Contenuto

Il volto antico
di
Andria “fidelis”

di Giuseppe Ruotolo (1898-1970)
trascrizione in ebook

Capitolo V.
S. RICCARDO NELLA STORIA ( pag. 66)

  1. Periodo normanno (1041-1190) ( pag. 68)
  2. Il corpo di S. Riccardo ( pag. 71)
  3. I dissidenti ( pag. 75)
  4. Un calendario rivelatore ( pag. 77)
  5. Due dipinti del Santo ( pag. 81)

Andria prese respiro nel secolo XI religiosamente e politicamente. La Puglia in quel secolo e nel seguente ospitò diversi papi, desiderosi dell’unità della Chiesa e della riforma. La presenza del papa contribuiva a conoscere meglio gli orientali, comprenderne la mentalità, cercare di avvicinarli di nuovo all’antica Roma, che fu il centro del Cristianesimo non per volontà di Cesare, ma bensì per istituzione divina.

D’altra parte la Chiesa pativa per la condotta dei suoi ministri. Effetto detestabile della dipendenza dal potere laico (investiture) e dell’interferenza, tra Roma e Bisanzio (patriarcato ecumenico). Un po’ dappertutto era diffuso il marcio; simonia e malcostume infettavano non poco l’ambiente ecclesiastico dell’Italia meridionale. S. Gregorio VII aveva lavorato per la riforma come consigliere dei papi Leone IX (1049-1054), Vittore II (1055-1057), Stefano IX (1057-1058), Niccolò II (1059-1061), Alessandro II (1061-1073) e soprattutto durante il suo pontificato (1073-1085) tanto fecondo di bene alla purezza e libertà della Chiesa. Urbano II fu il continuatore fedele dell’attività gregoriana e nella nostra Puglia compì opera di epurazione e di elevamento. Tenne due concilii a Melfi (1089) e a Bari (1098): scopo principale del primo fu la riforma del clero, scopo precipuo del secondo l’intesa con l’Oriente. Anche Pasquale II (1099-1118) presiedette personalmente un concilio a Benevento il 1109 e un altro a Troia il 1115. Peccato che i verbali di queste adunanze tanto importanti per la vita religiosa pugliese e italiana siano in gran parte perduti. Si sarebbero conosciuti i nomi dei vescovi e altre notizie, utili a rintracciare la storia delle diocesi.

Per quanto ci riguarda, sappiamo solo che nei pochi documenti pontifici di concessione dell’autorità metropolita a Bari e Trani è sempre ricordata la diocesi di Andria. È vero che il nome diocesi è sostituito da chiesa, ma evidentemente con uguale senso. Chiesa significa il tempio sacro, abbraccia anche, la collettività delle anime dei tre regni militante, purgante e celeste ed è sinonimo di circoscrizione ecclesiastica dipendente dal vescovo. Le numerose lettere di S. Gregorio Magno, dirette a vescovi per i bisogni dei fedeli e delle sedi vacanti hanno il vocabolo chiesa, alle volte alternato col termine diocesi. Nelle suddette bolle pontificie si tratta di determinare la ampiezza di una provincia ecclesiastica o di più provincie come nel caso di Bari, ed è evidente il significato di chiesa. Che, se tra i nomi di residenza appare qualcuna, che in altra epoca non è stata mai tale, non c’è da stupire. Quando la Puglia era dominata da Bisanzio, le diocesi si moltiplicavano o si sopprimevano secondo il volere dei patriarchi orientali o dei pretesi arcivescovi alla maniera bizantina.

Purtroppo nessun nome di vescovo andriese è giunto a noi lungo il secolo XI, ma tale deficienza è compensata largamente dalla vita pastorale di S. Riccardo.

Politicamente Andria si avvantaggiò nel secolo XI per opera dei normanni.

Periodo normanno (1041-1190).

Il vocabolo normanno significa uomini del nord e designa un popolo barbaro, appartenente alla Svezia, Norvegia e Danimarca, che alla fine del secolo IX e a principio del X fece irruzione entro il territorio francese e si stabilì nella regione, detta poi Normandia. La pace coi carolingi fu conclusa a S. Clair sur-Epte il 911.

