della diocesi di Trani, dalla quale sono escluse non solo Bisceglie – sede episcopale da circa un novantennio – ma anche Andria, che di recente ha ottenuto il riconoscimento ufficiale del suo “episcopato” dalla Sede Apostolica ed è retta dal vescovo Riccardo. Il Kehr e Mons. Giuseppe Ruotolo sostengono a ragione che questo “vescovo inglese” di Andria, l’unico di nome Riccardo, intervenne nel 1179 al Concilio Lateranense “celebrato” da papa Alessandro III e, su testimonianza dell’Ughelli – che trascrisse un documento che si trova(va) nell’Archivio Vescovile di Andria (24) – lo mostrano ancora in vita nel 1196, quando “trasferì le reliquie dei Santi Erasmo e Ponziano nella Chiesa di S. Bartolomeo”. Il documento trascritto dall’Ughelli non è ormai reperibile: certamente andò distrutto quando il 23 marzo 1799 i Francesi del Broussier incendiarono l’Archivio Vescovile; ma non v’è ragione alcuna per revocare in dubbio la testimonianza dello scrupoloso – anche se non sempre criticamente accorto – Autore dell'Italia Sacra.

La notizia dell’Ughelli è per noi preziosa, perchè ci consente di affermare che fu questo stesso Riccardo il Vescovo di Andria “absque nomine” che col Vescovo di Potenza fu incaricato da papa Celestino III nel 1195 d’indagare in quali circostanze il Priore di Montepeloso e il Vicario di Barletta, con alcuni loro complici erano entrati “armata manu” nella Chiesa di S. Tommaso di Barletta, costruzione e proprietà della badessa O. I sacrileghi, dopo aver invano minacciato la badessa, perché donasse o cedesse la Chiesa e i suoi beni al Priore di Montepeloso, le avevan messo le mani addosso e, immobilizzatala, eran giunti quasi a strangolarla con un cappio; quindi avevano occupato la Chiesa e s’erano appropriati dei suoi beni. A conclusione dell’indagine la badessa riebbe quanto le era stato tolto e gli autori del misfatto furono scomunicati (25).

Ma Riccardo è anche il Vescovo di Andria “absque nomine” destinatario di una “epistula” di Alessandro III (1159-1181), che il Kehr – nell’opera e nel luogo già citati – riporta in una strana forma di transunto ed il cui contenuto è l’elenco di una serie di casi di giustizia amministrativa o penale o fiscale.

Essi rientravano nel dominio giudiziario episcopale e il Vescovo di Andria ritenne di doverli sottoporre al parere o alla sanzione della Curia Romana. Uno riguarda la trasmissibilità ereditaria di “chiese private” ai chierici. Un altro verte sulla liceità di obbligare i “parrocchiani” al pagamento delle decime. Due si riferiscono a gravi atti di violenza di cui si sono macchiati due “chierici”: un diacono che aveva gravemente ferito un altro diacono il giorno del Sabato Santo e un suddiacono che aveva assassinato un uomo. Infine c’è un caso di esclusiva competenza dell’autorità religiosa: l’eventuale nullità di matrimonio per “impotenza coeundi” di uno dei coniugi.

Queste sono le poche notizie, storicamente documentate, dell’episcopato del vescovo Riccardo (26). Egli resse la diocesi di Andria almeno per un quarantennio e durante la sua lunga permanenza sulla cattedra episcopale operò instancabilmente per risanare i costumi di un clero che – nella nostra città come altrove – s’era sotto tanti aspetti secolarizzato, oltre che moralmente traviato, per la diffusa e radicata pratica della simonia e del nicolaismo: mali questi ripetutamente e duramente condannati nei concili Lateranensi del 1139 e del 1179. Ma la sua attività apostolica rifulse particolarmente nel “ricristianizzare” il popolo andriese alla luce delle virtù evangeliche, che egli faceva rivivere in sé mentre le esaltava nella sua predicazione. Presto il clero e il popolo lo proclamarono santo – ce lo attesta la tradizione – e dopo la sua morte non avrebbero tardato a canonizzarlo, se nel Concilio Lateranense del 1215 la Santa Sede non avesse avocato a sé le canonizzazioni, nonché il permesso di venerare le reliquie dei Santi. A distanza di ben più di due secoli la fama della santità del vescovo Riccardo e la venerazione dei suoi resti mortali erano ancora così vive nel clero e nel popolo di Andria che il “pio” duca Francesco II Del Balzo ed il vescovo Dondei poterono ottenere che la Santa Sede, sotto il pontificato di Eugenio IV nel 1438, elevasse agli onori degli altari il Primo Vescovo di Andria e lo riconoscesse ufficialmente come il Patrono della nostra città. Infine per disposizione di papa Urbano VIII S. Riccardo fu ascritto al Martirologio Romano.

