La Chiesa e il Convento di S. Domenico

Contenuto

Monografie Andriesi

di Emmanuele Merra, Tipografia e Libreria Pontificia Mareggiani, Bologna, 1906, Vol II, pagg. 3-183
Chiesa di San Domenico

VIII
La Chiesa e il Convento di S. Domenico

Poiché la carità del natio loco
Mi strinse, raunai le fronde sparte.
DANTE, Inf., C. LXXIV.

sommario

  1. I. La Chiesa di San Domenico.
  2. II. - Francesco II Del Balzo, Duca d’Andria.
  3. III. - La Chiesa di San Domenico rimodernata.
  4. IV. - Arredi Sacri della Chiesa.
  5. V. - Il Campanile.
  6. VI. - Ultime vicende della Chiesa.
  7. VII. - Il Convento.
  8. VIII. - Beni dei Domenicani.
  9. IX. - Censi e Canoni.
  10. X. - Il nuovo Chiostro.
  11. XI. - Riforma dei Domenicani.
  12. XII. - S. Domenico. Studio generale della Provincia di Puglia.
  13. XIII. - Biblioteca del Convento di San Domenico.
  14. XIV. - Lotte tra il Convento di S. Domenico ed il Capitolo Cattedrale.
  15. XV. - I Domenicani esonerati dalle processioni che facevansi in Andria.
  16. XVI. - Scandaloso litigio tra i Canonici della Cattedrale ed i PP. Domenicani per la processione del Corpus Domini.
  17. XVII. - Il Convento soggetto a varie imposizioni fiscali.
  18. XVIII. - Quistioni di precedenza nelle processioni.
  19. XIX. - Ordini di spedire alla Regia Zecca gli argenti dei PP. Domenicani.
  20. XX. - Il Convento indebitato.
  21. XXI. - I Domenicani ed i Repubblicani francesi.
  22. XXII. - Ordine di Re Ferdinando IV circa le Fedi di credito ed il Convento di S. Domenico di Andria.
  23. XXIII. - Varii Domenicani nominati maestri di scuola in Andria.
  24. XXIV. - Soppressione dei Domenicani.
  25. XXV. - Il Chiostro di S. Domenico mutato in Officina elettrica.
  26. Documenti



I. La Chiesa di San Domenico

Un giorno nella capitale della cristianità, senza che l’uno avesse giammai udito il nome dell’altro, s’incontrarono insieme due uomini di Dio, San Francesco d’Assisi e San Domenico di Gusman, «due poveri ed umili fraticelli, che ristorarono, ripulirono, rimisero in fiore la disciplina cristiana trascorsa e arrugginita dalla barbarie dell’età precedenti, richiamando i cristiani istituti alla santità dei loro principii [1]».
Vedersi, abbracciarsi e baciarsi fraternamente insieme, fu un punto solo. D’allora quell’abbraccio e quel bacio si trasmisero come preziosissimo retaggio nella loro posterità; ed i Frati Predicatori ed i Frati Minori furono intimamente stretti tra loro coi vincoli d’ un’amicizia sempre giovane e sempre immortale. Il popolo cristiano pietosamente memore di questa santa loro amicizia, in quel luogo ove nell’ardore della fede e della carità, innalzò un Convento pei figli di San Francesco, ne rizzò anche uno pei figli di San Domenico. Laonde la città di Andria, che due chiese e due chiostri aveva murati per colui, che fu tutto sera fico in ardore, volle murarne uno ancora per colui, che per sapienza in terra fue di cherubica luce uno splendore [2]».
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Correva l’anno 1398, e l’Eccellentissima signora D.ª Sveva Orsini, vedova del fu Francesco I del Balzo, Duca d’Andria, per l’affetto singolare, che verso la Religione dei Frati Predicatori dimoranti in Barletta, nutriva; chiamò il P. Fra Angelo di quella città, il quale in allora fungeva da inquisitore dell’eretica pravità, e con pubblico atto, stipulato in Barletta dal Notar Matteo di Notar Giacomo, li 28 gennaio 1398, assegnò in mezzo alla città della sua Duchea un luogo, ove innalzarne il Convento e la Chiesa sotto il titolo di Santa Maria dell’Umiltà, con far demolire molte case d’intorno [3]. La pia Duchessa doveva senza dubbio esser persuasa che, «colui che innalza o restaura un monastero, si fabbrica una scala per salire al cielo» [4]».
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All’uopo pertanto la Orsini supplicò istantemente Papa Bonifacio IX per averne il permesso. Il Pontefice annuì di buon grado alle suppliche della pia Duchessa, ed al Priore ed ai Frati dell’Ordine dei Predicatori mandò una sua Bolla, datata da Roma, li 25 marzo 1398. Il Documento Pontificio è del seguente tenore: «Bonifacio (IX) Vescovo, Servo dei Servi di Dio, ai diletti figli Priore e Frati dell’Ordine dei Predicatori salute ed apostolica benedizione. Ben volentieri favoriamo i desiderii di coloro, che cose giuste ci domandano, e di buon grado ci mostriamo propizii e benigni ai voti di coloro, dai quali si spera possa venire l’incremento del culto divino. Ed in vero una petizione a Noi presentata da parte della diletta figliuola in Cristo, la nobile signora Sveva Orsini, vedova del fu Francesco del Balzo, duca d’Andria, conteneva come essa piamente pensando alla salute dell’anima sua, e volendo con felice commercio commutare le cose terrene nelle celesti, le transitorie nelle eterne, con i beni a lei da Dio concessi nella città di Andria, proponeva, con l’aiuto divino, di fondare, costruire ed erigere, sopra un suo fondo, un luogo per uso ed abitazione dei Frati del vostro Ordine, con la Chiesa, il campanile, la campana, il cimitero, il chiostro, il dormitorio, il refettorio, le case, e le altre officine necessarie. Per la qual cosa da parte della stessa Sveva fummo umilmente supplicati a volerci degnare di concedere alla medesima, con apostolica benignità, il permesso di attuare siffatte cose, ed a voi di accettare tale luogo per il detto uso ed abitazione. Noi adunque che ardentemente desideriamo l’incremento del culto divino, e la propagazione del sullodato Ordine, facendo buon viso a queste suppliche, con Apostolica Autorità in vigore delle presenti Lettere, concediamo alla medesima Sveva di fare quanto si è detto, ed a voi il cennato luogo con la Chiesa, col campanile, con la campana, col cimitero, col chiostro, ecc., restando sempre salvi i dritti della Chiesa parrocchiale, e di qualunque altro, come fu decretato da Papa Bonifacio VIII, nostro Predecessore, di felice memoria, e dagli altri. A nessuno adunque ecc. Datata in Roma presso S. Pietro. li 25 marzo 1398, l’anno nono del nostro Pontificato» [5]».
Emanata da Papa Bonifacio IX tale Bolla, pare che la pia Duchessa abbia nel medesimo anno posto mano alla fabbrica della Chiesa e del Convento. Una gran lapide di pietra, chiusa entro una cornice intagliata, e messa in alto sulla facciata laterale del tempio, mostra eloquentemente a tutti che quella fabbrica è opera della pietà insigne dei del Balzo e degli Orsini. In essa è scolpito lo stemma di casa del Balzo, consistente in una stella di argento con sedici raggi in campo vermiglio, e quello di casa Orsini consistente in un orso con una rosa in testa, e con tre fasce di traverso.
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Il tempio, eretto dalla Orsini a Dio Onnipotente in onore di Santa Maria dell’Umiltà, ha una sola navata. Originariamente era di stile gotico, conce quello che, con la severità delle sue linee architettoniche, con la sveltezza delle sue colonne e dei suoi archi acuti, e con la scarsezza della luce, che vi lascia penetrare attraverso le sue finestre di lunghissimo vano, richiama misteriosamente, a preferenza degli altri ordini di architettura, l’anima del cristiano al raccoglimento il più grande che mai, e lo eleva al sublime pensiero di Dio tre volte santo e della interminabile eternità. Che l’architettura di questa Chiesa sia stata gotica, non dubbia testimonianza ne fanno le sue tre lunghe finestre, sulla facciata laterale, e le altre due più piccole, ora tutte chiuse, accanto all’occhio ingraticolato, che vi doveva essere nel mezzo del prospetto, ove invece si apre una grande finestra.
La facciata certamente non dovette avere il disegno, che ha al presente; essa subì varie mutazioni. Fu rimodernata nel 1510, quando all’antica venne sostituita la presente porta. Infine sull’architrave, nel concavo d’una grande conchiglia si vede scolpita in pietra la Beata Vergine, la quale tiene seduto sulle ginocchia il Bambino. Sopra del medesimo architrave si elevano a semicerchio due cornici, l’una ritorta, e l’altra formata a dentelli. Nel fregio si legge incisa questa dedica:

CHRISTIFERE MARIE VIRGINI PRAEDICATORUM ORDINIS PROTECTRICI OPUS DICATUM A. D. 1510. 14 INDICTIONIS.

Tre cornici, la prima sporgente, e le altre due a livello, tutte variamente e vagamente dentellate, abbelliscono l’architrave. Sotto di esso ricorre una larga fascia con tre festoni, intramezzati da quattro teste alate di serafini. L’architrave è sostenuto da due svelti pilastrini, incassati e scanalati, con capitelli di ordine composito, e con ornamenti diversi. Un capitello infatti è formato da due teste di cavalli opposte fra loro, con in mezzo un fiore, dal quale pendono dei nastri; e l’altro è formato da uno stelo, intorno a cui s’intreccia pampinosa una vite. Nella base del pilastrino, che sta a destra di chi entra, si vede scolpito Dio Padre in atto di contemplare il primo uomo da lui creato; in quella che sta a sinistra, si veggono Adamo ed Eva sotto l’albero della scienza del bene e del male, intorno al cui tronco sta attorcigliato l’antico serpente. Tutti questi lavori sono con una tal quale eleganza scolpiti in pietra. Innanzi eravi un portico formato da leggiadre colonnine; esso probabilmente fu distrutto al principio del passato secolo, dopo l’espulsione dei Domenicani. Una vaga finestra, di cui son rimaste ancora due svelte colonnette laterali, si apriva sopra di esso. Nell’anno 1773, nel restaurarsi la Chiesa, l’antica finestra fu chiusa, ed aperta l’attuale [6], mentre la facciata fu rifatta pessimamente.
A lato della Chiesa avvi una porta più piccola, elegantemente incorniciata. Nel frontespizio è scolpita a bassorilievo una statuetta di pietra, rappresentante San Domenico, che tiene un giglio nella destra, ed un libro aperto nella sinistra, ed ai piedi il cane con una torcia accesa in bocca. Più in alto eravi lo stemma domenicano, ora si osserva solamente il vano e le cornici.
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Questo tempio originariamente aveva tredici Cappelle, o altari, sei a destra e sei a sinistra, e la maggiore nel mezzo.
Esse, come è dato rilevare da documenti, erano le seguenti:
I. La Cappella della B. Vergine dell’Incoronata, alla quale un certo Federico di Miano ogni anno, nel giorno 15 agosto, sacro all’Assunzione di Maria in cielo, pagava un censo di carlini 21, per un legato fatto a detta Cappella dalla religiosa Suor Francia Della Forgia, infisso sopra sei fosse, site fuori le mura di Andria, cioè tre nella spiazzata di S. Maria Vetere, e tre in quella di S. Maria Nova [7].
II. La Cappella di Santa Maria della Consolazione, di dritto patronato della nobile famiglia Vitagliano. Infatti Pietro Vitagliano, in virtù di testamento, rogato il 24 febbraio 1615, lasciava doc. 50 al Convento di S. Domenico di Andria, con l’obbligo di censirsi a persone sicure, e dal fruttato di doc. 15 dirsi in perpetuo quattro messe la settimana; cioè una per l’anima del fu Grazioso Vitagliano suo padre: l’altra per la defunta sua madre Rosa de Catellis: la terza per la fu Suor Maria de Fusellis sua zia: e la quarta per l’estinta Suor Mattia de Morsellis, altra sua zia [8].
III. La Cappella dell’Annunziata aveva i seguenti legati. I coniugi Pietro Lombardo e Giovanna Navarra, con disposizione testamentaria del 25 maggio 1541, lasciarono alcune vigne alla Pescara Rossa, o Casa de Angelis, non che una casa alla piazzetta, con l’obbligo di due anniversarii annui a detto altare [9]. Con istrumento rogato da Gianpalmieri di Morotto nell’anno 1594, Gian Luca, Donato ed Appio Vangelli, lasciarono doc. 12 annui al Convento di S. Domenico per la suddetta Cappella [10].
IV. La Cappella della Madonna di Costantinopoli. A questa Cappella Sebastiano Tupputi, con istrumento fatto da notar Francesco Giacomo Petuso nel 1625, lasciò ducati 100 per la celebrazione di una messa ogni martedì, e di alcuni anniversarii. Detta somma fu presa in censo dagli eredi di Gian Lorenzo di Riso, per la quale nel mese di ottobre, pagavano duc. 10 annui [11]. Nunzio La Ghezza sopra una sua casa, sita nella seconda Ruga longa, alla trasonda di mastro Natale Vurchio, lasciò un censo annuo di grana 10 a questa Cappella [12]. L’Antica Immagine di questa Madonna, dipinta a fresco sul muro, nell’ammodernarsi la Chiesa, venne conservata, e nel 1773 fu chiusa in una cornice di marmo, con una lastra innanzi, a divozione d’un certo Saverio Zotti, come si legge sopra d’una piccola lapide marmorea: «Xaverius Zotti summo affectu aere suo decoravit. A. D. MDCCLXXIII».
risguardo del "Teatro" - libro dei beni del convento domenicano
V. La Cappella di Santa Maria dell’Umiltà. Pare che questo fosse il titolo della Chiesa di S. Domenico; mentre in un Inventario dei beni del Convento, scritto nel 1703, si legge così:
«Teatro dove si rappresentano in vere e reali scene tutte le annue entrate tanto ordinarie, quanto straordinarie del V. Convento di S. Domenico della città di Andria, prima chiamato S. Maria dell’Umiltà». Il medesimo autore del Teatro, il M. R. P. Fra Luigi Mondelli da Trani, parlando della fondazione di questo Convento dice: «Con promessa di farne il Convento Claustrale e Chiesa sotto il titolo di S. Maria dell’Umiltà» [13]. Nel Testamento di Francesco I del Balzo, Duca di Andria, rogato nel di 23 aprile 1420, il quale benchè sia evidentemente falso nella sostanza, mentre il detto Duca nel 1398 era già morto [14]; pure è vero nelle sue accidentalità, si parla della Cappella di S. Maria dell’Umiltà, a cui il Del Balzo avrebbe lasciato un legato [15]. D. Giovanni Pastore, Prevosto della Collegiale di S. Nicola, nella sua Storia manoscritta della città di Andria, parlando del mezzo busto in marmo di Francesco II Del Balzo, Duca di Andria, dice che stava vicino alla Cappella di Santa Maria dell’Umiltà [16].
VI. La Cappella della Madonna del Rosario aveva parecchi legati. Nel 1627, con istrumento rogato da Notar Francesco Giacomo del Petuso, Giuseppe di Rimedio teneva a censo duc. 10, lasciati da suo padre alla Cappella del Rosario, pei quali ogni anno nel giorno 8 aprile pagava carlini 10 [17]. Giuditta Micale, con testamento del 27 agosto 1633, fatto dal medesimo Notaio, lasciò ai Domenicani doc. 5 annui da dirsene messe all’altare del Rosario; Masello Caletta ed Antonia Mezzafalce legarono al Convento doc. 110, con istrumento del 1597 di Notar Consalvo Morselli, col peso di celebrarsi all’altare del Rosario una messa ogni giorno allo spuntare dell’alba [18]. Di qui senza dubbio ha avuto origine l’usanza, che tuttavia si mantiene in vigore, di suonarsi ogni mattina all’alba la campana di S. Domenico. Nicolò Antonio Brudaglio con un suo Codicillo, rogato per mano di Notar Girolamo di Micco, ai 23 di luglio 1701, legò al Convento di S. Domenico doc. 150, col peso di celebrarsi in perpetuo dall’usufrutto tante messe, a carlini 3 l’una, alla Cappella del SS. Rosario [19]. D. Filippo Tesoriero, con testamento di Notar Giovanni Carlo Palumbella, ai 17 aprile 1644, lasciò al detto Monastero docati 217, con l’obbligo di celebrarsi un numero di messe annue, alla Cappella del Rosario, a grana 15 la messa, secondo il Sinodo Diocesano di Andria [20]. La magnifica Lucia Griffi di Ruvo, casata in Andria col signor Gian Lorenzo Guadagno, secondo marito, col suo ultimo testamento del 12 aprile 1702 rogato dal Notar Donato Menduto, istituì, dopo la morte di suo marito, come erede particolare il Convento di S. Domenico di carra 4 di territorio a Sporlincano, col peso di far celebrare perpetuamente ogni lunedì, alla ragione di carlini 5, all’altare di S. Tomaso una messa, e le altre a quello del SS. Rosario, per l’anima sua, di suo marito, e dei suoi eredi. Di più ordinò al suo erede, che, vita sua durante, dovesse far celebrare dal giorno della morte di lei messe 150 a grana 10 la messa, metà all’altare del Rosario, e metà all’altare di S. Domenico [21].
VII. La Cappella di S. Domenico teneva i seguenti legati. L’eccellentissimo signor D. Antonio Carafa, Duca di Andria, legava doc. 104 annui al Convento di S. Domenico, con peso di due messe il giorno, all’altare privilegiato di S. Domenico, alla ragione di grana 15 l’una, come si rileva dal testamento, rogato dal Notar Gio. Alfonso Gurgo, li 19 agosto 1644 [22], del seguente tenore: «Item voglio che per suffragio dell’anima mia s’abbiano a celebrare in perpetuum tre messe il giorno, cioè due nella Chiesa ed altari privilegiati di S. Domenico d’Andria, e l’altra nell’altare di S. Domenico e SS.mo Rosario di Ruvo; con questo però che li PP. di detti Conventi non possano pretendere che 15 grana per ciascheduna messa, conforme si costuma qui in Andria nelle Chiese secolari, e si dice esser la tassa del Sinodo Provinciale; e caso che detti PP. non si contentassero di detta mercede di 15 grana per messa, voglio che dette messe si celebrino dal Rev.do Capitolo della Cattedrale di detta Città, alla Cappella del Glorioso S. Riccardo nel modo di sopra». Son di credere, sebbene nol dica, che allo istesso altare abbia pure lasciato il legato di ducati 162 annui per tre messe al giorno, la Duchessa D. Emilia Carafa, in virtù di testamento fatto in Napoli, l’11 aprile 1653, dal Notar Domenico di Mase, e dal liceat ottenuto dal Provinciale Palumbo di Lecce, il 19 aprile del medesimo anno. In questo testamento si legge: «Item vuole che si celebrino, per l’anima sua ed a sua intenzione, messe tre in ogni giorno in perpetuum nella Chiesa di S. Domenico della detta città d’Andria dell’Ordine de’ Rev.di Padri Predicatori, e perciò grava detto signor Duca suo figlio (D. Carlo) ed erede a pagare in ogni anno alli detti RR. PP. l’annua entrata stabilita dal Sinodo Provinciale, della cui celebrazione vuole che non possa mancarsi per Mare magnum [23], né per qualsivoglia altra causa». L’intera somma dei due legati in doc. 270 si esigeva dai molini di Andria [24]; il signor Riccardo Tupputi estinse l’annuo censo di doc. 7, che egli pagava al Convento di S. Domenico, dandogli cinque palmenti, con peschiera e terra vuota, nel luogo detto Sopra li Trappeti, con peso di far celebrare all’altare di S. Domenico, tre messe la settimana, cioè il mercoledì, il venerdì ed il sabato; obbligandosi il Tupputi coi suoi eredi di pagare, in ogni 31 agosto carlini 20 per risarcimento delle tine del palmento, come da istrumento di Notar Alfonso Gurgo 1641 [25]. Finalmente la signora Lucia Griffi, con testamento del 12 aprile 1702, volle che suo marito, il magnifico Gian Lorenzo Guadagno facesse celebrare, vita sua durante, messe 75 a grana 10 la messa, all’altare di S. Domenico [26].
VIII. La Cappella di S. Tomaso d’Aquino. Questa Cappella con istrumento di Notar Francesco Giacomo de Petusi, nel 1603 ebbe in dote dal Notar Giacomo de Morsellis duc. 200, col peso d’una messa giornaliera da celebrarsi sul medesimo altare [27]. La magnifica Lucia Griffi, come da istrumento del 12 aprile 1702, rogato dal Notar Domenico Menduto, lasciò a questa Cappella, in tutti i lunedì dell’anno, una messa di carlini 5 [28].
IX La Cappella di S. Vincenzo Ferreri, il taumaturgo dell’Ordine dei Domenicani. Nel 1596 Silvia Pastore legò duc. 15 al Convento, per farsi un panno a S. Vincenzo, e per celebrarsi due messe il mese [29].
X. La Cappella di S. Pio V Papa, dell’Ordine di S. Domenico, il gran promotore della devozione del SS. Rosario di Maria, nel di cui celeste adiutorio l’esercito cristiano trionfò dell’oste maumettana, nelle acque di Lepanto, il 7 ottobre 1571. Questo Santo si vede ora dipinto nello stesso quadro di S. Tomaso d’Aquino.
XI. La Cappella di S. Pietro, martire Domenicano, il di cui quadro doveva essere certamente quello che si ammira nella Sagrestia. In Chiesa ora si vede dipinto nel quadro di S. Domenico.
XII. La Cappella di S. Giacinto, di S. Maria Maddalena penitente, e di S. Caterina Vergine e Martire, che al presente stanno dipinti nel quadro di S. Domenico.
XIII. L’Altare maggiore in fine.
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva dell'intero argomento)
[1] GIOBERTI, Il Primato, ecc.
[2] DANTE. Paradiso, canto XI.
[3] Teatro dove si rappresentano in vere e reali scene tutte l’annue entrate tan’ordinarie quanto straordinarie del Ven. Conv. di S. Dom. della città di Andria, prima chiamato S. Maria delll’Umiltà, poste in luce dal M. R. M.ro F. Luiggi Mondelli da Trani dell’Ord. dei Predicatori sotto il priorato del M. R. P. Lett. F. Gioseppe M.ª Positani da Napoli Figlio di S. Spirito di Palazzo della Congr. della Sanità nell’anno 1703. (Curia vesc. di Andria).
[4] Qui claustra construit vel delapsa reparat coelum ascensurus scalam sibi facit. App. HURTER, Storia d’Innocenzo III, t. IV, p. 450.
[6] Liber Consiliorum Ven. Conv. S. Dominici de Andria, tempore Prioratus A. R. P. M. Studentium F. Nicolaj Bellacosa a Juvenacio an. a Partu Virg. 1748, p. 57. (Curia vesc. di Andria).
[7] Inventarium omnium bonorum Mobilium, Stabilium, ac Censuum et Reddituum Ecclesiae S. Dominici de Andria tempore Prioratus Rev. magistri Horatii de Tarento, confecto in anno Domini 1576. (Curia vesc. di Andria).
[8] Inventario overo Manuale di tutti li censi del Convento d’Andria, tanto perpetui, quanto quandocunque, et ad tempus, et ancora dell’affitti della Mattina, delli Mari, e Poteghe, Case, Tufare, Vignali et altre cose del Convento, p. 20. (Curia vesc. di Andria).
[9] Teatro ecc., p. 125.
[10] Inventario overo Manuale ecc., p. 28.
[11] Inventario overo Manuale ecc., p. 22.
[12] Teatro ecc., p. 85.
[13] Teatro ecc., p. 1.
[15] D’URSO, Storia della città di Andria, lib. V, cap. IX, p. 99.
[16] PASTORE, Storia di Andria, cap. VI, § 206, p. 252. Ms. di G. Ceci.
[17] Inventario overo Manuale ecc., p. 23 a t.
[18] Teatro ecc., p. 56.
[19] Teatro ecc., p. 2.
[20] Teatro ecc., p. 122.
[21] Teatro ecc., p. 135,136.
[22] Teatro ecc., p. 6.
[23] Chiamavasi alla fratesca Mare Magnum una Bolla di Sisto IV, emanata il 31 agosto 1474 in favore dei frati mendicanti.
[24] Teatro ecc., p. 6.
[25] Teatro ecc., p. 71.
[26] Teatro ecc., p. 136.
[27] Inventario overo Manuale ecc., p. 12.
[28] Teatro ecc., p. 136.
[29] Teatro ecc., p. 133 a t.