Il 1066 i normanni, sotto la guida di Guglielmo, detto poi il Conquistatore, invasero l’Inghilterra e vi fondarono un regno, che durò quasi un secolo.

Gruppi di soldati normanni erano anche nell’Italia e aiutavano i diversi partiti devoti all’imperatore romano o a Bisanzio o prendevano parte alle fazioni cittadine, tendenti all’autonomia. Questi mercenari conobbero le zone fertili dell’Italia meridionale e constatarono nel medesimo tempo l’impotenza dei presidi militari orientali o occidentali posti a difesa delle città. Sotto la guida di Guglielmo Altavilla iniziarono la conquista della Puglia il 1041, sconfiggendo presso l’Ofanto le truppe bizantine. Le città fedeli a Costantinopoli tentarono la riscossa, ma ebbero quasi sempre la peggio. Il papa Leone IX giudicò lesiva dei suoi interessi l’invasione normanna e mosse personalmente contro di essi, ma fu sconfitto da Roberto il Guiscardo e fatto prigioniero a Civitella il 18 giugno 1053. La pace tra i normanni e la Santa Sede fu conclusa, a Melfi il 1059 alla presenza del papa Niccolò II e del suo illuminato consigliere, il cardinale Ildebrando.

Con questo accordo a Roberto il Guiscardo fu riconosciuto il dominio sull’Apulia e la Calabria. Tra le città pugliesi Trani si distinse nella difesa contro i nuovi pirati sotto la guida del capitano Sillicto. Nella distribuzione delle zone conquistate, Trani fu assegnata come contea al normanno Pietrone. Alla contea tranese fu aggregata Andria fino a quando divenne anch’essa sede di contea verso la fine del sec. XI [1]. Altro conte di Andria fu Goffredo, ricordato dall’anonimo barese come autore dell’arresto ed uccisione di Argiro di Bari, che aveva assalito e trucidato il proprio arcivescovo Riso, reduce da Canosa nel settembre 1118. A Goffredo successe un altro Riccardo, che morì il 1155 in una battaglia svoltasi tra Andria e Barletta contro il bizantino Giovanni Ducas. L’ultimo conte normanno fu Ruggero, che prese parte con truppe pugliesi alla lotta dei Crociati lombardi contro Federico Barbarossa e fu presente alla pace conclusa tra il papa Alessandro III, l’imperatore tedesco e i rappresentanti dei Comuni a Venezia il 1177.

Andria fu cinta di mura da Pietrone nel 1042, se¬condo il Di Meo. Questo significa l’espressione di Guglielmo il pugliese: condidit hic Andrum. Facilmente egli volle costituire un bastione di difesa e di offesa contro la vicina Trani, che non intendeva sottoporsi al giogo normanno. Andria fu spesso teatro di battaglie contro bande armate o nelle rivalità tra gli stessi conti normanni. Le fortificazioni conferirono sicurezza ai cittadini e attirarono gli abitanti dei villaggi vicini. I contadini vi affluirono sempre più numerosi per la fertilità e ampiezza delle campagne, iniziando quell’incremento demografico, che in seguito avrebbe fatto di Andria il comune agricolo più popolato d’Italia.

Durante la dominazione normanna fu costruita la nuova cattedrale a pianta basilicale di tre navate con principî di stile romanico. Fu elevata sulla basilicula e come essa ebbe una deformazione della linea centrale, simboleggiante l’inclinazione del capo di Gesù Cristo morente. Purtroppo poco è rimasto dell’arte primitiva del duomo per le sostanziali riparazioni effettuate nel secolo XV. Il grandioso arco a sesto acuto del presbitero fu eseguito il 1414.

Una lapide rinvenuta sotto l’intonaco il 1779 ricordava la tomba eretta in memoria della contessa Emma, moglie di Riccardo e riportava la data 1069. L’iscrizione diceva testualmente:

Non timet ærumna, talem sibi virgo columnam
Fabricat in cœlis, gaude comitissa fidelis
Vir tibi Richardus, tu coniux nobis Emma
Ille sicut nardus, tu sicut splendida gemma.