NOTE
(1) Cfr. C. D. Fonseca, “L’organizzazione ecclesiastica dell’Italia Normanna tra l’XI e il XII secolo. I nuovi assetti istituzionali”, in “Miscellanea del Centro Studi Medioevali”, VII, Milano, 1974, p. 346.
(2) Cfr. C. D. Fonseca, o. c., pp. 346 e 347.
(3) Cfr. C. D. Fonseca, o. c., p. 336 n. 50.
(4) M. Schipa, “La Cronaca di S. Stefano ad rivum maris”, in “Archivio Storico Napoletano”, vol. X, Fasc. III a. 1885 pp. 562, 565 e 572 e sgg.
(5) P. Kehr, “Regesta Pontifìcorum Romanorum. Italia Pontificia”, vol. IX p. 307.
(6) R. D’Urso, “Storia della città di Andria”, Napoli, 1842 p. 41.
(7) E. Merra, “Monografie andriesi”, Bologna, 1906, vol. I, p. 287 e sgg.
(8) E. Merra, o. c., p. 288.
(9) Cfr. Manoscritti di G. Ceci, Cart. 1 n. 26, Biblioteca Comunale di Andria.
(10) E. Merra, o. c., p. 280 n. 1.
(11) Cfr. A. Lizier, “L’economia rurale dell’età prenormanna nell’Italia Meridionale”, Palermo, 1907, p. 169. Il “solidus” di 24 carati, d’oro, pesava gr. 4,55. Si divideva in: “denaro bizantino”, d’argento, 1/14 e 1/12 del soldo; “follare”, di bronzo, 1/24 del miliarese. II “solidus aureus” aveva varie denominazioni a seconda del tipo: “costantinianus bonus”, “sotericus holotricus”, “schifatus bonus”, “romanatus”, “michelatus”.
(12) Cfr. N. Tamassia, “Studi sulla storia giuridica dell’Italia Meridionale”, Bari, 1957 m, pp. 148 e sgg.
(13) Vedi Appunti di G. Ceci in “Mass. di G. Ceci”, Cart. I, n. 35.6, Bibioteca Comunale Andria.
(14) F. Ughelli, “Italia Sacra”, Torno VII col. 920 e sgg., nota di Papebroch "Acta Sanctorum Junii”, tomo 2.
(15) Enciclopedia Treccani, ad vocem.
(16) R. Iorio, “Violenze e paure nella Puglia Normanna”, in “Quaderni Medioevali”, 17, Bari 1984, p. 103.
(17) F. Ughelli, o. c., ibidem.
(18) M. Schipa, o. c., p. 562.
(19) M. Schipa, o. c., p. 535.
(20) “Historia Pontificalis”, Pertz, M.G.H., T. XX, Script. P. 538, citata da C. De Blasiis, in “L’insurrezione pugliese e la conquista normanna nel secolo XI”, Napoli 1874, IV, p. 372 n. 2.
(21) Cfr. M. Pacaut, “Papauté, Royauté et episcopat dans le Royaume de Sicile: deuxieme moitié du XII siècle”, in “Potere, società e popolo nell’età dei due Guglielmi”, Bari, 1981, passim.
(22) Ruotolo, “Bibliotheca Sanctorum”, XI, col. 162 ad vocem “Riccardo”.
(23) A. Prologo, “Le carte che si conservano nell’Archivio Metropolitano della città di Trani”, Barletta, 1877, doc. XLVII p. III.
(24) F. Ughelli, “Italia Sacra” , Torno VII col. 920 e sgg., nota di Papebroch "Acta Sanctorum Junii”, tomo 2.
(25) Vedi P. Kehr, o. c., ibidem e “Codice Diplomatico Barese”, vol. X, Bari 1927, doc. 35, a. 1195.
(26) Giuseppe Brescia in “Croce inedito” – Società Editrice Napoletana, Napoli 1984, sezione ottava – Giuseppe Ceci, Benedetto Croce e Giustino Fortunato. Cap. V – Fortunato a G. Ceci (1914-1920), la storia di S. Riccardo e l’amicizia crociana negli anni 1918-1921 pp. 486 … 493 riepiloga esaurientemente e lucidamente la “quaestio richardiana” dalla “legenda” trasmessaci da Francesco II del Balzo alla rigorosa ed esemplare critica storica a cui la sottopose il prof. Riccardo Zagaria.

[da “Andria nel Medioevo”, di P.Barbangelo, tip Guglielmi, 1985, pp.111-125]