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II. - Francesco II Del Balzo, Duca d’Andria.

busto di Francesco II del Balzo, nella sua nicchia ai tempi del Merra busto di Francesco II del Balzo
[busto di Francesco II del Balzo, nella sua nicchia ai tempi del Merra - Il busto (oggi nel museo diocesano), esposto in Cattedrale - foto S. Di Tommaso, 2012]
Francesco II Del Balzo, nato in Andria nel 1410 dal Duca Guglielmo e da Antonia di Brunforte dei Conti di Bisceglie, fu d’indole generosa, di grande virtù, di somma pietà, di non umile coltura; nei negozi di Stato, abile; in guerra valoroso soldato e saggio capitano. Nella presa di Otranto corse alla difesa di quella eroica città, e fu fra i Baroni, che portarono gente, insieme con Pirro Del Balzo, Duca di Venosa, e Giacomo Piccinino capitano di Andria [30]. Fu gran Conestabile del Regno; ambasciatore di Re Fernando presso Papa Pio II; assisté in Roma alla coronazione dell’imperatore Federico, ed agli onori fatti ad Ercole Estense ed alla moglie Leonora. Ritrovò il corpo di S. Riccardo, primo vescovo di Andria, e ne scrisse l’istoria della invenzione. Piissimo qual’era si ascrisse al terzo Ordine di S. Domenico, e ne professò la regola, sino a rigovernare i piatti del Convento, per esempio di rara umiltà. Menò a termine il Monistero e l’arricchì di molti beni, per cui non immeritamente ne fu chia-mato il fondatore.
I Padri Domenicani grati quant’altri mai a questo munifico e grande loro benefattore, pare che ancor vivente gli abbiano fatto scolpire, come è probabile, dal celebre Donatello, un pregevolissimo mezzobusto in marmo cli Carrara. È vestito da Terziario, con il seguente umilissimo motto, inciso in lettere dorate intorno al collaretto dell'abito: «Ne quid nimis, ne quid nimis». Lo situarono primamente ai piedi del maggiore altare, al lato sinistro della Cappella di Santa Maria dell’Umiltà, con queste semplici parole scritte al di sotto: «Franciscus Baucius Dux Andriæ 1442» [31]. In tale epoca Francesco contava appena 32 anni. E quando poi nel 1482 in età di anni 72, egli passò di vita, il cadavere imbalsamato fu collocato sotto del busto, e vi fu sospesa una tavoletta con questo epigramma, in cui l’autore, per sbaglio, chiama Sveva Orsini moglie, invece di ava di Francesco II Del Balzo:
«Ad Excellentissimæ DD. Svevæ Ursini honorem, uxorisque Excellentissimi Ducis Bauci, cuius corpus in hoc Divi Dominici tempio conservatur integrum.
EPIGRAMMA
Hospitii titulum, titulum fundamina Claustri
E Sveva Ursini religiosa trahunt;
Inde monasterii norman, formæque rigorem
Franciscus Baucius Dux dedit ut monacus.
Hic Tertinus erat Fratrum, et ad tertia raptus
Sidera, non obiit, Paulus ut rapitur.
Extasis ætherea est potius dicenda, viator,
Mors sua, sique silet cælitus Harpocrates» [32].
In prosieguo lo scheletro del Duca fu trasferito in fondo al Coro, e precisamente sullo stallo del Priore, con una iscrizione, ora impossibile a leggersi, sia perché scritta sull’intonaco, sia perché cancellata dalla mano barbara dell’imbianchino, quando nel 1772, essendosi trasportato nel Coro l’organo, che stava sulla porta principale della Chiesa; il mezzobusto di Francesco Del Balzo, con lo scheletro, passò nella Sagrestia. Al posto dove stava l’organo venne dipinto S. Raimondo, con due chiavi nella destra, allusive all’ufficio di gran Penitenziere, di cui venne decorato da Papa Gregorio IX.
NOTE
[30] La Libertà, Giorn. Catt. Napoletano, 1898, n. 214.
[31] PASTORE, Storia mss. di Andria, Capo VI. § 206, p. 252. Mss. di G. Ceci.
[32] Mss. Sulla famiglia dei Del Balzo.

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III. - La Chiesa di San Domenico rimodernata.