Pensiamo che dopo sette secoli la lettura della data poté essere errata. Certamente Andria il 1069 non era contea e Riccardo normanno che, come risulta da fonti storiche, fu nipote di Pietrone, nel 1069 era ancora minorenne. Forse doveva leggersi 1099, tempo in cui dominava il conte Riccardo, come abbiamo rilevato innanzi. La nostra cattedrale fu costruita quasi nello stesso tempo del bel tempio romanico di S. Nicola a Bari (1090). Ci convinciamo maggiormente di questo, sapendo che il bel campanile rimonta al 1118. Esso, costruito sulla torre di difesa dell’antica cittadina con sovrapposizione di un piano, è pregevole e possiede quattro finestre monofore romaniche. Il secondo piano di stile gotico fu costruito alla fine del duecento ed il terzo è del secolo XIV.

Delle campane ora esistenti ce n’è qualcuna contemporanea al campanile? Il Durso ci assicura che la campana, denominata della Madonna, risale al 1111, cioè a sette anni prima del campanile. Possiamo accettare senz’altro tale notizia. Certamente a quell’epoca era terminata la cattedrale e poteva fondersi una campana da collocare sulla vecchia torre per essere poi situata sull’erigendo campanile. La notizia del Durso si accorda con la dedicazione della chiesa all’Assunta secondo la tradizione. La festa dell’Assunzione fu introdotta dall’Oriente nel secolo VI, quando ecclesiastici e semplici fedeli occidentali si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme, visitavano la tomba della Vergine e raccoglievano le notizie tradizionali sulla morte di Maria, seguita dalla glorificazione dell’anima e del corpo. La solennità liturgica si chiamò dormitio, pausatio, depositio e infine assumptio. Andria, che sperava tanto nella protezione della Madre di Dio, dovette accogliere subito questa espressione di culto e volle dedicare la chiesa principale a questo mistero d’amore divino.

Il corpo di S. Riccardo.

Molte notizie e alle volte in aperto contrasto si sono dette e scritte sul nostro santo Patrono. In realtà egli visse in un’epoca di conflitti e desolazioni e poco, troppo poco è giunto fino a noi della sua vita preziosa. Ha disorientato di più gli animi la inspiegabile acredine, espressa da alcuni scrittori nel giudicare la tradizione locale, raccolta e trasmessa più ò meno fedelmente dall’anonimo. Se non si fosse rinvenuto il venerato corpo, forse la critica storica avrebbe relegato la stessa esistenza del santo vescovo nelle favole della mitologia.

Il duca Francesco Del Balzo, ritenuto concordemente un verace [2] ed accurato indagatore della vita di S. Riccardo, trovò le reliquie nell’anno 1438. Egli seppe da un vecchietto di nome Tasso, che le sacre spoglie si trovavano sotto l’altare maggiore, dove erano state nascoste il 1348. Il Tasso raccontò che nella guerra di rappresaglia degli ungheresi contro i napoletani, Andria fu tradita da un certo Malospirito, presa e saccheggiata orribilmente. L’esercito nemico era guidato dal re Luigi d’Ungheria (1326-1382), che volle vendicare la uccisione del fratello Andrea, marito di Giovanna I di Napoli. Andria fu coinvolta in modo speciale nella brutale vendetta a causa del conte Bertrando Del Balzo. Il quale, incaricato dal papa Clemente VI di un’inchiesta sul delitto, aveva dichiarato innocente la regina. L’ira di Luigi colpì particolarmente Napoli ed Andria, devastandole.

In questo triste episodio della città il sacrista della cattedrale ebbe l’accortezza di nascondere 1e reliquie di S. Riccardo in luogo non sospetto; La notizia fu conosciuta in seguito dal vescovo Melillo (1390-1417) e da Guglielmo Del Balzo († 1383) e da costoro trasmessa al Tasso. Era questi evidentemente un uomo molto pio, se ebbe il delicato incarico di custodire gelosamente tale notizia e di rivelarla solo quando non vi fosse più timore di furti o di altri pericoli.

Il duca col vescovo del tempo fecero una prima esplorazione per accertarsi del luogo e scorsero dietro l’altare maggiore, attraverso un foro, una pietra sepolcrale. Guardando attentamente dal foro, riuscirono a vedere il vano sottostante (la cripta) e in esso un altare sormontato da un dipinto di S. Riccardo e più in là altre pitture di santi e di vescovi.