Verso la prima metà del secolo passato [sec. XVIII], allorché in Andria, prevalse il malefico genio di far scomparire dai sacri tempi lo stile gotico; la Chiesa di S. Domenico fu ancor essa rimodernata, ed i suoi tredici altari ridotti a cinque.
Il maggiore, di marmo bianco, ornato di marmi verdi e gialli, ha quattro gradini, e nelle opposte estremità due angeli seduti, i quali sostengono due cornucopie. Nel mezzo vi è il ciborio con sopra una testa di Serafino, e con la porticina di argento, fatta a divozione di Antonio Fortunato, nel 1858. Svelta si slancia sopra di esso una cupola, che posa sopra due archi tondi, ed è illuminata da otto grandi finestre.
Una elegante ringhiera di bianco marmo, intarsiata di marmi variopinti e ben lavorati, separa il presbiterio dalla navata. Il 15 ottobre 1752, il Priore Fra Lorenzo Germano proponeva di farvi mettere la cancellata di ferro, tramezzata di ottone [33].
A destra di chi entra, il primo altare è sacro a S. Vincenzo Ferreri. Come gli altri tre altari, l’immagine del Santo è bellamente recinta da una stupenda cornice di marmo bianco, intarsiata di fregi di marmi rossi, che oltremodo elegante la rendono, ed è fiancheggiata da due pilastrini di marmo con basi e capitelli, e cimasi, e canestri di fiori e frutti. Il Santo è dipinto con grandi ali spiegate, e con una fiammella, accesa sul capo. Una folla lo circonda pietosamente in atto di ascoltare le sue parole, e di chiedergli grazie e guarigioni. In alto sono dipinti due serafini, e due angeli con le trombe in mano. Sopra del quadro avvi un ovale anche di marmo, in cui è dipinto S. Pietro Gonzales, avente a destra una barchetta, quale protettore dei naviganti, appellato comunemente Sant’Elmo.
Questo altare fu eretto dalla famiglia Spagnoletti, come si rileva dal testamento rogato per mano di Notar Giuseppe Antolini, nel 14 novembre 1756. Venne bellamente rifatto in marmo nel 1772 dal signor D. Sebastiano Spagnoletti iuniore, adempiendo cosi i pietosi voti del padre, come leggesi sopra di uno scudo marmoreo, che pende dalla cornice del quadro; «Sebastianus Spagnoletti Junior qui patris pia vota persolvit, anno salutis nostræ 1772».
A piè dell’altare vi è il sepolcro gentilizio degli Spagnoletti, con una epigrafe, messa alla memoria di Sebastiano Spagnoletti, Patrizio di Andria e di Giovinazzo, valente giureconsulto, per cristiana pietà e per illibatezza di costumi insigne, amico di tutti, caro ai suoi, certa tutela dei poveri; fu in questa tomba composto coi suoi maggiori, affinché una pietra sola covrisse le sue ceneri e quelle della madre, che vivo venerò. Visse anni 55, mesi 4, giorni 9. Morì ai 24 novembre 1783.
SEBASTIANUS SPAGNOLETTI
ANDRIÆ AC JUVENACII PATRICIUS
JURIS CONSULTISSIMUS
QUI
CHRISTIANA PIETATE MORUM PROBITATE
INSIGNIS
PUBLICUS AMICUS CARUS SUIS
CERTUM PAUPERIBUS PRÆSIDIUM
UT UNA URNA SUI CINERES MATRISQUE
QUAM VIVUS COLUIT TEGERET
HEIC CUM MAJORIBUS SITUS EST
VIXIT ANNOS LV. MENSES 1V. DIES IX
OBIIT DIE XXIV NOVEMBRIS
A. D. MDCCLXXXIII.
Su questo avello, come pure a destra e sinistra dell’altare si vede scolpito lo stemma degli Spagnoletti, consistente in un braccio armato di spada ed in una stella sopra di uno scudo sormontato da una corona.
Il secondo altare è dedicato a S. Domenico, ed è anche elegantemente adorno di marmi, come quello di S. Vincenzo. Nella tela si vede la B. Vergine, che tiene fra le mani spiegata la immagine di S. Domenico, con un libro nella destra e col giglio nella sinistra. Da un lato gli stanno la Maddalena dalla bionda chioma scarmigliata, e dal vasello del prezioso unguento fra le mani; e S. Pietro martire, con il pugnale dell’assassino confitto nel petto, e con ai piedi un angiolo, che stringe tra le mani la sciabola, con cui al Santo Domenicano fu barbaramente spaccato il capo. Dall’altro lato sono dipinti Santa Caterina V. e M. con in mano la palma del martirio, e S. Giacinto, vestito di lunga stola, con la sacra pisside nella destra, e con una statuetta in bronzo della SS. Vergine nella sinistra. Nell’ovale si vede S. Ludovico Bertrando con in mano una pistola, da cui prodigiosamente esce un crocifisso.
Questo altare fu fatto nel 1773 a spese dei Padri Domenicani, che ai lati vi apposero il loro stemma, e sullo scudo incisero questa epigrafe: «D. O. M. In honorem SS. sui parentis devota eius proles aram hanc erigendam jussit».
In origine era di dritto patronato della illustre famiglia Tupputi; ma questa non avendo voluto concorrere alle spese dei ristauri, fatti nel secolo passato, ne perdé il diritto.
Ai piedi di questo altare avvi il sepolcro gentilizio costruito da Riccardo Tupputi nel 1637, con la seguente iscrizione:
RICHARDUS EX CLARA TUPPUTORUM GENTE
PROGNATUS
UT ANIMÆ SUÆ REQUIEM
DIVI DOMINICI PRECIBUS IMPETRET
IN SACELLO GENTILITIO EIDEM DIVO SACRO
SEPULCRUM SIBI CONSTRUXIT
A. D. MDCXXXVII.
Sulla pietra sepolcrale si vede lo stemma dei Tupputi, il quale consiste in uno scudo, sormontato da una corona, con in mezzo un leone intersecato da una fascia, con le branche rivolte verso di una palma.
A sinistra di chi entra in Chiesa avvi l’altare dedicato a S. Tomaso d’Aquino. Quest’Angelo delle scuole è dipinto con un sole raggiante nel petto, simbolo della Santa Eucaristia, di cui egli compose il meraviglioso ufficio. Si vede genuflesso innanzi ad un altarino sopra del quale vi è un crocifisso, che gli dice: «Bene scripsisti de me, Thoma». Alle spalle sta il Pontefice S. Pio V egualmente prostrato innanzi ad un crocifisso; ed in alto un quadretto dell’Annunziata. Nell’ovale è dipinta Santa Caterina de Riccis Domenicana, che viene abbracciata dal crocifisso. I Padri Predicatori lo fecero di marmo, nell’anno 1772, come leggesi in una loro conclusione capitolare del mese di giugno, nella quale si dice: « A dì … dell’istesso mese 1771 si è proposto consiglio dal M. R. Padre ex Maestro degli studj, Fra Domenico Tommaso Monteleone, Priore, ai Padri de jure, come essendosi contentato il signor D. Sebastiano Spagnoletti fare l’altare di marmo nella Cappella di S. Vincenzo, se debbasi dal Convento fare ancora quello di S. Tommaso, e si è conchiuso affirmative» [34], Sul fregio della cornice di marmo sta scritto: «Altare hoc marmoreum Patres expensis Conventus posuere anno salutis nostræ MDCCLXXII».
Nel 1.° settembre del 1781, il Priore Fra Domenico Gaudio propose di farsi per questo altare sei candelieri e sei giarroni, con la croce di ottone [35].
Il secondo altare è sacro alla Vergine del Santissimo Rosario, che col Bambino nelle braccia sta seduta sotto un baldacchino, le di cui aste sono sostenute da quattro angioletti, e nelle cinque bende, che si veggono pendere, sono figurati i cinque misteri gloriosi del Rosario. A destra le stanno S. Domenico, che inginocchiato riceve da lei il Rosario, e Sant’Agnese da Montepulciano con un agnello in braccio; a sinistra le stanno Santa Caterina da Siena coronata di spine e col cuore in mano, non che Santa Rosa da Lima col giglio; mentre il Bambino le impone sul capo un serto di fresche rose.
Nell’ottobre 1896 la Vergine del Santo Rosario venne donata d’una corona di argento, che porta sul capo, e d’un concerto d’oro, che le adorna il petto. Nell’ovale è dipinto S. Antonio Arcivescovo di Firenze, vestito di piviale, con la mitra sul capo, col pallio sul collo, e con nella destra una borsa, da cui versa denaro, per esprimere la sua profusa carità verso dei poveri, e nella sinistra tiene la croce Arcivescovile.
Questo altare con il quadro fu fatto a spese della Confraternita del SS. Rosario, come appare dalla seguente conclusione: «A di 21 giugno 1773 fu proposto consiglio dal P. Priore Buchicchio se si dovessero fare due altri altari di marmo, cioè quello di S. Domenico, e quello del Rosario, pel prezzo di ducati 1200, e due quadri nuovi per i medesimi altari, per il prezzo di duc. 110; e perché la Congrega del Rosario, a chi spetta fare l’altare del Rosario, è impotente a pagare il costo del medesimo al marmoraro; se si dovesse il Convento obbligarsi a pagarlo in nome di detta Congrega col far obbligare con publico istrumento la detta Congrega di pagare duc. 40 annuatim al Convento intanto che estinguerà il debito tanto dell’altare, quanto del quadro; e fu risposto affermativamente» [36]. Infatti sopra uno scudo di marmo, posto in alto dell’altare si legge: «D. O. M. In honorem SS. Dei Genitricis sub titolo Rosarii devota eiusdem sodalitas». Tutti questi altari nel 1752, prima che fossero fatti di marmo, erano ornati di fiori di seta, di carte di gloria e di candelieri di ottone [37].
Vicino all’altare del Rosario, dalla parte dell’epistola, dentro una nicchia tutta dorata e che rassembra un trono, avvi una statua della Vergine del Rosario; pare una scultura greca, avendo la veste ed il manto screziati vagamente di fiori dorati. Il Bambino, messo sopra il braccio sinistro, è un pessimo lavoro di diverso autore, e dovrebbe essere tolto. Per questa statua e pel Bambino la pia signora Teresa Jannuzzi nei Porro donò due corone d’argento da mettersi nel giorno della festa.
Sulla porta della Sagrestia si ammira in tela un bellissimo ritratto di Papa Benedetto XIII della famiglia Orsini, e dell’Ordine dei Frati Predicatori. Di rincontro avvi lo stemma gentilizio del medesimo inquartato con quello dei Domenicani.
In mezzo al presbiterio vi è il sepolcro dei figli di S. Domenico, e sul coperchio di marmo lo stemma del loro Ordine.
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Dietro il maggiore altare si apre il Coro, sufficientemente spazioso, composto di ventisei stalli superiori, oltre quello del Priore, che sta nel mezzo, e di diciotto inferiori. È un pregevolissimo lavoro in noce del 1400, non tutto però. A quest’epoca appartiene senza dubbio lo stallo del Priore delicatamente intagliato ed ornato di cornici, di modanature, di rabeschi, di modiglioni, e di immaginette fantastiche, le quali lo rendono graziosamente bello. Nel mezzo vi stava scolpito lo stemma Domenicano; ma mani vandaliche lo strapparono! Ai laterali esterni di questo stallo si veggono due mezzo busti a bassorilievo, che pare debbano rappresentare il Duca e la Duchessa di Andria, Francesco II Del Balzo, e Sancia di Chiaramonte. Indubitatamente appartengono pure alla medesima epoca tutte le spalliere degli stalli, artisticamente intagliati con varie e bellissime figure, nonché i sostegni dei poggiuoli degli stalli superiori, che rappresentano grifi, scimie, leoni, draghi alati, centuari, ed altri mostri di simil genere. Il resto del Coro pare che appartenga all’epoca, in cui fu rimodernata la Chiesa.
In mezzo al pavimento del Coro si apre una tomba marmorea, lavorata con delicati intagli, dove una volta vi era forse quella dei Del Balzo. È il sepolcro gentilizio dei Carafa, Duchi di Andria. Esso fu fatto costruire nell’anno del Signore 1588 dalla Contessa di Ruvo, Porzia Carafa, la quale pia consorte e madre, ad istanza di questi cittadini, volle piangendo custodire in questo rozzo avello, piuttosto che nel loro celebre ed ornato sacello, eretto nella primaria casa di Napoli, le ceneri del marito Fabrizio e del figlio Antonio, Duchi di Andria, fiorenti per insigne fortezza di animo e per preclara virtù; affinché la memoria di tanti loro meriti non fosse cancellata totalmente dall’ingiuria del tempo.
FABRITII ATQUE ANTONII CARAFÆ ANDRIANORUM DUCUM ANIMI FORTITUDINE INSIGNI
AC PRÆCLARA VIRTUTE FLORENTIUM CINERES HORUM CIVIUM PRÆCIBUS MARMO
RE IMPOLITO POTIUS QUAM EORUM CELEBRI ET EXORNATO SACELLO ÆDE PRIMARIA
NEAPOLIS CONDITO PORTIA CARRAFA RURORUM COMES PIA CONIUX ET MATER
NE TEMPORIS INIURIA TANTORUM MERITORUM MEMORIA PENITUS ABOLERETUR
MOERENS CUSTODIRI CURAVIT. A. D. M.D.LXXX.VIII
Nel secolo passato sulla parete in fondo al Coro vi era una pittura, ma per essere mostruosa, il Priore Fra Lorenzo Germano, nel 1752, la fece ritoccare; poi scomparve del tutto nel 1772, quando l'organo con la sua grande orchestra, dipinta in oro su fondo verde, ora ritinta in bianco, da sulla porta principale della Chiesa, venne trasferito nel Coro.
Infatti nel libro delle conclusioni capitolari dei Padri Domenicani di Andria si legge: «A dì 15 decembre 1772 fu proposto consiglio dal M. R. Padre ex maestro di studio Fra Ludovico Buchicchio ai Padri de jure, se si dovessero fare i controbassi all’organo, come ancora se si dovesse trasferire detto organo da basso alla Chiesa al Coro; e fu risposto affermativamente» [38].
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La Chiesa è ornata di stucco; ha un pergamo arabescato d’oro su fondo verde: quattro confessionali di legno, incassati nella parete: un grande Crocifisso di legno, e due elegantissime pile di marmo piombino per l’acqua benedetta, con spalliere di marmo bianco e di vario colore, aventi nel mezzo lo stemma dei Frati Predicatori, cioè un cane con un torchio acceso in bocca, che si posa sopra d’un libro, un giglio ed una palma intrecciati entro una corona ducale, con sopra una stella. Queste pile furono fatte in Napoli l’anno 1773, essendo Priore il medesimo P. Buchicchio; e costarono ducati 90 [39].
Nell’11 gennaio 1794, si propose dal Padre Priore Fra Vincenzo Ponno, che, pel maggior culto di Dio ed ornamento della Chiesa, si facesse venire da Trieste un Lampadario di cristallo di Boemia, a dodici lumi brillantati [40].
In questa Chiesa da tempo immemorabile trovasi canonicamente eretta la Confraternita del SS. Rosario, che ha un altare di marmo, sacro alla Beatissima Vergine, un oratorio, messo nel Chiostro, ed un sepolcro gentilizio. Spesso litigò coi Padri Predicatori dai quali dipendeva, ed in una conclusione dell’anno 1792 fu proposto dal Vicario Fra Giovanni Caprile come: «stante gli continui e niente indifferenti disturbi tra questo Convento e la Confraternita del SS. Rosario colla determinazione pur anche dell’una e dell’altra parte d’avanzare dei ricorsi alla maestà del nostro Sovrano (D. G.) e quindi intraprendere dispendiosa lite per punti poco interessanti, devasi previo preso consiglio dei savi, venire ad accomodo e stabilirsi questo con pubblico istrumento, sicché sullo stabilimento giuridico la prefata Congregazione non più si potesse spostare dai suoi doveri [41].
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Abbellita la Chiesa, fu necessario far abbellire ancora la sagrestia, che nel 12 luglio 1752 il Priore Fra Lorenzo Germano aveva proposto risarcire e ripulire con intonachi ed ornamenti di quadri, e con alla testa un grande Crocifisso, accanto a cui furono dipinti sul muro l’Addolorata, S. Giovanni, e la Maddalena [42]. Attualmente il Crocifisso sta in Chiesa, a destra di chi entra per la porta maggiore. Ai 9 settembre 1773, volendosi sempre più abbellire questa Sagrestia, dal Padre Priore Fra Ludovico Buchicchio si propose di ornarla di stucchi [43]. Furono affissi sotto la volta quattro dipinti in tela, di figura ovale, i quali rappresentano Gesù orante nel Getsemani, Gesù legato alla colonna, l’Ecce Homo, e Gesù che porta la croce in sulle spalle. Un grande armadio di noce con varii scaffali, ornato nella spalliera da quattordici quadretti, otto di faccia e sei laterali, intarsiati bellamente nel mezzo di fiori e di rabeschi, ornano la Sagrestia. Sulla cornice dell’armadio a destra ed a sinistra vi sono due quadri ovali in tela, con cornici durate; essi rappresentano S. Antonino, Arcivescovo di Firenze, e S. Ludovico Bertrando, entrambi dell’Ordine dei Predicatori.
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In questa sagrestia avvi lo scheletro del piissimo Duca Francesco II Del Balzo, chiuso entro una funebre cassa color verde, coi fregi dorati, In un lato di essa si legge scritto: «Hic jacet corpus serenissimi Ducis Domini Francisci de Baucio fundatoris huius Conventus m. 1482 aet. 72». Sopra della cassa in una nicchia si ammira il mezzo busto di marmo del medesimo Duca, con la seguente epigrafe, fatta incidere sul marmo dai Padri Domenicani, affinché la memoria veneranda del loro massimo benefattore, col correre dei secoli, non venisse meno giammai.
FRANCISCO. EX. AVITO. AC. PRÆCLARO. MAJORUM. SUORUM. GENERE. DE. BAVCIO. IN. INSIGNIS. GENTILITII. SIDERE. INDICATO.
MAGNO. REGNI. NEAPOLITANI. EQUITUM. COMITI. AC. ANDRIENSIUM. DUCI. AMANTISSIMO. ALMO. GUILIELMI. DE. BAUCIO.
ET. ANTONIÆ. BRUNFORTÆ. VIGILIARUM. COMITIS. FILIO. FRANCISCI. VERO. AVI. SUI. EIUSQUE. CONIUGIS. SVEVÆ. URSINÆ.
NEPOTI. DIGNISSIMO. PYRRHI. AUTEM. ALTAMURENSIUM. PRINCIPIS. AC. VENUSINORUM. DUCIS. ENGELBERTI. ETIAM. NOLÆ.
ET. ANTONIÆ. S. SEVERINÆ. COMITUM. PARENTI. OPTIMO.
QUOD. EXUVIARUM. SUORUM. SCELETUM. IN. SUBIECTA. HEIC. ARCA. RECONDITUM. EX. BENEVOLENTIA. SUA.
HUIC. ORDINIS. FF. PRÆDICATORUM. FAMILLÆ. TESTAMENTO. RELIQUERIT. ALIAQUE. BENEFICIA. CONTULERIT.
QUUM. DIEM. EXTREMUM. OBIIT. ANNO. REPARATÆ. SALUTIS. MCCCCLXXXII. ÆTATIS. VERO. SUAE. LXXII.
BENEFICENTISSIMO. JUSTO. AC. PIO. PRINCIPI.
EIUSDEM. CÆNOBI. GRATA. FAMILIA. UNA. CUM. SIMULACRO. SOPRAPOSITO. IN. PERENNE. MONUMENTUM.
JUSTA. PERSOLVENS. HOC. EPITAPHIUM. APPONI. CURAVIT.
arcosolio di Francesco II del Balzo, fotografato da "Ist. Arti Grafiche - Bergamo"
[l'arcosolio di Francesco II del Balzo, fotografato da "Ist. Arti Grafiche - Bergamo", inizio Novecento]
Ai 5 maggio 1773 il P. Priore Buchicchio propose di far lavorare in Napoli per la Sagrestia un lavamano di marmo pel prezzo di duc. 100 [44]. È un lavoro veramente bello, costruito a guisa d’un altarino. Ha la vasca color di piombo, il davanti ed i fianchi di marmo cipollino, fasciati di marmo bianco. La spalliera ha la figura d’un semicerchio compresso, ricinto di cornici ritorte di bianco marmo, e terminante con un cartoccio. Nel mezzo spicca lo stemma Domenicano, fiancheggiato da due canestri di fiori in marmo bianco.
In alto sopra di questo lavamano si vede una antica tela di S. Pietro Martire, che probabilmente doveva stare in Chiesa, quando contava tredici altari. Questo quadro rappresenta il Santo Martire Domenicano, che con la testa spaccata e grondante sangue, e col pallore di morte sul volto, aspetta gittato a terra il colpo del pugnale, che un ferocissimo sicario sta per tirargli sul petto! Dietro del Santo Martire si vede spaventato un frate che da un altro sicario sta pure per essere ucciso, mentre dal cielo, attraverso un raggio di luce scende un angelo con la palma del martirio nella destra. Il fondo del quadro, dipinto con tinte forti e cupe, rende la scena del martirio quant’altra mai spaventosissima. È un lavoro artistico e di grande effetto.
NOTE
[33] Liber Consiliorum ecc., p. 15 a t.
[34] Liber Consiliorum ecc., p. 54.
[35] Liber Consiliorum ecc., p. 76 a t.
[36] Liber Consiliorum ecc., p. 57.
[37] Liber Consiliorum ecc., p. 13.
[38] Liber Consiliorum ecc., p. 56.
[39] Liber Consiliorum ecc., p. 57.
[40] Liber Consiliorum ecc., p. 104 r.
[41] Liber Consiliorum ecc., p. 100.
[42] Liber Consiliorum ecc., p. 15 r.
[43] Liber Consiliorum ecc., p. 77 r.
[44] Liber Consiliorum ecc., p. 57.

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IV. - Arredi Sacri della Chiesa.

I Frati arricchirono splendidamente questa Sagrestia di molti arredi sacri.
Secondo un Inventario, fatto fare dal M. R. P. Priore, Fra Orazio da Taranto, per mano del Notaio Giovanni Girolamo di Galiaccio della città di Andria, nel 1576, la Sagrestia di S. Domenico possedeva i seguenti arredi sacri:
«In primis sei calici, videlicet: quattro tutti d’argento, e dui con li piedi di rame argentati et con le coppe di argento con le loro patene di argento: item uno reliquiario di rama dove è il digito di Santo Pietro martire: item un altro reliquiario dove sta un osso di Santa Catherina: item un altro reliquiario dove sta la spalla di S. Cataldo et detto reliquiario è di rama: item una croce di argento con il piede di rama inaurato, nella quale croce ci sta un pezzo del legno santo: item una croce di argento inaurata con cinque pezzi di cristallo di Rocco con il crocifisso di argento inaurato con il piede di argento inaurato: item una croce grande di argento con il crocifisso dove da una banda sono li segni delli quattro evangelista, da l’altra una Madonna con quattro Sancti del detto Ordine: item uno terribolo seu censero di argento et una navetta similiter di argento: item octo cammise tutte finite di stole, manipole et pianete et quindici altre che non sono finite: item cinque cortine quale sono state delli signori fundatori di detta Ecclesia: item altre robbe di Sacristia quale sono vecchie e consumate e di poco momento, per questo non si notano nel presente inventario» [45].
Il 21 settembre 1756 il Priore Fra Michelangelo Sartorelli proponeva ai Frati di comprare per uso della Sagrestia alcune pianete manuali, una ombrella pel Venerabile, ed un piviale, uniforme all’apparato nobile. Come pure proponeva di cambiare la pisside grande con un’altra più piccola, e più comoda [46]. Nel 1758 la signora Nicola de Mutiis, con suo testamento, rogato per mano del Notar Gian Lorenzo Tupputi, la-sciò al Convento dotati 100 per farsi una pisside d’argento ben lavorata e dorata dentro e fuori. Avanzando moneta se ne dovessero dir messe per l’anima sua, a grana 15 l’una. La pisside venne da Napoli nel gennaio 1759, e costò ducati 52 [47]. Ai 10 luglio 1768 il Priore Fra Ludovico Buchicchio propose ai Padri di farsi una pianeta e due tonacelle di ricco drappo, e due altre pianete con bordo d’oro del costo di duc. 215, non che due camici d’orletto [48].
Nel 1779, il Priore Valentini avendo fatto ricamare in Napoli una ricca banda, decise di vendere la croce vecchia d’argento e farne una nuova più ricca [49]. Nel 1780, dal Priore Fra Domenico Gaudio si propose di comprare una veste di drappo forestiere pel prezzo di duc. 110, per formare un apparato [50]. Nel 9 luglio 1783 il Priore Fra Michele Severini propose la compra d’un piviale buono e di un omerale, simili all’apparato nobile, di cui si faceva uso nelle feste solenni, e specialmente nella Domenica in fra l’Ottava del Corpus Domini per loro solennissima; e se ne dava l’incombenza a Napoli [51].
NOTE
[45] Inventarium omnium bonorum Mobilium ecc
[46] Liber Consiliorum ecc., p. 7.
[47] Teatro ecc., p. 137.
[48] Liber Consiliorum ecc., p. 50.
[49] Liber Consiliorum ecc., p. 66.
[50] Liber Consiliorum ecc., p. 73 r.
[51] Liber Consiliorum ecc., p. 83 r.

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V. - Il Campanile.

La Chiesa e la Sagrestia erano state splendidamente arricchite di tutto l’occorrente; vi mancava solo la corona dell’opera, un gigantesco campanile, che stesse alle pari con quello dei Frati Conventuali di San Francesco. L’antico campanile consisteva in alquanti archi, atti a sostenere le campane; infatti il 7 novembre 1751, il Priore Fra Lorenzo Germano, tra le altre cose proponeva ai Padri di alzare altri archi per le campane [52]. Tredici anni dopo, il campanile era già progettato. Chi ne avesse fatto lo svelto ed aereo disegno, è ignoto. Eccone la decisione: «A 28 agosto 1764 fu proposto consiglio dal molto Reverendo Padre ex Maestro di Studio Fra Giacinto Meladandri, attuale Priore di questo Convento di Andria, come rattrovandosi il Convento senza campanile da più anni, e per ciò impedita una campana di potersi suonare a stesa, e trovandosi il Convento aver denaro bastante a poterlo erigere; si cerca intanto dalle PP. loro se debba farsi, avendosi ottenuto il consenso del Generale di potersi fare detta fabbrica; e fu risposto ut infra. Io P. Fra Vincenzo M.a Mongolia sono in voto affermativo per la fabbrica del campanile. Io Fra Arcangelo M. Lombardi sono in voto affermativo. Io Fra Domenico de Vanna sono in voto affermativo. Ita est Fr. Hyacinthus Meladandri Prior» [53].
Nell’anno 1765 era stato già innalzato l’arco, sul quale poggia la mole del campanile, e dopo quattro anni pare che la torre fosse ornai compiuta, mentre nel Libro delle Conclusioni si legge le seguente:
«Ai 15 marzo 1769 fu proposto consiglio dal P. Fra Ludovico Buchicchio, attuale Priore, ai Padri assunti se si dovesse fare una campana nuova di cantara 12 in circa, secondo i patti stabiliti col mastro campanaro, e che si esprime nell’Istrumento di convenzione; inoltre se si dovesse rompere la campana mezzana, che sta nel campanile, la quale è di mal suono, ed il metallo mettersi alla campana nuova, che dovrà farsi, e fu risposto affermativamente» [54].
Forse fu questa istessa la campana, che nel 1811, per ordine di Re Gioacchino Murat, venne insieme con le altre tolta dal campanile per essere trasportata in Napoli, onde batterne monete e fonderne cannoni. Ma Monsignor D. Salvatore Maria Lombardi, in allora Vescovo di Andria, avendo supplicato il Monarca, perché permettesse che due campane rotte della Cattedrale si cambiassero colla più grande del soppresso Convento dei Domenicani, con la simile degli Agostiniani, e con la corrispondente del Carmine; Sua Maestà annui a tale supplica, e la campana di S. Domenico d’allora in poi, prese il titolo di campana di S. Riccardo [55].
*
*      *
Il muratore che costruì questo campanile, che è tutto di pietra, di stile barocco, e che riuscì quant’altro mai svelto ed elegante, fu mastro Domenico Jeva, fratello di Vito che rizzò quello di S. Francesco [56]. Esso si eleva sublime all’angolo del primo chiostro, sopra un solido arco acuto, per dare libero passaggio ai corridoj del medesimo. Il suo basamento sino al primo piano, è quadrato, gli altri tre piani con la cuspide hanno gli angoli ottusi. Una larga cornice come divide il primo piano dal basamento, così divide gli altri piani fra loro. Il primo piano ad ognuno dei quattro lati ha due stelle di ferro, tinte in nero, e che risaltano bellamente sul colore della pietra. Ogni piano ha quattro grandi elegantissime e sfogatissime finestre, sormontate da cornici arcuate, con graziose balaustre di pietra, quasi tutte dell’istesso disegno, meno quelle del terzo piano la di cui balaustrata corre intorno al cornicione. Otto pilastrini con basi e capitelli corinti e fregi, fiancheggiano a due a due le finestre. La cuspide è quasi ottangolare, ed ha la forma d’una pera. La banderuola, che gira ad ogni spirar di vento, rappresenta un cane di rame, che porta in bocca una torcia accesa, e si posa sopra di una grossa palla, anche di rame, stemma dei Frati Predicatori. In tempi da noi non troppo lontani un uragano ne fece cadere la torcia ed una zampa.
Con quest’ultima torre Andria potè a ragione essere chiamata la città dei campanili.
NOTE
[52] Liber Consiliorum ecc., p. 11.
[53] Liber Consiliorum ecc., p. 44.
[54] Liber Consiliorum ecc., p. 50 r.
[55] Archivio vescovile di Andria.
[56] «Il Capo Mastro del Convento che ha fatto il campanile del medesimo, è espertissimo servendosi di esso l’Ecc.mo Duca, e buona porzione della città … è chiamato mastro Domenico Jeva. A dì 21 aprile 1781». Liber Consiliorum ecc., p. 74.

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VI. - Ultime vicende della Chiesa.

Nel 1809, soppressi i Frati Predicatori, il culto della Chiesa fu mantenuto dal Domenicano P. Palena, il quale da semplice prete continuò fedelmente in compagnia di un laico, un certo Fra Giovanni, a servirla. Sulla imposta della porta maggiore si legge come essa sia stata fatta a divozione di questo Padre. Essendo la Chiesa rimasta senza pisside, nel 1810 il signor Sebastiano Spagnoletti le donò una di argento dorato, la quale esiste ancora. In prosieguo il culto fu mantenuto dalla Congregazione del SS. Rosario, la quale nel 1829 a devozione dei fedeli, essendo Priore Francesco Brudaglio, ne fece ristaurare la campana: «Pietate fidelium restau: Priore Franc. Brudaglio A. S. M.D.C.C.C.XXIX». Ma essendosi posteriormente rotta; la medesima Congrega curò di rifonderla, mettendo questa iscrizione: «Di proprietà della Congrega del SS. Rosario, a cui spese fu rifatta nel 1881, essendo Priore Riccardo De Mucci». Il Parroco D. Nicola Fatone protestò contro questa iscrizione con un verbale del 15 settembre del medesimo anno, redatto dal Notar Cocco, come lesiva dei dritti della Chiesa; mentre in origine detta campana era stata fatta dalla pietà dei fedeli. Il culto di questa Chiesa fu pure mantenuto da varii zelanti Sacerdoti, destinati dai Vescovi come Cappellani, tra i quali è da mettere in primo luogo il Canonico D. Bernardino Frascolla, di poi Teologo della Cattedrale di Andria, indi primo Vescovo di Foggia, ed il Sacerdote D. Michele Leone, ora Arciprete Curato della Cattedrale, il quale lo sostituì e v’impiantò la Confraternita del Cuore di Maria, ascritta a quella di Parigi, e gli dedicò una campana, fatta da varii devoti.
Nel 1857, Monsignor D. Gian Giuseppe Longobardi volle che la Chiesa di S. Domenico fosse una delle sei Chiese Parrocchiali da lui erette in Andria, come si rileva dalla seguente epigrafe incisa in marmo.
D. O. M.
V. IDUS. OCT. AN. MDCCCLVII
JOHANNES. JOSEPHUS. LONGOBARDI
EPISCOPUS. ANDRIENSIS
DIVINO. CULTO. AMPLIFICANDO
ANIMABUS. OMNI. OPE. JUVANDIS
APPRIME. INTENTUS
NE. QUA. PORTIO. CHRISTIANÆ. VINEÆ
SUAM. IN. FIDEM. ADCREDITÆ
INDILIGENTER. COLERETUR
IN. SEX. PAROECIAS. PARTITUS
ET. ADSIGNATO. SINCULIS. SUO. RECTORE
QUI. OPERAS. EVANGELICAS. ACCURARET
PER. CIRCUMPOSITOS. VICOS
INTER. NOVAS. PAROCHORUM. SEDES
HOC. SANCTI. DOMINICI. TEMPLUM
PUBLICA. CÆRIMONIA. AC. POMPA. ADLEGIT.
Primo Vicario Curato ne fu D. Riccardo Avantario, in allora Mansionario della Cattedrale e di poi Canonico, che ristaurò la Chiesa, avendola trovata in cattivo stato. In seguito furono Parroci i Sacerdoti D. Giacinto Matera, ora Canonico della maggior Chiesa, e D. Nicola Fatone, tutti e tre pastori zelantissimi e ben meritevoli d’ogni maggiore encomio. Quest’ultimo nel 1896, dopo di avere per varii anni sostenuta una causa col Municipio, ottenne che il Comune a proprie spese ne ristaurasse la Chiesa, gli cedesse le adiacenze della medesima, e gli fabbricasse la canonica.
Il culto al Santo Rosario di Maria tanto caldeggiato ed efficacemente promosso dal sommo Pontefice Leone XIII, ha fatto sì che questa Chiesa venisse sempre più di giorno in giorno frequentata da gente devota, in tutti i Sabati dell’anno, e massime nei quindici, che precedono l’otto maggio, sacro alla Madonna del Rosario della Valle di Pompei, ed in quelli che precedono la solennità della prima Domenica di ottobre, che ricorda la vittoria riportata dalle armi cristiane sopra quelle dei Turchi a Lepanto.

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VII. - Il Convento.

Contemporaneamente alla Chiesa cominciò nel 1398 ad erigersi il Convento dei Frati Predicatori in Andria dalla pia munificenza della Duchessa, Sveva Orsini, vedova del Duca Francesco I Del Balzo, come rilevasi dalla Bolla di fondazione, emanata dal Sommo Pontefice Bonifacio IX. Quindi a me pare che senza dubbio abbiano errato i Padri Domenicani, quando fondatore di questo Chiostro appellarono Francesco II Del Balzo, scrivendo sulla funebre sua cassa queste parole: Hic jacet corpus Serenissimi Ducis Domini Francisci de Baucio fundatoris huius Conventus m. 1482 aet. 72. Piuttosto bisognava dire che questo piissimo Duca, avendo menata a termine l’opera già incominciata dall’avola sua, Sveva Orsini; avendo di moltissimi beni arricchito il Convento; potevasi a ragione appellarsene secondo fondatore.
Il primo Chiostro, i di cui archi acuti s’impostano sopra bassissime colonnette ottangolari di pietra, con capitelli e basi rozzamente lavorate, rimonta al 1398.
Nell’anno 1459, Re Ferdinando d’Aragona dimorando in Andria presso suo cognato Francesco II Del Balzo, in compagnia del Delegato apostolico, il Cardinale Latino Orsini, Arcivescovo di Trani; i Padri Domenicani si portarono a supplicare umilmente ed eccessissimamente Sua Eminenza, perché si fosse benignato di fare ottenere dal Santo Padre una Chiesetta abbandonata di S. Colomba V. e M. che si ergeva attigua alle mura del Convento, per ampliarlo, perché incapace di contenere un numero considerevole di monaci. Il Cardinale benignamente annuendo alle suppliche dei Padri Predicatori, convalidate da quelle del Duca, loro esimio benefattore, ne incaricò per la esecuzione il P. Baldassarre Del Balzo, Protonotario apostolico, il quale, verificato l’esposto, ottenne dalla Santità di Papa Pio II, che l’antica Chiesetta di S. Colomba fosse incorporata al Convento dei Domenicani. Il decreto in pergamena di questa concessione era sottoscritto dal legato, e datato in Andria dal Palazzo Ducale: Datum Andriæ in domibus nostræ habitationis, die VI Ianuarii, anno Domini MCCCCLIX [57].
NOTE
[57] PASTORE, Memorie della città di Andria, cap. I, § 199, p. 242. Mss. di G. Ceci.

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VIII. - Beni dei Domenicani.