Si rimandò ad altro tempo il sollevamento della pietra nella speranza di rinvenire frattanto qualche notizia precisa sul santo, il cui culto era stato abbandonato per lo smarrimento del corpo.

Il 23 aprile dello stesso anno il vescovo Giovanni Dondei, accompagnato dal duca, da Pirro Del Balzo figlio di Francesco, dal Tasso e dal canonico sacrista, fece rimuovere la pietra sepolcrale. Con grande meraviglia e gioia si trovò una piccola cassetta di legno, ravvolta in un panno, contenente le ossa del santo, i sandali di pelle, il capo e il cuore, che apparivano di color rosso. Le reliquie furono raccolte in un drappo di seta e collocate sull’altare alla venerazione dei fedeli. Un soave profumo si effondeva dai resti di S. Riccardo e contemporaneamente una pioggia da tempo attesa ristorò le campagne.

Questa è in breve la narrazione del duca Del Balzo. Il quale non solo gode la stima del vescovo e del popolo di Andria, ma si mostra veritiero anche dinanzi alla critica più severa. Dallo stesso scritto si rivela schietto, non omette di manifestare i contrasti patiti in questa scoperta; è umile, dichiarandosi incapace di narrare con latino elegante fatti tanto importanti; è preciso nella narrazione dei più minuti particolari come quando accenna all’importunità del Tasso, desideroso di veder subito coronato da successo il suo lungo sacrificio; finalmente è docile collaboratore dell’autorità ecclesiastica, ciò che nei duchi del tempo non si verificava con frequenza.

Il Del Balzo ebbe qualche risultato nelle sue indagini sulle notizie riccardiane. Ma anche le reliquie avevano il loro linguaggio. Nella cassetta c’erano i sandali di pelle, il cuore e il capo di color rossastro. Il colore dipendeva certamente dal balsamo in cui erano state conservate le più preziose reliquie quando avvenne la prima traslazione alla cripta della cattedrale. In seguito ad altre ricerche, in mezzo a reliquie varie ne fu trovata una con la dicitura in caratteri longobardi: «Questa è la chierica di S. Riccardo».

Ed ora una domanda. In che tempo ciò poté acca¬dere? Non prima del medio evo. In questo tempo fu in uso un certo simbolismo nella sepoltura di cadaveri di alti personaggi. Secondo quanto narrano gli storici, il corpo di Carlo Magno, morto 1’814, fu collocato assiso in trono, vestito di abiti preziosi e con sulle ginocchia il Vangelo, lo scettro, lo scudo, il cilizio e la corona. Alla morte dell’imperatore Federico Barbarossa, avvenuta il 10 giugno 1190 guadando i1 fiume Salef (l’antico Cadono in Cilicia) i precordi furono estratti e conservati a Tarso.

Questi esempi storici bastano a farci comprendere che non possiamo allontanarci dal medio evo nel rintracciare l’epoca di S. Riccardo. Ma c’è ancora di più. Fino a tutto il secolo VI nessuno ardì mai di toccare i cadaveri dei martiri e dei vescovi. I fedeli si accontentavano di conservare come ricordo pannolini toccati alla tomba del santo o un po’ di olio delle lampade accese intorno al sepolcro e raramente un po’ di sangue, raccolto con una spugna o con un panno di lino. Nel secolo VII ebbero inizio le traslazioni delle reliquie alle chiese urbane [3] e in seguito invalse l’uso di spezzettare i corpi dei martiri e trasportarli di chiesa in chiesa o di città in città per ottenere grazie e prodigi.

Se S. Riccardo fosse vissuto all’epoca di S. Gelasio papa (492-496) come afferma la leggenda, non si sarebbe avuta l’imbalsamazione del capo e del cuore, la designazione della chierica e, nelle continue invasioni dell’alto medio evo, le reliquie si sarebbero disperse come quelle di S. Sabino e di altri santi antichi.

Possiamo dunque con certezza determinare che S. Riccardo è dell’epoca medioevale. In seguito daremo maggiori precisazioni.

I dissidenti.