Intanto mentre la Chiesa ed il Convento andavansi murando; si veniva a poco a poco formando la proprietà monastica dei PP. Domenicani in Andria; proprietà che ha avuto per origine l’atto più nobile dell’uomo, cioè il dono spontaneo dell’amore, della riconoscenza e della fede. Non vi mancarono dei benefattori, i quali cristianamente generosi di pii lasciti, frutti del sacrifizio, doni del pentimento e legati del dolore, l’una e l’altro munificamente arricchirono.
Nell’Inventario dei beni di questo Convento, compilato dal Priore, il Padre Maestro Fra Orazio di Taranto, nel 1576; come pure nel Manuale di tutti i censi scritto verso il 1600, non che nel così detto Teatro compilato nel 1703, si trovano segnati i seguenti possedimenti:
uno scorcio attuale (30 luglio 2019) presso il litorale di Torre Pietra - foto professionale di Domenico Zagaria [uno scorcio attuale (30 luglio 2019) presso il litorale di Torre Pietra
- foto professionale di Domenico Zagaria]
1. Tre miglia di mari, denominati di Pietra, posti lungo la via, che da Barletta mena a Manfredonia, dirimpetto alla Torre di Pietra, e confinanti coi mari, chiamati della Mortella, e con quelli detti di Orro, che furono del fu sig. Barnaba di Barnaba della Marra di Barletta. Questi mari vennero generosamente donati al Convento dala bona memoria del Duca Francesco di Baucio, come rilevasi dall’istrumento di donazione, rogato li 30 settembre 1474, dal Notaro Ottaviano di Natale di Andria [58]. Per tale dono altro peso il piissimo Duca non impose ai Frati Domenicani se non quello di pregare! I monaci furono sempre riguardati come i campioni agguerriti della cristianità, nel santo e perpetuo combattimento della preghiera con l’onnipotenza divina [59]. La loro speciale missione, il loro primo dovere è di pregare per se medesimi e per tutti.
Questi mari, nel 1627, li troviamo fittati per un triennio a Ciccio d’Agiuto e Cenzo Pellegrino di Barletta, a ducati 55 l’anno; nel 1630 a Iavoco Calabrese per ducati 60; nel 1666 a Marino di Perna per duc. 30; nel 1784 a Giuseppe dell’Erga, a Vito Nicola Seguenza e Pasquale Attominiello di Barletta per duc. 102, da pagarsi metà nel Carnevale d’ogni anno e metà nell’aprile, con una prestazione di rotola 10 del miglior pesce nella vigilia di Natale. Quale prestazione crebbe sino a rotola 30, cioè 10 alla vigilia del Natale, 10 a Carnevale e 10 alla vigilia di S. Domenico [60].
2. Carra quaranta di territorio nel luogo detto Casa della Corte, o Posta di S. Domenico. Vuolsi che questa donazione sia stata fatta al Convento dall’istesso buon Duca. Ma non si sa poi perché in prosieguo il S. R. Consiglio Collaterale ne abbia confiscati carra venticinque, per cui ogni anno, ai 15 maggio, la Dogana di Foggia pagava al Convento duc. 21 ed un tarì, restandone ai Domenicani carra quattordici e versure quattro. Però l’intiera statonica di carra quaranta appartenne sempre al Convento. Anche per questa donazione il Duca impose ai Frati di S. Domenico che recitassero dodici inni l’anno e pregassero per l’anima sua [61]. Francesco Del Balzo era troppo persuaso della forza, della grandezza e della necessità della preghiera, e s’indirizzava ai monaci, i quali tra i più grandi beneficii, che rendevano alla società cristiana, era quello di pregare, di pregare molto, di pregare sempre per tutti, e massime pei loro benefattori.
3. Nell’anno 1577, ai 15 maggio, il Priore di S. Domenico, Fra Orazio da Taranto, ed i Frati di esso Convento, innanzi al Notaio Giovanni Girolamo de Galiaciis e testimoni, dichiararono di possedere con giusto titolo ed in buona fede quattro vignali di mandorleto, con la Chiesa di S. Matteo ad esso contigua, nel sito omonimo sulla via di Trani, vicino al parco del serenissimo Duca di Andria. Questo giardino, dissero i Frati, che era stato donato alla loro Chiesa dalla santa memoria del Duca Francesco II Del Balzo nell’anno 1463. Fin dal 1588, in un antico Inventario intitolato: Bonorum Conventus, al foglio 60, si trova che il Duca Carafa per i quattro vignali di S. Matteo, venduti a lui, pagava al Convento ducati 12 annui, il quale censo esigevasi dai mulini della città. Per molti anni il Convento fu soddisfatto di detto censo; anzi nel 1710, essendo Balia la signora Duchessa D. Aurelia Imperiale, pagò al monastero i censi ritardati di alcuni anni, e non soddisfatti, e mise il Convento di bel nuovo in corrente. Però sebbene per parecchi anni si fosse continuato a soddisfare detto censo, e poi un’altra volta si fosse ritardato; ciò non ostante, nell’aprile del 1750, fu stipulato un pubblico istrumento dal Notaro Giuseppe Antolino di Andria, col quale la Casa Carrafa s’obbligava di soddisfare il passato, e di mettere nuovamente il Convento in corrente del pagamento del censo annuo di duc. 12 pel parco di S. Matteo e per le messe celebrate, e che tuttavia si celebravano dai Frati Predicatori pei legati fatti dal Duca d’Andria D. Antonio Carafa nel 1644, e dalla Duchessa D.a Emilia Carafa nel 1653.
Senonché mentre il Convento era sicuro di dover esigere questo censo, ecco che i ministri dell’Eccellentissima Casa misero fuori un istrumento del 1582 in pergamena, che dissero aver ritrovato nell’Archivio ducale. Da quello si rilevava che il giardino di S. Matteo era stato dal Convento venduto al Duca franco e libero, e quindi pretendevano non solamente di non più pagare per l’avvenire siffatto censo, ma di voler essere restituita dai Frati l’intera somma introitata sin dal 1582. I Domenicani a tal uopo rovistarono diligentemente il loro archivio, frugarono nelle schede dei Notai di Andria, ma invano! Allora ai 27 ottobre 1750, il Priore Fra Michelangiolo Sartorelli radunò in Capitolo i monaci, e ricordando loro quanto sin qui si è detto, conchiuse: «Ritrovandosi perciò questo nostro povero Convento con una sì gran crisi, e turbatissimo, per ascendere la somma che si pretende di dover restituirsi, a più migliaia di ducati, e la perdita eziandio del capitale delli suddetti duc. 12 annui; perciò si propone alle PP. VV. qui congregate ad sonun Campanulae in consiglio, se conoscono espediente e decoroso di attrovarsi un nostro religioso in Napoli, probo, efficace e prudente, che possa presentare presso l’eccellentissimo signor D. Ettore Carafa, Duca regnante, e signori ministri dell’Alicada dello stato d’Andria, tutti e quanti dimorantino nella detta Napoli, le nostre suppliche, che attesa la loro pietate e saviezza vogliano entrare nella prudentissima considerazione della legittima e forte congruenza che li detti duc. 12 annui, a ragione di annuo censo dal nostro Convento esatti siensi a motivo che il valsente della vendita di esso parco di S. Matteo, trasmutato fussesi in annuo canone, altrimenti se ciò non fosse, l’eccellentissimo signor Duca D. Fabrizio Carafa, compratore del medesimo parco, non avrebbe permesso, adhunc ipso vivente, che si pagassero al nostro Convento li detti annui ducati 12». A tale proposta i Padri risposero tutti affermativamente [62].
Una tale vertenza durò per molti anni: finalmente nel di 8 aprile 1768, il Reverendo Padre Fra Ludovico Buchicchio facea sapere ai Padri capitolarmente radunati: «come per la concordia trattata fra questo Convento e l’eccellentissimo signor Duca d’Andria D. Riccardo Carafa, dell’attrasso che il Convento conseguir doveva per i due legati di messe, ed altresì per l’annuo censo sopra il parco di S. Matteo, nella via dei Cappuccini, che si è dismesso, avendo già il Convento ricevuto il capitale di ducati 120, essendo risultato creditore esso Convento a tutto agosto 1761 in duc. 3321; ed esssendosi in conto di questi ricevuti duc. 302.13.8, cioè ducati 270 in contanti e ducati 32.13.8 in prezzo di tanta lana moscia, e facendosi il rilascio di duc. 1000, restando il Convento a conseguire duc. 2018.86.4 in moneta di rame; devesi devenire alla stipula doll’istrumento, acciò detto signor Duca, serbata la forma dell’assenso apostolico, vallato di Regio Exequatur, soddisfi detto attrasso, maturato a tutt’agosto 1767, nello spazio di anni tre, senza pregiudizio delle annualità che decorreranno dal prossimo settembre 1767 in avvenire in duc. 270 per i due legati di cinque messe perpetue, stabilite dalle pie disposizioni del fu Duca D. Antonio Carafa, e Duchessa D.a Emilia Carafa nei di loro testamenti; quale annualità detto sig. Duca sua Eccellentissima casa dovranno sempre pagare obligando specialmente per la più facile esazione di detti annui ducati 270 gli effetti e frutti, che entreranno in dispensa annualmente, gli erbaggi, che annualmente si venderanno da detta Eccellentissima Casa; onde si cerca dalle PP. VV. se debbe stipularsi scrittura di convenzione» [63]. La risposta fu affermativa.
4. Ad imitazione dei Duchi di Andria, i nobili ed i popolani si mostrarono ancor essi pii munifici verso il Convento del S. Domenico; la signora Vittoria Vitaliani, vedova del fu Silvio di Maranta, suo primo marito, e moglie di D. Pietro Rodriguez, suo secondo marito, donò ai Domenicani la masseria di Montegrosso, di carra 9 e versure quattro, con i seguenti pesi: 1° che il Convento dovea pagare duc. 365 a D. Peppe Pappalettere di Barletta; 2.° ducati 100 a D. Annibale della Forgia; 3.° ducati 100 a D. Pietro Rodriguez; 4.° che il Convento dovea far buono ad essa Silvia duc. 150, di cui gli era debitrice; 5.° che dovea celebrare una messa quotidiana, con lo stipendio di carlini due la messa, per l’anima di essa donatrice, del suo primo e del suo secondo marito; 6.° infine doveva celebrare altre messe ottantotto per Silvio di Maranta. Nel 1661 il Convento permutò detta masseria con carra 8 e versure 8 di Bosco nel territorio detto Palese, di pertinenza del Serenissimo D. Ettore Carafa Duca di Andria. Detta permuta fu fatta in virtù di assenso apostolico, ottenuto li 2 aprile 1661. Dell’istrumento però non si ha memoria [64].
5. Nella città di Bisceglia vignali tredici di vigneti e mandorleti, nella contrada detta Cortenozzele, o Trappeto della Chianca. Detti vignali pervennero al Convento, dopo una lite di anni sedici, e furono assegnati dalla Reverenda Fabbrica di Napoli per gli annui duc. 17, pel capitale di duc. 200 che gli doveva Marino Giacomo Tafuri di Bisceglia a cui D. Vincenzo Tesoriero, tutore di D. Filippo Tesoriero, li vendé per duc. 6281½ come appare da istrumento, rogato da Notar Francesco Giacomo Petusi, ai 21 febbraio 1636, restando in mano di detto Tafuri duc. 200, per li quali pagava a detto Tesoriero annui duc. 17. Ora D. Filippo Tesoriero, avendo il 17 aprile 1644 fatto testamento per mano di Notar Giovanni Carlo Palombella, legò al Convento li detti duc. 200 con gli annui duc. 17, che dovea conseguire da detto Tafuri, col peso di tante annue messe nella Cappella del SS. Rosario, secondo il Sinodo d’Andria, il quale tassava grana 15 la messa. Ai 3 di febbraio 1645, con istrumento del Notar Francesco Giacomo Petusi, gli eredi di Tafuri cedettero al Convento i detti annui duc. 17. Intanto un certo Martino Cordani di Trani, essendosi accasato in Bisceglia; per impiegare una parte della sua dote, comprò dal suddetto Tafuri i vignali 13 franchi e liberi da ogni peso. Di poi il Cordani, monacando una sua figlia nel Chiostro di S. Giovanni Lionelli di Trani, ed abbisognandogli duc. 250, li prese da questo monistero, assegnandogli in pegno i tredici vignali, come appare da istrumento fatto dal Notar Nicolantonio Mastronicola di Trani ai 7 luglio 1679, e per più anni il monistero ne fu in possesso pacifico.
Ma i Domenicani di Andria, dopo di avere per più anni litigato in Napoli contro le monache di S. Giovanni di Trani, ricuperarono i loro 13 vignali in Bisceglia, dando in transazione alla Rev. Fabbrica di Napoli duc. 50, per le messe non celebrate in suffragio dell’anima del riferito Tesoriero, ed impiegando duc. 200 per il fondo di dette annue messe da celebrarsi in avvenire [65]. In prosieguo i suddetti vignali, con istrumento del 16 febbraio 1740, rogato da Notar Giovanni Battista Augusti di Bisceglia, furono permutati con altri vignali 14 ed ordini 26 di oliveto dei signor D. Giuseppe Bufis, nel luogo detto Pentapolomma [66]. In marzo poi 1804, furono censiti per annui duc. 75 ad Antonio Soldani dell’istessa città. Se non che dopo parecchi giorni questo annuo canone venne ricomprato per ducati 1500, «avendone bisogno il Convento per le sue urgenze, causate dall’inceppamento del commercio e dal non ordinario peso degli alloggi» [67].
6. Una versura nella contrada detta di Santa Lucia, pervenutagli pel canone enfiteutico di carlini 16, che Ottavio Micale pagava al Convento di S. Domenico [68]. In origine erano due vignali, meno ordini 10, lasciati al monastero dal fu Vincenzo Vangella.
7. Vignali 8 in Sant’Angelo a Carbonara[69].
8. Vignali 20 alle Tufarelle, i quali con istrumento del 26 ottobre 1739, rogato dal Notar Vitantonio Menduni, furono venduti alle monache di S. Chiara di Trani per duc. 203, ed impiegati nella compra di vignali 2 ed ordini 26 di mandorleto [70].
9. Palmenti cinque di pietra nel luogo detto Sopra il trappeto del Carmine. Questo fondo pervenne al Convento dal lascito del fu Riccardo Tupputi, il quale con atto stipulato dal Notar Alfonso Gurgo nel 1641, convenne col Convento di dare detti 5 palmenti con terra vacua dietro di quelli, nonché annui carlini 20 per risarcimento dei tini; con peso al Convento che gli rilasciasse annui ducati 7, che gli dovea per il fu Vito Mezzafalce, e di celebrare in perpetuo all’altare di S. Domenico tre messe la settimana.
Ai 15 maggio 1804 questi palmenti, con istrumento di Notar Leonardo Frisardi, furono venduti per duc. 520 a Saverio Calvano del fu Matteo, col patto di affrancarli, e frattanto avrebbe pagato il censo annuo di duc. 26, a condizione che il Convento doveva, mundo durante, gratuitamente premere l’uva delle 10 vigne, che teneva nel chiuso del Salvatore [71].
10. Vigne 3 in circa nel luogo detto Pistazzo sopra il Pennino, che mena al monistero di S. Maria dei Miracoli, dietro la Neviera del Duca. In prosieguo queste vigne furono permutate con una casa, attigua al Convento [72].
11. Vigne 3 al chiuso del Salvatore, delle quali una fu lasciata al Convento da Margarita Stasiello, l’anno della peste 1657, e le altre due da un certo Fra Riccardo, terziario Domenicano [73].
12. Vignale 1, ordini 25 e viti 12 nel chiuso di Olivarotonda, assegnati al Convento da mastro Nicolò Marango ed Antonia di Bitetto, coniugi, in estinzione del capitale di duc. 25 all' 8% sopra i loro beni immobili. Questo capitale era pervenuto ai Domenicani dallo spoglio del Padre Fra Giuseppe de Pannis, come da istrumento censuale di Notar Vito Menduni, sotto il dì 11 luglio 1736 [74].
13. Ordini 9 nel chiuso di San Marco, con undici alberi di mandorli, pervenuti al Convento per ordine della ducal Corte di Andria, al prezzo di carlini 73.50, per i due capitali di Francesco Fasulo, uno di carlini 10 e l’altro di carlini 15, con le terze decorse e con le spese fatte in Corte. Questo fondo fu venduto al signor Nicola Ceci, come da istrumento di Notar Leonardo Frisardi del 2 giugno 1796 [75].
14. Vigne 7 ed ordini 2 di viti nel chiuso di Santa Croce. Pervennero al Convento da una compra fatta da mastro Tonno di Riso a duc. 66 la vigna. Dapprima i Padri comprarono vigne 6, come rilevasi da istrumento rogato da Notar Gian Nicola de Patronis, in ottobre 1690, e poi l’altra vigna, come da istrumento dal medesimo Notaio rogato il 6 novembre 1699 [76].
15. Vigne 4 meno un quarto di viti, nel chiuso detto della Grava, pervenute al Convento per l’annuo censo di carlini 30, che Giovanni di Mele pagava sopra il capitale di ducati 30, lasciato dal chierico Toma di Mastro Antonio, col peso di tante annue messe, secondo il Sinodo di Andria, come da istrumento di Notar Alfonso Gurgo rogato l’11 gennaio 1629. E poiché il suddetto censo per più anni non fu pagato, il Convento s’impadronì delle vigne, come si rileva dall’istrumento di Notar Angelo Vitania delli 11 gennaio 1637 [77].
16. Carra 4 nella contrada denominata Sporlincano confinante con Tardasce e Bosco di Spirito. Questo territorio fu lasciato al Convento di S. Domenico dalla magnifica Lucia Griffi di Ruvo, moglie del signor Gian Lorenzo Guadagno, suo secondo marito, in virtù di testamento rogato il 12 aprile 1702 dal Notaro Donato Menduti, con il seguente peso, cioè che dopo la morte del suo erede Gian Lorenzo Guadagno, dall’usufrutto di queste 4 carra dovevano in ogni anno i Padri Domenicani celebrare un numero di messe a carlini 5 la messa, cioè una nel lunedì all’altare di S. Tomaso d’Aquino, ed il resto all’altare della Vergine del Santo Rosario, per l’anima sua, del suo erede e dei suoi morti [78].
17. Un parco murato, posto sulla via della SS. Annunziata, con torre, peschiera, grotta ed altro, donati al Convento dalla magnifica Beatrice Mele con istrumento del 5 luglio 1703, rogato dal Notar Girolamo de Micco. La donazione fu fatta con i seguenti obblighi, cioè che vita durante di essa testatrice e di Suor Anna Mele, monaca nel ven. monistero di S. Lucia in Barletta, i Padri Domenicani fossero tenuti a pagare alla medesima duc. 10 annui, e celebrare un anniversario; darle inoltre ogni anno, vita sua durante, due carra di legna, a dopo la sua morte, spendere in una sola volta duc. 200 per celebrazione di un numero di messe a carlini 5 la messa, per l’anima d’essa Beatrice è dei suoi defunti [79].
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Oltre di questi territori il Convento di S. Domenico di Andria possedeva pure le seguenti case:
18. Una casa nuova al Pennino, contigua al Coro del Convento. Questa casa fu donata ai Frati Predicatori da un certo Fazio di Triminenna nel 1561, col peso d’una messa la settimana ed un anniversario l’anno. Il medesimo donò loro un pezzo di terra con più grotte e due pozzi, nella contrada detta il Borghello. Il 2 giugno 1796 questa casa fu venduta dai monaci al signor Nicola Ceci, come da istrumento rogato dal Notar Leonardo Frisardi [80].
19. Quattro botteghe, l’una all’altra vicina, nel largo detto la Piazzolla, accanto al portone del Convento, per dove entravano i cavalli. Le prime di queste botteghe pervennero ai Frati di S. Domenico da una compra fatta da Angelo Mandrollino nel 1401, come da istrumento in pergamena conservato una volta nell’archivio dei Padri, e fatto per mano del Notar Gianotto. La terza bottega fu loro lasciata da Pietro Lombardo, oblato domenicano, con alcune vigne a Casa d’Angelo, col peso dell’alimento, vita sua durante, e di due anniversarii dopo morto, cioè uno per sé e l’altro per sua moglie Giovanna Navarra. La quarta bottega pare esser doveva quella, che il Convento aveva concessa in enfiteusi ad un certo Giuseppe de Robertis, vita sua durante, pagando a tal fine 20 carlini annui [81].
20. Una Cantina, o Bottega nella medesima Piazzolla, pervenuta al Convento per l’annuo censo di duc. 5, 2 tari e grana 18, che Gian Leonardo Fortunato gli doveva; e non avendo pagato, il Monistero, dietro sentenza della Corte Ducale, s’impossessò della cantina e di 2 vigne alle Coppe. La cantina di poi fu venduta a Camillo Cannone per ducati 90, come da istrumento di Notar Leonardo Frisardi del di 15 marzo 1795 [82].
21. Una Casa e due Botteghe alla Piazza grande di S. Agostino, pervenute ai Frati Domenicani per l’annuo censo di duc. 12, che Riccardo Tupputi pagava per D. Giuseppe Topazio Tupputi, e rinunziato al Convento dal medesimo Riccardo, come appare dall’istrumento del Notar Girolamo de Micco, dei 22 ottobre 1692. La casa fu data a censo redimibile al Rev.do D. Michele Barletta, ed ai magnifici Giambattista ed Ignazio d’Addati per duc. 850, al 5%, come da istrumento di Notar Leonardo Frisardi, dell’11 marzo 1795 [83].
22. Una Casa, dietro S. Nicola, la quale pervenne al Convento per gli annui carlini 12, e per il capitale di duc. 12, che un certo Angelo Sanzone gli pagava [84].
23. Una Casa alla prima Ruga lunga, detta dei Carbutti, poscia di Cristiani. Fu comprata dal P. Lettore Domenicano, Fra Domenico Friuli di Andria, per duc. 204, 39, come da istrumento di Notar Vito Menduni, del 13 aprile 1727 [85].
24. Una Casa alla seconda Ruga lunga, detta della Sala, pervenuta al Convento per gli annui carlini 15 del capitale di duc. 15, che ad esso pagavano i coniugi Erasmo di Cola e Laura Mosca, come da istrumento rogato da Notar Francesco Antonio Colavecchia, il 29 gennaio 1657 [86].
25. Un’altra Casa, messa nella medesima seconda Ruga lunga, pervenuta al Convento da Medea Menzala, nel 1617 [87].
26. Una Casa alla terza Ruga lunga, detta delli Rubertis, pervenuta al Convento dal lascito di mastro Carlo di Brindisi, fatto nel 1657 per mano del suo confessore D. Antonio Cantore, col peso di due messe cantate l’anno [88].
27. Sei Case alla Porta di S. Andrea, la prima pervenuta al Convento da una compra fatta dal Rev.do D. Francesco Petusi y Zara, li 22 aprile 1655, e le altre cinque fabbricate col denaro del capitale pervenuto al monistero dalla vendita della masseria delle pecore, che fu comprata da D. Cesare Bonelli di Barletta, al prezzo di duc. 1090. 50, nell’anno 1752 [89].
28. Finalmente una Casa al Montarone, attaccata al Convento. Essa apparteneva a Francesco Ieva, che la commutò con una casa alla terza Ruga lunga, con due vigne ed ordini 18 al Pennino, e con 4 vigne alla Grava, come da istrumento di Notar Vito Menduni, il 14 gennaio 1725 [90].
NOTE
[58] Inventarium omnium bonorum ecc. Inventario, overo Manuale ecc., p. 29. Teatro ecc., p. 112.
[59] CONTE DL MONTALEMBERT, I Monaci d’Occidente, vol. I, cap. IV, p. 53.
[60] Liber Consiliorum ecc., p. 86.
[61] Teatro ecc., p. 121.
[62] Liber Consiliorum ecc., pp. 7, 8.
[63] Liber Consiliorum ecc., p. 49.
[64] Teatro ecc., p. 124.
[65] Teatro ecc., p. 122.
[66] Teatro ecc., p. 123.
[67] Teatro ecc., p. 123.
[68] Teatro ecc., p. 127.
[69] Teatro ecc., p. 128.
[70] Teatro ecc., p. 129.
[71] Teatro ecc., p. 37, 130.
[72] Teatro ecc., p. 131.
[73] Teatro ecc., p. 132.
[74] Teatro ecc., p. 132 t, 29 t.
[75] Teatro ecc., p. 132 t, 138.
[76] Teatro ecc., p. 133.
[77] Teatro ecc., p. 135.
[78] Teatro ecc., p. 135 t.
[79] Teatro ecc., p. 136.
[80] Teatro ecc., p. 113.
[81] Teatro ecc., p. 114.
[82] Teatro ecc., p. 115.
[83] Teatro ecc., p. 116.
[84] Teatro ecc., p. 117.
[85] Teatro ecc., p. 117 t.
[86] Teatro ecc., p. 118.
[87] Teatro ecc., p. 119.
[88] Teatro ecc., p. 120.
[89] Teatro ecc., p. 137 t.
[90] Teatro ecc., p. 138.

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IX. - Censi e Canoni.

Oltre di questi possessi, il Convento di S. Domenico aveva un gran numero di censi enfiteutici, distribuiti per tutti i mesi dell’anno. Aveva entrate ordinarie e straordinarie; così in un indice del 1613 si legge che le annue entrate ordinarie di questo Convento erano di duc. 426, e le straordinarie di duc. 28. Dai suoi terraggi riceveva 105 tomola di grano. Ogni anno spendeva su per giù duc. 670, ed alimentava 22 Frati. Nel 1640 i censi ammontavano a duc. 446, ed in prosieguo crebbero, come aumentarono i pii lasciti, che i nostri buoni antenati legavano ai monaci, perché questi pregassero per l’anima loro. Il Convento possedeva pure gran numero di vacche, di pecore e di puledri, nella masseria detta Casa della Corte o Posta di S. Domenico. Nel-l’aprile del 1780 i Frati comprarono dalla Casa Carafa 100 agnelli per nobilitarne la razza [91].
Inoltre in ogni mese di gennaio il Convento, per concessione dei Re di Napoli, e specie di Carlo V, riceveva dagli arrendatori delle Regie Saline di Barletta tomola 6 di sale [92].
In ogni anno poteva il Convento estrarre dai porti di Barletta e di Trani, o da qualunque altro porto o spiaggia di Puglia o Capitanata, carra 15 di frumento, franchi di ogni gabella, e l’emolumento che da questa estrazione si ricavava, andava in suo beneficio, per concessione di Re Ferrante I, di Re Alfonso II, di Re Federico, del Gran Capitano, del Re Cattolico e di Re Carlo V [93].
Nel repertorio dei registri Partium della Cancelleria aragonese, e precisamente nel Registro 6, 1471, f. 171, ora perduto, si trova che ai monasteri di S. Domenico di Barletta e di S. Domenico di Andria, si concedeva di poter estrarre ogni anno carra 28 e tomola 20 di grano.
NOTE
[91] Liber Consiliorum ecc., pag. 5 t.
[92] Teatro ecc., p. 110.
[93] Teatro ecc., p. 111.

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X. - Il nuovo Chiostro.

Dei frutti di queste rendite annuali i Figli di S. Domenico si servivano non per il ben vivere, ma per il viver bene e per il lustro ed il maggior decoro della Casa di Dio; laonde non senza ragione si disse che la culla ridente delle arti belle furono i Chiostri. Essi si servirono dei loro beni anche pel giornaliero sostentamento pei poveri, pei quali tra pane e danaro spendevano circa ducati 40 nel mese [94]. La virtù della carità in modo speciale distinse sempre i Frati, ai quali non è bastato di sollevare la povertà; ma l’ànno anzi onorata, consacrata, adottata, sposata, e per cui S. Bernardo diceva:
«L’ amicizia dei poveri ci dà l’amicizia dei re;
ma l’amore della povertà fa di noi tanti re
» [95].
Col correre dei secoli l’antico Chiostro dei Domenicani di Andria era addivenuto troppo angusto pel cresciuto numero dei Padri, e probabilmente verso la seconda metà del mille e seicento fu notabilmente ampliato, per cui fu chiamato il Chiostro grande. Questo Chiostro fu costruito nell’orto, che il Convento aveva nel luogo volgarmente chiamato il Montarone, vicino all’orto di Giuseppe del Giudice [96]. Era formato di Pilastri di pietra, con basi e cornici. sopra dei quali s’impostavano archi tondi, simili a quelli de’ Chiostri di S. Francesco, di S. Maria dei Miracoli e del Carmine.
È memorabile questo Chiostro per varie assemblee generali in esso tenute dagli Andriesi, nel secolo passato.
Ai 28 maggio 1799, in esecuzione dei replicati ordini dell’avvocato della Regia Camera, D. Nicola Vivenzio, diretti al signor don Filippo D’Urso, avvocato Fiscale della S. R. Udienza di Trani, con l’intervento di costui, e precedenti i bandi, ed i soliti tocchi di campana, dalle ore nove in avanti, si convocava pubblico e generale Parlamento in questo Chiostro grande di S. Domenico. V’intervenivano 681 capi di famiglia, e la prima volta, dopo tre secoli, gli Andriesi, avendo strappato di mano ai suoi Duchi il potere di subelezione, per cui essi sceglievano il Sindaco e tutti i pubblici ufficiali su terne composte sotto la loro stessa inspirazione, eleggevano i loro magistrati civici; ed il primo Sindaco nobile, eletto a popolo, con 677 voti, fu il magnifico D. Ferdinando Spagnoletti, fratello di Emanuele, che unitamente al Clero fu capo dell’associazione dei zelanti cittadini, che vigorosamente combattettero la trapotenza del Duca [97].
Nel medesimo Chiostro, e pel medesimo scopo, il dì 29 giugno 1800 si radunò un’altra volta la più parte dei capi di famiglia, e con 163 voti nominò Sindaco D. Francesco Barletta [98].
Ai 3 luglio, 1803, novellamente in questo istesso Chiostro si tenne generale parlamento, e con l’intervento ed assistenza del Governatore e Giudice di Andria, Giacomo Guarini, nonchè di 80 capi di famiglia, fu eletto Sindaco il magnifico D. Giuseppe Conti del fu Antonio [99].
NOTE
[94] Liber Consiliorum ecc., pag. 74 t.
[95] Amicitia pauperum regum amicos constituit: amor paupertatis reges. Ep. CIII.
[96] «Joseph de lo Judice... confessus fuit se teneri eidem Ecclesiae (S. Dom.) in annuo at perpetuo censu.... super quodam eius horto sito et posito intus civitatem Andriæ in loco vulgariter dicto lo Montarone..., juxta hortum prædictæ Eccl. S. Dom.» Inventarium ecc.
[97] I.° Libro in cui si notano tutti li Parlamenti, e conclusioni, che si fanno dalla magnifica Università di questa Città di Andria, dal 28 maggio 1797 al 7 febraio 1807, pag. 1. (Archivio Comunale). — R. O. SPAGNOLETTI, Gli Andriesi illustri, pag. 73-74.
[98] I.° Libro in cui si notano, ecc., pag. 101.
[99] I.° Libro in cui si notano, ecc., pag. 184.

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XI. - Riforma dei Domenicani.

Dopo la morte di S. Domenico, i Frati del suo Ordine, nel 1222, radunarono in Parigi un Capitolo generale e gli dettero un successore nella persona del B. Giordano di Sassonia. Questi rigorosamente proibì a tutti i Religiosi di mangiar carne, o altra cosa cotta nel brodo, fossero anche malati, senza espressa licenza dei Superiori. In prosieguo questo estremo rigore venne moderato nel Capitolo, tenuto altresì in Parigi nel 1236. Senonché l’Ordine dei Frati Predicatori, come la maggior parte degli altri Ordini religiosi, essendo andato col tempo soggetto al rilassamento; varii Generali di tratto in tratto si travagliarono efficacemente a riformarlo. E come altri altrove, così nel Regno di Napoli verso la fine del 1500, il P. Paulino Bernardini Lucchese cominciò una Riforma, che intitolò Congregazione dell’Abruzzo di S. Caterina da Siena. Morto questo servo di Dio nel 1585, il P. Niccolò Masio di Perugia, che grandemente lo aveva aiutato in tale riforma, molto si affaticò in dilatarla ed in mantenerla nella Regolare Osservanza. Questa riforma consiste principalmente nell’astinenza dalle carni; senza però rinunziare alle rendite e alle possessioni. Le Congregazioni di stretta osservanza si studiano di far rivivere lo spirito di S. Domenico. Il loro silenzio è quasi perpetuo; continuo il raccoglimento; ogni giorno hanno due ore di orazione; si mantengono sempre alla presenza di Dio e passano lunga parte della notte salmeggiando in coro [100].
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Da una Circolare del P. Gregorio Areilza, Visitatore, Commissario e Vicario Generale della Provincia di S. Tomaso in Puglia, datata da Lecce, l’8 giugno 1652, si rileva che il Convento di S. Domenico in Andria era uno dei Conventi di esatta osservanza: Conventus exactæ observantiæ. Il testo italianamente tradotto, dice così:
«Per i Conventi dell’esatta osservanza.
1.° Con speciale autorità a noi concessa dal Rev.mo Maestro Generale, concorrenti ancora il consiglio e l’assenso dei Padri di questa Provincia, deputiamo ed erigiamo i seguenti Conventi, cioè di S. Domenico di Monopoli, della SS. Annunziata di Lecce, di S. Croce di Trani, di S. Domenico di Andria, di S. Domenico di Foggia, di S. Maria Lauretana di Ferrandina, e di S. Pietro Imperiale di Taranto, in Conventi di esatta osservanza, nei quali la Regola, e le nostre Costituzioni da tutti quelli, che ivi dimorano, debbano esattamente osservarsi, né con alcuno ivi dimorante si potrà dispensare nelle carni, o in altre cose contrarie alla Regolare Osservanza, in qualunque modo, o per qualunque pretesto, o colore, eccetto per l’attuale infermità, giusto il prescritto delle nostre Costituzioni (Diss. II, Cap. I), ed inoltre si osservino le particolari Ordinazioni da noi fatte nella Visita per ciascuno di essi.
2.° Poiché il nostro Convento di S. Domenico di Monopoli fu destinato per ricevere alla vestizione dell’abito e per la educazione dei semplici novizj; ordiniamo che prima di riceverli all’abito, stieno per dieci giorni vestiti da secolari nel suddetto Convento, attendendo agli esercizj spirituali, e disponendosi alla Confessione generale dei proprii peccati, in ossequio a Dio, e per l’ingresso nella Religione. … Emessa poi la professione, comandiamo che non possono assegnarsi se non in uno di questi cinque Conventi, cioè di S. Croce di Trani, di S. Domenico di Andria, di S. Domenico di Foggia, di S. Maria Lauretana di Ferrandina e di S. Pietro Imperiale di Taranto, dai quali non possono essere rimossi prima di quattro anni: nel primo attenderanno alle umane lettere, e negli altri tre anni seguenti, alla filosofia; compito poi il corso della filosofia, se sarà necessario assegnarli ad altri Conventi, comandiamo che siano assegnati nei Conventi qui notati per lo studio della S. Teologia, e non in altri, nei quali restino fino al Sacerdozio, rinchiusi nel noviziato sotto la cura del maestro» [101].
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La medesima Circolare destina il Convento di S. Domenico di Andria a ricevere i Conversi. Essa dice così:
«Per i Conversi:
1.0 Per la buona educazione dei Frati Conversi, ordiniamo che non appena si avrà avuto il permesso di riceverli, non siano ricevuti neppure all’abito di Terziario, se non nei Conventi di S. Domenico di Monopoli, della SS. Annunziata di Lecce, di S. Croce di Trani, di S. Pietro Imperiale di Taranto, di S. Domenico di Andria, e di S. Domenico di Foggia, nei quali si mantiene in vigore la regolare osservanza, né da questi si possano amuovere prima del triennio.
2.° Ordiniamo che nei predetti Conventi ed in ciascuno di essi sia destinato per Maestro uno dei Padri pin prudenti, il quale corregga i loro difetti» [102].
Per ciò che riguarda i Novizj, un’altra ordinazione, fatta dal medesimo P. Gregorio Areilza, nel 1661 stabilisce che il Convento di S. Domenico di Andria non possa ricevere i Novizj dell’Ordine, non essendo annoverato fra quelli, che soli potevano riceverli, e che erano gli stessi Conventi sopra citati, ed assegnati per la stretta osservanza. Perché mai al solo Convento di S. Domenico di Andria, che pure era di stretta osservanza, sia stato proibito di accettare Novizj, non ne dà ragione alcuna il sopradetto Ordine [103].
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I Padri di questo Convento di Andria di stretta osservanza pare che lavorassero assai più di quelli degli altri Monasteri. Infatti il P. Priore Fra Domenico Gaudio, il 10 maggio 1782, nel proporre che si accrescesse il vestiario ai Frati, invocava esempio degli altri Conventi, e diceva: «Non ostante che negli altri Conventi, non vi sono le fatighe, osservanza, assistenza ai moribondi, ed aggiunte che si praticano in questo Convento, motivo per cui li Religiosi ripugnano di esservi assegnati, e di mal genio vi dimorano» [104].
I Domenicani di Andria infatti tra gli altri pesi avevano pure quello dell’assistenza ai moribondi; lo si rileva dalla seguente proposta fatta il 1.0 settembre 1781 dal sullodato Priore:
«Essendo obbligato il Convento di mandare i Religiosi ad assistere al ben morire, anco in tempo di notte, a quelle persone, che vogliono seppellirsi in nostra Chiesa; e perché di sommo incomodo ai Religiosi tale assistenza in tempo di notte; si cerca perciò se sia convenevole destinare per tal assistenza di notte un Sacerdote secolare e propriamente il Sacerdote D. Nicola Morselli; ed al medesimo per tale incomodo corrispondersi colla regalia di ducati sette in ogni anno, o che vi siano assai o pochi, o neppur uno che nell’anno avesse bisogno di assistenza notturna, dovendosi e dal Convento e dal referito Sacerdote stare al bene ed al male» [105].
La risposta dei Padri non poteva non essere affermativa.
NOTE
[100] HELYOT e BULLOT, Storia degli Ordini monastici, Tomo III, P. III, Cap. XXVI.
[103] Cod. XIII, 20. Ordinationes, ecc. Queste ordinazioni furono stampate: Barii apud Zannettum, 1661. (Arch. Generale dei PP. Domenicani in Roma).
[104] Liber Consiliorum ecc., pag. 74 t.
[105] Liber Consiliorum ecc., pag. 76 t.