Il rinvenimento del corpo di S. Riccardo non accontentò tutti; alcuni non furono convinti della scoperta e temevano un trucco. A cinque secoli di distanza potremmo errare nel dare un giudizio su questa avversione. Tuttavia, a ben riflettere, ci dovremmo meravigliare se il duca avesse incontrato unanimità di adesioni alla interessante novità. A chi considera l’importanza delle reliquie di un santo per il culto liturgico, un fatto di quel genere doveva porre seriamente in imbarazzo soprattutto il vescovo e il clero.

Il culto nacque sul corpo dei martiri, perché essi col loro sacrificio cruento avevano ritratto al disopra di ogni altro credente l’immagine di Gesù crocifisso. Sulle tombe dei martiri sorsero le prime chiese e solo più tardi, nel IV secolo, si edificarono templi anche sulle tombe dei vescovi e confessori. L’altare esigeva sempre il corpo di chi aveva praticato in sommo grado l’espressione energica di S. Paolo: «Completo nella mia carne quello che manca alle sofferenze di Cristo» (Col. I, 24).

«Un corpo santo per i fedeli aveva un’importanza di cui oggi non troviamo l’uguale. Costituiva della chiesa un luogo inviolabile: esso era il muto testimone di tutti gli atti pubblici, il protettore del debole contro l’oppressore; su di esso si prestava il giuramento, si domandava la cessazione dei flagelli, della peste, della fame; esso aveva il potere di arrestare spesso la mano dell’uomo violento; quando il nemico era alle porte della città, il reliquiario appariva sulle mura e dava coraggio ai difensori» [4].

E quando si moltiplicarono i templi e i più grandi santi anche lontani furono solennemente commemorati, la celebrazione aveva sempre un riferimento alla fortunata città, che possedeva il corpo del santo. I pellegrinaggi si susseguivano anche da remote contrade verso città e villaggi, i cui templi custodivano le reliquie dei più insigni personaggi della cristianità.

Quando i cittadini di Andria credettero di aver perduto insieme ai loro beni il sacro deposito del loro vescovo più illustre, rimasero nella desolazione. Essi continuavano a venerare S. Andrea, altri santi del calendario, ma non potettero più festeggiare S. Riccardo; mancava la base del culto liturgico. Durante i lunghi anni dal 1348 essi tuttavia non dimenticarono il santo patrono. Egli parlava loro con la porta santa, che attraversò per recarsi la prima volta in cattedrale con l’ospedale, che dal 1265 ricoverava i vecchi invalidi: coi resti dei templi, sconvolti dalla bufera devastatrice, un tempo eretti dalla fede andriese, ingigantita dallo zelo del santo vescovo; ma l’altare di S. Riccardo era deserto.

Dopo 90 anni una luce balenò nell’oscurità, una speranza si riaccese nei cuori: il corpo di S. Riccardo ritornava, il padre riabbracciava i suoi figli, portando conforto alle amarezze, donando la gioia di vivere santamente. Il duca scrisse che il popolo tumultuava dinanzi alla cattedrale, mentre si toglieva la pietra sepolcrale; bussava con insistenza e minacciava di fare a pezzi le porte, se non si permetteva subito l’ingresso.

Un avvenimento così straordinario doveva incontrare opposizioni. Alcuni dubitarono che quello fosse il corpo di S. Riccardo è non vollero si esponesse alla venerazione pubblica. Forse tra i sussurroni erano alcuni sacerdoti, la sinistra del collegio canonicale. Dovettero bisbigliare «Non sono sufficienti i segni trovati nella cassetta per l’identificazione del corpo di S. Riccardo. Non ci esponiamo piuttosto al pericolo di prestare un culto idolatra? E poi, che figuraccia 1a nostra dinanzi al pubblico! Che c’entra il duca negli affari religiosi? perché dobbiamo essere rimorchiati da lui? perché il Tasso non ha parlato a noi o al vescovo prima di interessare il duca?».

Questo rilievo non è nostro; è espresso dallo stesso duca, irritato dall’opposizione, che chiama perversa e poco contento che un sacerdote, un solo sacerdote, chiamato Angelo De Leo, si sia contristato per le dicerie contrastanti. Forse qualche sacerdote non sussurrone, ma severo, avrà condiviso i timori e i sospetti; facilmente lo stesso vescovo sarà stato titubante e perciò si decise di inviare a Roma una commissione per avere l’approvazione pontificia al ripristino del culto.