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XII. - S. Domenico. Studio generale della Provincia di Puglia.

I figli di colui che fu di cherubica luce uno splendore, come altrove, così in questo Convento di Andria, furono premurosi di stabilire uno studio tale, che splendidamente gareggiasse con quelli degli altri Ordini Religiosi, già stabiliti in Andria, cioè dei Minori Conventuali, degli Osservanti, degli Agostiniani, dei Cassinesi, dei Cappuccini, e dei Carmelitani, i quali tutti per giro erano soliti nei loro Chiostri tenere pubbliche dispute scientifiche e letterarie, con l’intervento del clero regolare e secolare, non che del fiore delle intelligenze del laicato. Ed infatti i Domenicani in Andria fondarono lo studio generale per tutta la Provincia di Puglia detta di S. Tommaso: Provincia S. Thomæ Apuliæ, la quale comprendeva assai più che la Puglia odierna. Questa Provincia dell’Ordine fu costituita nel 1530, quando venne riconosciuta anche la Provincia di Calabria: Provincia Calabriæ, separatesi entrambe dalla Provincia del Regno di Napoli; Provincia Regni, alla quale prima erano unite [106].
Infatti da una Lettera circolare del P. Agostino Galamini, uomo di grande virtù, Generale dell’Ordine, e poi Cardinale, datata da Messina il dì 8 aprile 1609, e diretta alla Provincia, di S. Tomaso della Puglia, dopo di averla personalmente visitata, si rileva fra le altre core, che il Collegio degli studj della Provincia era in Andria, leggendosi queste parole;
«Ordiniamo che per l’avvenire niuno possa esercitare ufficio di Mastro di studio in Andria, se prima, finito il torso di filosofia, non avrà letto almeno per tre anni Teologia, ne alcuno possa conseguire il grado del Baccellierato, se prima nel detto studio non avrà esercitato ufficio di mastro di studio; né meno conseguir il grado del magisterio, se prima nel predetto Convento non avrà letto, come Baccelliere ordinario pro grado et forma. E nella petizione che la Provincia farà dei Graduati al Capitolo Generale o a Noi, debba fare particolar menzione di questo nostro ordine; e che quei che sono richiesti per essere graduati l’abbiano eseguito, e contraffacendoli, dichiarino nulli i gradi ottenuti dal Capitolo Generale o da Noi» [107].
Nel Chiostro di S. Domenico in Andria fiorirono infatti bellamente gli studj di scienze e di lettere, e di qui uscirono non pochi Padri, decorati di Laurea, ed insigniti del titolo di Lettori e di Maestri. In questo studio, a tacere di altri, troviamo che abbia appreso Teologia, il famoso Fra Antonio Spennato d’Altamura, e di qui sia passato allo studio di Padova, ove fu fatto Baccelliere, ed ove per più anni insegnò, morendo nel 1577, e lasciando inedite, per la sua acerba morte, molte opere di metafisica e di Teologia [108].
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Da un’altra circolare del P. Gregorio Areilza, Visitatore, Commissario e Vicario, Generale della Provincia di S. Tomaso di Puglia, datata in Lecce l’8 giugno 1652, si rileva che il Collegio degli studj era stato da Andria trasferito in Lecce. Ecco il testo relativo, italianamente tradotto dal latino: «Dichiariamo che, per incremento e lustro degli studj, lo Studio Generale di questa provincia sia stato, per comando del Rev.mo Nostro Padre, trasferito dal Convento di S. Domenico di Andria, al Convento di S. Giovanni di Aymo della citta di Lecce, con le seguenti sue lettere, che furono pubblicate nel Capitolo Provinciale, il giorno 15 aprile 1652, cioè:
«Noi Fra Giovanni Battista de Marinis, ecc. Essendo nostro ufficio promuovere, per quanto possiamo nel Signore, gli studj nell’Ordine nostro, per giuste cause che muovono animo nostro, in vigore delle presenti, e con l’autorità del nostro Ufficio, sopprimiamo e dichiariamo soppresso lo Studio Generale della Nostra Provincia di S. Tomaso, nel Convento di S. Domenico di Andria, e questo per intiero trasferiamo nel nostro Convento di S. Giovanni di Lecce, il quale dichiariamo deputato ed eretto in Studio Generale della predetta Provincia di S. Tomaso; assegnando in esso i molto Reverendi Padri moderati, cioè il Regente, il Baccelliere ordinario, ed il Maestro degli studenti: non che ancora tutti gli studenti formali, già esaminati ed approvati in detto Studio Generale con tutti i privilegi, esenzioni statuti ed ordinazioni, le quali erano in uso nel sullodato Convento di S. Domenico di Andria; non ostante gli ordini in contrario dei Capitoli Generali, o dei nostri predecessori, ai quali in questa parte, con l’autorità del nostro ufficio, deroghiamo. La esecuzione delle quali cose commettiamo a te M. R. P. Maestro Fra Gregorio Areilza Provinciale di Terra Santa, Visitatore, Commissario, e Vicario Generale della predetta Provincia» [109].
Con tale decreto lo Studio Generale della Provincia di S. Tomaso di Puglia dal Convento di S. Domenico di Andria passò in quello di Lecce.
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Negli atti del Capitolo Provinciale, tenuto nel Convento di S. Croce in Trani il 13 aprile 1670, tra le petizioni da farsi al Capitolo Generale in nome della Provincia di S. Tomaso di Puglia: Petitiones faciendæ Capitolo Generali nomine Prorinciæ, vi fu la seguente: «Domandiamo che sia trasferito il Collegio dei Predicatori, e sia diviso per tre Conventi, cioè per il Tarentino, l’Andriese ed il Bitontino, nei quali vi sieno due Lettori, il secondo che spieghi Rettorica e Sacra Teologia, ed il primo che insegni le quistioni Teologiche» [110].
Se questa petizione sia stata portata al Capitolo Generale, e se sia stata esaudita, non consta; è certo però che in prosieguo troviamo nel Convento di Andria la scuola di Teologia. Infatti circa l’anno 1752 lo studente di S. Teologia, Fra Giacinto Viola, sosteneva una pubblica disputa nella Chiesa di S. Domenico, sotto il presidio e la tutela del molto Rev.do Padre Fra Raimondo del Monaco, Lettore Primario di Sacra Teologia. Le tesi furono le seguenti:
1. Le anime dei Santi, alle quali non resta niente da penare e da espiare, appena sciolte dai corpi, e prima del supremo giudizio universale, ricevono subito e godono la intuitiva visione di Dio.
2. L’indicibile e lagrimevole peccato di Adamo, che fu causa ed origine di tante miserie, veramente e propriamente si diffonde e si traduce in tutto il genere umano.
3. Sebbene gl’interpreti della Sacra Scrittura, ognuno secondo il suo giudizio, collochi Salomone nell’albo degli Eletti, o in quello dei Reprobi, pure noi sosteniamo che la sua eterna sorte sia ancora del tutto incerta.
Queste tesi teologiche, dommatiche e polemiche, stampate in una Immagine di S. Vincenzo Ferreri, che tuttavia si conserva nella Cappella pubblica del Palazzo Ducale, ora del Conte signor Ferdinando Spagnoletti-Zeuli, furono dedicate dal disserente all’Illustrissimo e prestantissimo uomo don Sebastiano Spagnoletti, di questa citta di Andria Sindaco, quan’altri mai vigilante, per giustizia, pietà e cristiana munificenza chiarissimo [111].
NOTE
[106] Studium Generale Provinciæ Apuliæ. Anacleta, Sacri Ordinis F. Prædicatorum, Romæ, Typis Vaticanis.
[107] Cod. XIII, 20. Ordinat. per mag. Gen. eorumque Commiss. pro Prov. S. Th. Apul. et Acta Capit. Prov. S. Th., ecc.
[108] Echard, Scriptores Ord. Prædicatorum, Lutetiæ Parisiorum, 1719-1721.
[110] Archivio Generale, ecc.

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XIII. - Biblioteca del Convento di San Domenico.

Avendo questo Convento di S. Domenico uno studio, doveva senza dubbio avere, come ebbe di fatti, una Biblioteca, ricca di libri utilissimi, e massime delle opere tutte dell’immortale Aquinate, suo maggior lume e decoro: quelle di S. Giovanni Crisostomo, di S. Agostino e degli altri Padri e Dottori della Chiesa. Ai 5 maggio 1785, troviamo che il Priore Fra Vincenzo Domenico de Simone proponeva ai Padri per questa Biblioteca la compra di cinque tomi in foglio del Padre Pererio, cioè quattro volumi sopra il Genesi ed uno sopra l’Esodo: due tomi di Riflessioni sopra le Rivelazioni di S. Brigida, non che il Corpo del dritto di S. Gregorio Magno [112]. Nella soppressione del 1809 questa Libreria in parte fu derubata, in parte passò negli scaffali dei salumai, in parte in potere di privati ed in parte al Convento di S. Croce di Trani, quando nel 1816 venne ripristinato.
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*      *
Nell’anno 1703, il M. R. P. Lettore Fra Gioseppe Maria Positani da Napoli, Priore di questo Convento di S. Domenico, per la buona ed esatta amministrazione dell’azienda monastica, incaricò il Padre Maestro Fra Luigi Mondelli da Trani di compilare con ogni diligenza, dai tanti Inventarii antichi che esistevano, uno nel quale fossero tutti riuniti i pii legati di questo monistero. Gli antichi Registri portavano i seguenti nomi: Inventarium, fascicoli I, II e III; Bombacino, fascicoli I e II; Bergameno: Manuale o Inventario vecchio Bombacino; Stallone; Stallone vecchio. Il Mondelli ne accettò ben volentieri l’incarico, e si accinse a formare il desiderato Inventario, che con ampolloso stile secentistico intitolò «Teatro dove si rappresentano in vere e reali scene tutte l’annue entrate tant’ordinarie quanto estraordinarie del Venerabile Convento di S. Domenico della città di Andria, prima chiamato S. M. dell’humiltà, poste in luce dal M. R. P. Maestro Fra Luiggi Mondelli da Trani, dell’Ordine de’ Predicatori, sotto il Priorato del M. R. P. Lettore F. Gioseppe Maria Positani da Napoli figlio di S. Spirito di Palazzo della Congregazione della Sanità nell’anno 1703. D. Bartholomeus Giannino Tranensis scribebat». Il detto Teatro è scritto con molta diligenza, con ottima calligrafia, su carta bombacina imperiale in foglio, ed e rilegato in pelle nera.
Nel principio il Mondelli trascrisse i nomi dei Frati in allora dimoranti nel Convento di Andria, come pure i nomi del Generale dell’Ordine, del Provinciale, del regnante Pontefice, del Re e Vicerè di Napoli, non che del Duca di Andria, per tramandarne ai posteri la memoria, e che noi qui trascriviamo, cioè:
  • Il M. R. P. Lettore Priore F. Gioseppe Maria Positani, figlio di S. Spirito di Palazzo della Congregazione della Sanità.
  • Il M. R. P. M.ro Luigi Mondelli da Trani, che fa il Teatro, figlio di Trani.
  • Il M. R. P. F. Antonio da Polignano, figlio di Monopoli.
  • Il M. R. P. Lettore e Priore di Bitonto, Confessore dell’Eccellentissima signora Duchessa, F. Francesco da Brindisi, figlio della Maddalena di Brindesi.
  • Il R. P. Lettore Primario F. Domenico la Tratta di Castellaneta, olim Maestro di studio di Barletta, figlio di Castellaneta.
  • Il R. P. Lettore Secondo F. Donato Ricci di Martina, figlio di Martina.
  • Il R. P. Lettore dell’Arti F. Alberto d’Avigliano, figlio di detta Terra.
  • Il P. Studente F. Alberto Miti da Bari, figlio di Modugno.
  • Il P. Studente F. Giuseppe Schettini da Terlizzi, figlio di Corato.
  • Il P. Studente F. Serafino di Corato, figlio di detta Terra.
  • Il P. Studente F. Emanuele Boccalari Romano, figlio di Grottola.
  • Il novizio F. Ignazio delli Noci, figlio di Putignano.
  • Il novizio F. Tomaso Santoro di Matera, figlio di Matera.
  • Il Converso Procuratore F. Isidoro di Acquaviva, figlio di detta Terra.
  • Il Converso Massaro F. Fortunato di Martina, figlio di Martina, o poi d’Andria.
  • Il Converso Panettiere F. Giuseppe di Martina, figlio di S. Vito degli Schiavi.
  • Il Converso Sagrestano F. Pietro di Martina, figlio di Gioja.
  • Il Converso F. Pietro di Palo, com reverentia, compagno del Priore, figlio di Palo.
  • Il Converso Cucinaro F. Domenico d’Altamura, figlio di Bitonto.
  • Il Converso F. Antonino da Ferandina, figlio dell’istessa Terra, compagno del M. R. P. Maestro Mondelli.
  • Il Regnante in Roma Clemente XI. Albani.
  • Il Generale della N.ra Religione il Rev.mo P. M.ro F. Antonio Cloche Francese.
  • Il Provinciale di Terra Santa il Rev.mo P. M.ro F. Luigi Barutelli di nazione Spagnuola.
  • Il Provinciale di Puglia il M. R. P. M.ro F. Alberto la Mantea di Bisceglia.
  • Il Regnante in Spagna Filippo Quinto, che Dio guardi.
  • Il Vicerè in Napoli l’Eccellentissimo Duca d’Ascalone.
  • L’Ecc.mo signor Duca d’Andria D. Fabrizio Garrafa, primogenito dell’Ecc.mo D. Ettore Garrafa».
NOTE
[112] Liber Consiliorum, ecc., pag. 87.

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XIV. - Lotte tra il Convento di S. Domenico ed il Capitolo Cattedrale.