L’opposizione, più che turbarci, ci fa piacere, perché costituì il mezzo per ottenere una certezza morale anche a noi sull’identificazione delle reliquie. Le prove riscontrate furono diverse; le più convincenti le orazioni della Messa e i calendari trovati dopo. L’approvazione della Santa Sede, anche allora severa nel giudicare del culto ai santi locali, tronca ogni dubbio fondato e ci mette il cuore in pace.

Un calendario rivelatore.

Di lì a poco morì l’arciprete della cattedrale, custode dell’archivio capitolare. Si rovistarono gli scritti e furono trovati tre calendari con l’indicazione delle feste liturgiche; al 9 giugno era segnata la festa di S. Riccardo. I calendari, è bene notarlo, hanno un valore di documentazione superiore ad ogni eccezione. Come i dittici, essi avevano nelle diverse diocesi uso esclusivamente liturgico ed erano compilati sotto la vigile cura dell’autorità ecclesiastica.

In uno dei calendari, oltre l’indicazione della festa, c’era qualche cosa di più interessante: un breve riassunto della vita di S. Riccardo e un elenco di morti, dal quale il duca poté stabilire l’epoca della compilazione del calendario. Ecco il cenno alla vita «Sanctisimus Pater noster Richardus anglicus, Episcopus huius Andriæ civitatis, qui beatus Pontifex ante obitum suum centum miracula fecit, cuius corpus collocatum est in confessione istius Ecclesiae».

Si ponga attenzione all’ultimo inciso, che determina chiaramente il sepolcro, destinato a conservare il corpo di S. Riccardo. La confessione della chiesa è la parte inferiore all’altare, in cui un tempo si poneva la tomba del santo principale; a Roma per esempio il sepolcro di S. Pietro costituisce la confessione della basilica vaticana. Nel caso nostro la confessione è la cripta. Il calendario ci fa dunque comprendere che quando si effettuò la canonizzazione di S. Riccardo, esisteva l’attuale cattedrale, mentre il corpo fu posto nella basilicula.

Bisogna notare che la traslazione delle reliquie era un avvenimento, che si congiungeva con la dichiarazione della santità di un martire o di altra pia persona. Nella chiesa romana la beatificazione, detta poi santificazione o canonizzazione, si chiamava anche elevatio ossium per riferimento al trasporto solenne della salma venerata dalla sepoltura primitiva al luogo fissato.

Quando avvenne la traslazione? Ce lo dice con le seguenti parole: «per obitum mortuorum, qui illic scripti sunt, hoc absumptum est manifestatur etiam numerus incarnationis annorum esse trecentorum, et tantum addi posset, quantum scripta prius erat ma¬nifestatio sui nominis antiquitate litteræ».

Confessiamo che questo latino è tipicamente barbaro e sconcerta qualunque latinista; è in fondo la traduzione in parole della bassa latinità di locuzioni dialettali, proprie del secolo XV. Il bollandista Papebroch dette un’interpretazione completamente libera. Suppose che quel trecentorum indicasse il numero scritto nel calendario, cui, aggiunse come ipotesi l’indicazione del millesimo e costruì la data 1300. La interpretazione arbitraria dette luogo a congetture analoghe. Il Morgigno propose una spiegazione convincente. Dall’insieme dei nomi dei morti e delle date relative il duca desunse (absumptum est) che erano passati 300 anni dall’inizio della catalogazione dei defunti. A questi 300 anni bisogna aggiungerne altri, perché i caratteri con cui era scritta in sintesi la vita del santo, erano più antichi degli altri. Il bollandista aveva separato completamente il trecentorum da quello che precede e, per tirarsi d’imbarazzo, aveva posto il punto fermo all’absumptum est. Invece le due frasi sono intimamente connesse, poiché il calcolo del duca era basato proprio sull’elenco dei morti.

Francesco Del Balzo avrebbe fatto un dono prezioso alla storia di Andria, se avesse trascritto tutto il calendario coi nomi dei defunti e le indicazioni del tempo; avrebbe fatto conoscere tante notizie circa un lungo periodo di tempo, in gran parte ignorato.

Ora possiamo indicare approssimativamente l’epoca della beatificazione. Il duca scrisse la storia del rinvenimento del corpo di S. Riccardo (legenda inventionis) il 1451. Gli anni dei defunti (vescovi, sacerdoti ed altri personaggi secondo l’uso del tempo) erano trecento e ci indicano quindi il 1151. Poiché lo scritto relativo a S. Riccardo era più antico, possiamo spingerci oltre di qualche decennio. E non di più, perché l’espressione Episcopus Andriæ non permette di allontanarci troppo dal 1151. Abbiamo difatti dimostrato nel capitolo II che fino al 1089 il nome della città era Andri o Andre, e non Andria. Incliniamo a pensare che la beatificazione e la relativa elevatio ossium avvenne verso il 1143. Questa ipotesi, semplice ipotesi, si poggia sul fatto che nel terzo medaglione dell’episcopio è detto del vescovo assegnato al 1143 beatus Ignotus. Sappiamo che questo vescovo, che in quell’anno indicato partecipò alla traslazione di S. Nicola Pellegrino a Trani, si chiamava Leone. Ma perché è detto beato? I medaglioni furono dipinti dalla munificenza di Mons. Resta, vescovo di Andria dal 1582 al 1597. Allora non si sapeva il nome di quel vescovo, ma dovevano esserci delle notizie, qualche documento, donde si fu autorizzati a dare l’appellativo di beato. Facilmente questo pio vescovo volle assecondare l’affetto e la venerazione del popolo verso l’illustre predecessore Riccardo, dichiarandolo santo.

Ma quando visse S. Riccardo? Non è facile rispondere, ma non è impossibile rintracciare con approssimazione anche questo tempo. L’origine inglese del Patrono è attestata da tutti i documenti e quindi è fuori dubbio. Bisogna conciliare l’origine del santo col dominio normanno.

È risaputo che i normanni dalla Francia si spinsero ad occupare l’Inghilterra il 1066. Da allora avvenne un frequente scambio di ecclesiastici tra l’Inghilterra, la Francia e l’Italia. S. Anselmo, nato ad Aosta, fu arcivescovo di Canterbury dal 1093 al 1109. Vescovi normanni si recarono in Inghilterra insieme a Guglielmo il Conquistatore e vi elevarono chiese imponenti di stile romanico adattato alla tecnica costruttiva locale. L’inglese Giovanni di Salisbury fino al 1180 fu vescovo di Chartres in Francia. Dal 1154 al 1159 fu papa l’inglese Adriano IV.

Questa fusione di ecclesiastici di varie nazioni, soggette ai normanni, ci spiega la presenza in Andria di un vescovo inglese. Crediamo di poter fissare agli ultimi decenni del secolo XI l’apostolato riccardiano. Quando avvenne la pace tra Roberto il Guiscardo e il papa Niccolò II (1059) gli andriesi avranno pregato le autorità ecclesiastiche e politiche di donare alla diocesi un vescovo zelante, che ristabilisse la fede, oramai turbata e illanguidita per le rovine subiti in seguito alle continue invasioni. Il papa, che aveva ai suoi fianchi il grande benedettino Ildebrando, italiano ma appartenente all’abbazia francese di Cluny, poté aver notizie di questo sacerdote inglese, cui affidò il delicato compito di risollevare spiritualmente la diocesi andriese. Così Andria si collegò a quel movimento di riforma che beneficò tutta la Chiesa, inaugurando un periodo di floridezza in ogni campo dell’attività umana.

Due dipinti del Santo.

Si tratta di un affresco rinvenuto nella cripta e di una tavola, fatta dipingere dal vescovo Cristoforo. Del primo così parla il duca Del Balzo: «picturam cum sua effigie atque nomine, græca manu tinctam, conspexi». Com’è chiaro, l’affresco rappresentava S. Riccardo ed era di stile bizantino (græca manu).

Riferiamo in parte la narrazione del Durso sulla tavola dipinta: «S. Riccardo era raffigurato in piedi, con gli abiti pastorali alla greca, tenendo la dritta mano disposta a benedire, e colla sinistra sosteneva un libro, su cui poggiava la città di Andria, fiancheggiata dal bacolo pastorale. Nei lati verso l’alto eranvi due angioli porgenti due cartelli, dei quali in uno si leggeva: “Serve Dei, exaudi me” e nell’altro: “Exaudita est oratio tua”. Erano rimarcabili in quel monumento i caratteri dei due cartelli, i quali erano longobardi». Il campanile della chiesa «era dimezzato, cioè dipinto a metà di quello che è attualmente» dice lo stesso autore. Sotto il quadro si leggeva la seguente iscrizione: «Divo Riccardo andriensi Episcopo - Christoforus eiusdem Ecclesiae indignus antistes p. an. Ch. Red. DCC». «Mancava il rimanente, dice il Durso, dei numeri, essendo tarlato questo pezzo del quadro, come in molti altri punti: e questa stessa sottoscrizione era a stento reperibile in caratteri longobardici. Per nostra sventura questa preziosa immagine fu vittima dell’incendio che sofferse questa nostra sagrestia nel sacco del 1799. Del resto sono ancora in vita molti che depongono la oculare testimonianza».

I due dipinti sono stati attribuiti al tempo della dominazione greca. Ciò non è esatto. Lo stile bizantino iconografico continuò fino al tardo medioevo. Esso è visibile tuttora nei dipinti delle laure basiliane con le varie figure generalmente immobili, senza vita, con atteggiamenti ieratici e uniformi. Sopravvenuta la dominazione normanna, non ebbe termine immediatamente l’influsso dell’arte orientale. Molti greci, ecclesiastici e laici, rimasero nella nostra Puglia, dove avevano famiglia, interessi, occupazioni. Nel Salento i sacerdoti greci fino al secolo XVI ebbero anche il diritto di seguire il rito orientale, ciò che dette luogo a diversi incidenti con la seguente abolizione quasi completa della liturgia bizantina. A Castrignano dei Greci e in qualche altro comune della provincia di Lecce si parla ancora il dialetto greco, ultimo vestigio dell’antica dominazione.

Per la tavola dobbiamo aggiungere altri rilievi. Si è detto che i caratteri ed altri particolari erano longobardi. Ma la tradizione longobarda non si estinse di botto. Il Carabellese nell’opera: L’apulia e il suo Comune riporta in appendice diversi documenti del secolo XI e XII di cui rileva i caratteri longobardi e allusioni ad usanze derivate da leggi longobarde. Che meraviglia che lo stesso sia accaduto al nostro quadro?

La data dell’iscrizione potrebbe causare perplessità. Ma è stata riportata esattamente? Osserviamo che la lettura della data, secondo quanto lo stesso autore osserva, era di difficile lettura. Se si riflette alla minima differenza nell’antica trascrizione lapidaria tra il 1000 (I) e il 500 I), l’errare non era difficile. Tanto più che l’Ughelli aveva assicurato che il vescovo Cristoforo partecipò al concilio di Nicea il 787. Le due date dovevano in qualche modo coincidere.

Omettendo l’osservazione dell’Episcopus andriensis invece di andrensis, c’è un argomento decisivo contro la data del secolo VIII. Difatti nel quadro era dipinto il campanile dimezzato, cioè con la base (la torre di difesa) e il primo piano; mancavano il secondo e terzo piano. Abbiamo già scritto che il primo piano di stile romanico fu costruito il 1118 e perciò non poteva apparire nel secolo VIII. La data era del secolo XII; non si può determinare il decennio perché alcune lettere erano scomparse per i1 tarlo. I due dipinti non sono dunque un ostacolo al S. Riccardo dell’epoca normanna: vi si accordano perfettamente.

NOTE    (nell'originale le note sono di pagina, non di fine argomento)

[1] In un documento del 1094 conservato nella cattedrale di Melfi appare il conte Riccardo di Andria come testimone.

[2] Il Papebrok, il bollandista che non accettò il S. Riccardo del sec. V, disse della «legenda inventionis» sola certa et fide digna.

[3] LANZONI: Le Diocesi d’Italia.

[4] VIOLLET-LE-DUC in Liturgia – Paris, 1935, Bloud et Gay..