Col 1700 il Convento di S. Domenico entra in un periodo di lotte col Capitolo Cattedrale, il quale per affermare sempre più la sua unica Parrocchialità, non permetteva affatto che venissero da chicchessia menomamente lesi i suoi dritti. Di qui le secolari e dispendiosissime cause che egli sostenne con gli altri Capitoli e colle comunità religiose di Andria.
Una quistione che nel 1628 si era accesa tra i Padri Domenicani ed il Capitolo Cattedrale di Andria per la processione della Madonna del Rosario, solita a farsi nella prima domenica di ottobre, si riaccese novellamente nel 1704. Mentre prima i Frati facevano tal processione nell’ambito dei loro Chiostri, secondo le prescrizioni dei Sacri Riti, questo anno pretesero di farla per tutta la città. La Cattedrale vi si oppose; la Curia vescovile emanò il suo decreto contrario alle pretese dei monaci, i quali fecero ricorso a Roma.
Monsignor D. Andrea Ariani, in allora Vescovo di Andria, interrogato intorno a tale vertenza dalla S. Congregazione dei Vescovi e. Regolari, il 23 maggio 1705 mandò a Roma il seguente suo parere:
«E.mi e R.mi Signori,
Avendo sopra esposto nell’allegato memoriale, dato alle EE. VV. dai PP. del Convento di S. Domenico di questa città, per la processione del Rosario, intese ambe le parti, in esecuzione degli ordini ingiuntimi; mi occorre riferire come si pretende da detti PP. fare ogni anno in virtù di privilegio, che asseriscono esserli stato concesso dalla S. M. del B. Pio V, la processione del Rosario, nella prima domenica d’ottobre, fuori dei Chiostri per le pubbliche vie della città, intervenendovi soli essi Padri e li fratelli della Confraternita del Rosario colla sola licenza del Vescovo, anche contradicente il Parroco del luogo, in virtù di decreto che portano in Nuscana presso la Terra di Bagnoli, in esecuzione del quale ottennero monitorio dall’A. C. non ostante che in questa città detti Padri giammai avessero fatta tal processione, eccetto che nel prossimo passato ottobre 1704, che fu la prima volta, da me permessagli in forma di divozione, e non di pubblica processione, senza elevarsi croce, né portarsi stola, intervenendovi essi Padri in abito Bianco da confratelli insieme con gli altri della Confraternita.
All’incontro il Capitolo ritrovandosi in pacifica e quieta possessione immemorabile, avvalorata con decreti della S. Congregazione che tutte le pubbliche processioni debbano principiare dalla Cattedrale, conforme vede continuarsi in tutte le processioni ancorché de’ Regolari, cioè quella di S. Antonio dei Padri Francescani, altra di S. Domenico dei medesimi Padri Domenicani; così si consente intervenire in questa del Rosario.
Talché non essendovi esempio che i Regolari abbiano fatto, extra claustra processione soli, non può allegarsene consuetudine in Andria, ove di più il Capitolo sta in legittimo possesso d’esigere dai Regolari alcuni atti speciali di ricognizione, come si è l’assistenza nella solennità del Patrono, e del Titolare, non solo solennizzando il Vescovo, ma qualsiasi Dignità.
Con che non osta l’allegato Decreto in Nuscana, come fondato in special consuetudine, e non sul preteso privilegio qui mai praticato, quale se vi fusse partorirebbe osservanza in ogni luogo uniforme; e pure nella più vicina città di Barletta, ove detti Padri hanno un Collegio primario, detta processione del Rosario ab immemorabili si fa sotto la croce Parrocchiale e con l’intervento del Parroco, con stola, a tenore dei decreti generali in simili materie di processioni.
Onde per evitare litigi, risse scandalose, e tumulti, più volte accaduti con detrimento del servizio di Dio in questa città, per simili processioni; stimerei esservi quattro modi, di alcuno dei quali possono detti Padri contentarsi, cioè fare detta processione secondo il solito tra i Chiostri, o con licenza circondare l’isola del loro monistero, secondo suole questa Collegiata insigne di S. Nicolò, la quale con essere coadiutrice della Cattedrale ad curam animarum, nella processione che suol fare sola, nella feria seconda fra l’ottava del Corpo di Cristo, non può eccedere l’isola di essa Collegiata: o pure volendo più dilatarsi, intervenga il Capitolo in corpo, o sotto la di lui croce elevata, come in Barletta; o alla fine essi Padri intervengano come fratelli come gli altri della Confraternita, senza far pubblica processione, per mera divozione, senza croce elevata.
In tutti pero i suddetti modi, extra claustra, debbano i Padri ricorrere ogn’anno con supplica in iscritto per la licenza dal Vescovo, il di cui arbitrio si regolerà, prudenzialmente nel concederla; rimettendomi per altro in tutto all’altissimo giudizio delle EE. VV., ecc. » [113].
Quale risposta abbia data la S. Congregazione, relativa a tale vertenza, tra le carte dell’archivio della Cattedrale non si trova; pare però che sia stata contraria ai Frati, perché un’altra volta nel 1718, essendo rinata una simile quistione tra i Domenicani e la Cattedrale, il Vescovo di quell’epoca, Mons. Gian Paolo Torti, nel 1719, rinnovava contro dei Padri la sentenza di Monsignor Ariani. [114].
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Altro fomite di litigi tra i Padri Predicatori e la Cattedrale fu la processione di S. Domenico, protettore minore di Andria.
Ogni anno, il 4 agosto, l’Università di Andria fu solita da tempo immemorabile offrire in onore del Santo, nella Chiesa dei Domenicani, un cero di libre 14; ed i Padri per questa offerta erano tenuti ogni anno di fare la pubblica processione di detto Santo, dopo i secondi vespri, con portarne la statua dalla loro Chiesa, ove si conservava, alla Cattedrale, senza elevazione di croce, senza canto e senza recita di salmi. Dalla Cattedrale, con l’associazione di tutto il clero secolare e regolare, la processione sfilava percorrendo le prin-cipali strade della città, indi ritornava nel Duomo, donde ognuno si partiva alla propria Chiesa ed i Domenicani col riportarsi la statua del loro fondatore.
Circa il 1700 i Frati contro il solito portarono la statua dal loro Convento alla Chiesa madre, con la croce eretta e cantando salmi. Fu questo pel Capitolo Cattedrale una grave lesione dei suoi dritti, ed ardendo di smodato zelo, dopo di avere acremente rimproverato i Frati, chiuse a chiave la statua di S. Domenico in una delle sue cappelle, e non fu fatta più la processione in quell’anno. Per siffatta quistione eccitossi un gran tumulto nella città, per la quale un buon uomo, chiamato Tommasone, devotissimo del Santo, iva piangendo e gridando: Ahi! ahi! hanno carcerato S. Domenico!
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Nell’agosto del 1708 si rinnovò tale scena, ma con più lagrimevoli circostanze.
Giunta l’ora della processione, allo squillo festivo delle campane del Duomo, le due Collegiate e le Comunità regolari convennero nella Cattedrale, meno i Padri Domenicani. Monsignor D. Nicola Adinolfi, Vescovo di Andria, mandò il Promotore Fiscale ed il notaro apostolico ad ammonire il Priore ed i Frati, perché secondo immemorabile consuetudine portassero nella Cattedrale la statua del glorioso S. Domenico. A tale avviso vi si recò il P. Fra Giacinto di Ruvo con sei professi; ma senza altri Padri e senza statua. Il Vescovo pazientemente mando un’altra volta il Fiscale ed il notaio a minacciare i Padri di sottomettere all’interdetto locale la loro Chiesa se fossero contumaci. Ma i Frati tennero duro, ed in quel giorno con ammirazione e scandalo di tutta la città non si fece la processione.
Per tale scandalo e contumacia dei Padri in non volere obbedire, e per le focosissime istanze dell’Università, il Vescovo dovette suo malgrado sottoporre la Chiesa di S. Domenico all’interdetto, col farne affiggere in quell’istesso giorno, alle ore 23 ½ il Cedolone [115].
Il 23 agosto, il Sindaco di Andria, Gian Lorenzo Guadagni, si presentò in Curia, e fece sapere come la Magnifica Università avesse già fatto ricorso in Roma alla S. Congregazione del Concilio contro dei Padri Domenicani, non solo perché confermasse interdetto, ma ancora perché la mantenesse nel possesso, in cui da tempo immemorabile si trovava, di questa processione con la statua di S. Domenico, che i Domenicani dovevano senza erezione di croce, e senza canto, portare nella Cattedrale; infine faceva istanza perché un tale ricorso si notificasse ai Frati, affinché questi potessero comparire nella Vescovil Curia e presentare a tempo debito le loro ragioni.
Il notaio Cristiano si presentò nel Convento per rilasciare ai Padri una copia del ricorso, avanzato dall’Università a Roma, ed il decreto del Vescovo posto a piè del medesimo. Ma i Frati non vollero riceverlo, e verso le ore 14 ½ chiusero le porte del Convento.
Verso le ore 16 il notaio ed il cancelliere per ordine del Vescovo, affissero alla porta piccola di S. Domenico la detta copia, con le clausole «Amoventes, lacerantes etc. … sint ipso facto excomunicati etc.», firmata dal Vescovo.
Fu allora che i Domenicani, sotto pretesto di avere ottenuto una provisione dalla Regia Nunziatura di Napoli, con cui si ordinava la remozione dell’interdetto, e la trasmissione degli atti, stracciarono il Cedolone, aprirono le porte della Chiesa, suonarono le campane a festa, spararono mortaretti, e razzi e pubblicamente celebrarono i divini uffici!
Nell’aprirsi la porta piccola, il P. Fra Domenico Paradisi strappò violentemente la copia del ricorso della Università, la lacerò, e buttandone i pezzi a terra li calpestò, non ostante che un sacerdote secolare che di là passava avesse avvertito della scomunica minacciata contro chiunque togliesse o lacerasse quella copia. Anzi con grandissimo dispregio della censura ecclesiastica, e con scandalo del popolo, uscì subito a celebrare la messa sull’altare di S. Domenico, come fece nei giorni susseguenti; per cui fu dal Vescovo scomunicato.
La causa fu portata alla Congregazione del Concilio, ed il Vescovo interrogato del suo parere, il 13 ottobre mandò la seguente relazione:
«E.mi e R.mi Signori Padroni Colendissimi.
Per eseguire con la dovuta esattezza gli ordini delle EE. VV. sopra l’espostogli per parte di questa Università di Andria contro li RR. Padri Domenicani, m’è parso prenderne diligente e giudiciario informo con far citare prima li Padri suddetti a portar fra sei giorni avanti di me quelle ragioni che pensano assistergli, ad oggetto di riferirle a codesta S. C., doppo della quale citazione mi mandarono a presentare per mano di notar apostolico una istanza, in cui m’allegarono per sospetto, imputandomi a livore ciò, che per mera giustizia io aveva operato, ad istanza di detta Università oratrice, ne più finora sono comparsi, quantunque di nuovo gli facessi citare ad videndum juramenta testium, prima d’incominciarsi esame, quale compito, mi è parso ancora prefiggerli termine di giorni trenta a dedurre in cotesta S. C. le loro ragioni su ciò, e quanto e come abbiano operato, e proceduto detti PP., e con quanto dispregio del mio carattere Vescovale, potranno le EE. VV. far grazia leggerlo, ed osservarlo dall’intiera copia autentica dell’informo ecc. preso, e dagli atti da me fabricati, che a tal fine gl’invio, con rimettermi in tutto e per tutto alli medesimi.
Ho bensì da riferire alle EE. VV. ciò che ho praticato con questi Padri fin dal principio, che io mi portai al governo di questa mia Chiesa, affinché le loro savissime menti comprendano se io abbia portato livore a detti Padri, che al certo l’ho stimati e li stimo, come la pupilla degli occhi miei, non solo perché sempre sono stato divotissimo e affezionatissimo di questo Santo Abito, ma ancora per riguardo del mio Eminentissimo Sandemente, a cui ho avuto l’onore di servire per Uditore molti anni.
Giunto dunque in questa città, nel mese d’aprile del prossimo anno scorso 1707, subito al P. Francesco da Brindisi, Priore di questo Convento di S. Domenico, diedi tutta la mia facoltà per le confessioni d’assolvere da ogni caso riservato, anco con censura, ed in parola di detto Priore, senza minimo esame, anti senza conoscere né meno un certo Padre del suo Convento, ap-provai alle confessioni; quando alli PP. Benedettini, Conventuali, Agostiniani e Minori Osservanti non ho voluto ammettergli, senza prima esaminargli, ancorché graduati nelle loro Religioni, come fra gli altri al P. Priore di S. Agostino, al Regente di S. Francesco dei Minori Conventuali, et ad un Lettore attuale di Teologia morale dei Minori Osservanti, quali prævio examine, furono da me alle confessioni approvati.
Non ho lasciato più e più volte ancora portarmi in detto Convento di S. Domenico a riverire il menzionato P. Priore per dimostrargli nell’esterno quella stima e affetto, che internamente gli conservava e gli conservo.
Ultimamente la mattina di S. Domenico, in questo prossimo passato agosto, mi portai a celebrare nella Chiesa di detti Padri, e prevedendo li disordini, già in appresso succeduti, andai sopra fin dentro la cella di detto P. Priore, e lo pregai a non fare innovare cosa alcuna dalli suoi Padri, ma che s’osservasse immemorabile solito per la processione del Glorioso S. Domenico, protettore di questa città, e con effetto mi riuscì persuaderli; ma con condizione, che io ne dovessi passar parola ancora con li Padri, come infatti io feci, mentre calai a basso, e parlai a tutti li Padri, che facessero a mio riguardo il trasporto della Statua del Glorioso S. Domenico, dalla lor Chiesa alla Cattedrale, secondo il costume e consuetudine immemorabile, senza andare innovando, acciò si fossero evitati tutti gl’inconvenienti che sono legittimi parti delle novità, soggiungendogli, che se stimavano essergli di pregiudizio (il che non c’era) se ne facessero pubbliche proteste per mano di notaro, e che poi per loro comodo mi portasser tutte quelle ragioni, che supponevano avere mentre io avrei procurato buonamente vederle, e se avessero voluto acchetarsi al mio sentimento, stava in loro libertà; in contrario di comune consenso avrei fatto concordare e sottoscrivere quelli dubij, che loro stimavano disputabili, e rimetterli a cotesta S. C. per deciderli, e risolverli con quiete, senza strepito e senza spesa; mi risposero li Padri che ne volevano far capitolo, e cosi me ne tornai al mio Palazzo.
Ed ecco che prima del Vespro mi vennero due Padri a dire, che s’era fatto capitolo, e avevano risoluto di far il trasporto della statua di S. Domenico, secondo il solito immemorabile per quest’anno tantum, purché io avessi promesso, che per l’avvenire avessero essi potuto fare la processione del Rosario, come si pratica nella Minerva di Roma.
Io a ciò replicai che questa non era materia da risolversi nello spazio di mezz’ora, giacché la processione del Glorioso S. Domenico si dovea far in detto giorno doppo li Vesperi; tanto più che doveva intendersi il Capitolo della Cattedrale, che era il principale interessato, e cosi tempus non largiebatur, tornandogli a pregare che non innovassero, mentre non avrei lasciato strada, né espediente per accomodare e terminare queste loro pretensioni; e così se ne andarono, e non vollero in modo alcuno portar la statua di detto Glorioso S. Domenico, ancorché io mandassi altre due volte il mio Promotore Fiscale e Cancelliere a richiederli ed ammonirli.
In somma tutto il clero secolare, oltre della Cattedrale, di due Collegiate, e tutti gli altri Regolari aspettarono fino alle 23 ore in circa nella Cattedrale, né detti Padri vollero portare la statua, e per conseguenza furono tutti licenziati, né poté farsi la processione, che fu un sommo scandalo in questa città (simile all’anno passato che fu la prima volta che detti Padri volsero erigere la for croce nel trasporto della statua del Glorioso S. Domenico dalla for Chiesa alla Cattedrale in cui ebbe a succedere una grandissima buglia con li preti di detta Cattedrale, ma posi ogni industria a non far passare avanti il rumore, però la processione non si fece per questa benedetta novità).
Laonde fui necessitato per le istanze giustificate dell’Università Oratrice, sottomettere la Chiesa di detti Padri all’Interdetto cominatogli fin dalli due agosto di quest’anno 1708 corrente: quale Interdetto poi essi Padri, propria auctoritate, lo lacerarono, con aprire le porte della lor Chiesa, celebrando messe e divini offici pubblicamente, facendo suonar le campane, sparar razzi per aria, e mortaletti in questo istesso istante, che strapparono e lacerarono il cedolone dell’Interdetto, sotto colore d’una certa previsione della Regia Nunziatura di Napoli; anzi in quell’istesso giorno, ora e tempo, ritrovandosi affissa alla porta piccola della Chiesa una copia della stessa Università Oratrice, contenente il ricorso avuto in questa S. C. del Decreto che io interposi de: Nihil innovando, in calce del quale da me si sottoscrissero le clausole solite: Amoventes, lacerantes etc. sint ipso facto excomunicati etc. per aver ripugnati detti Padri di ricever copia per mano del Suddiacono Sebastiano Cristiano, publico Notar Apostolico e mio Cancelliere.
Il P. Fra Domenico Paradisi, Sacerdote Domenicano, strappò violentemente la detta Copia affissa, lacerandola in più pezzi, e buttandosela in terra sotto i piedi, non ostante, avvertimento datogli da un Sacerdote secolare, che non l’amovesse, mentre vi era la scomunica contro: Amoventes lacerantes etc., anzi ingiuriatosi con detto Sacerdote per causa del-l’avvertimento, poi si portò immediatamente in Sagrestia, e uscì a celebrare nell’altare del Patriarca S. Domenico. Questa azione, E.mi miei Signori, inorridì talmente quei secolari, che ivi trovaronsi presenti, che non vollero sentire la messa di detto Religioso, quale, servatis servandis, fu da me dichiarato scomunicato, come faranno grazia osservare dagli atti, che li trasmetto.
Queste sono, E.mi miei Signori, le mie procedute livorose. Non contenti solamente di ciò, li medesimi Padri vollero fare un’altra novità, nella festa della SS. Annunziata di Maria, che è il titolo della cattedrale, et è, che non vollero venire ad assistere ai primi vespri, e messa solenne, siccome ab immemorabili era stato sempre solito, con publico scandalo non solo di tutti gli altri Regolari, e Preti secolari, quali con ogni prontezza vennero ad assistere; ma di tutta questa città, in cui non d’altro si discorreva, e discorre che di questo scandalo originato dalla novità, che pretendono introdurre detti Padri, e da ciò prese motivo il Capitolo di detta mia Cattedrale d’aver ricorso per questo fatto in S. C. dei riti, acciò si dichiarasse, che siano tenuti a venire ad assistere alla Cattedrale, secondo l’immemorabile solito, e se n’è fatto an-cora la relazione.
Di più ogn’anno in questa città, in ogni primo Sabato d’ottobre è stato solito farsi la processione in onore del primo ingresso che fe’ in questa città il Glorioso San Riccardo, Primo Vescovo e Padrono principale della medesima, nella qual processione sono stati soliti intervenire ab immemorabili tutti li preti delle due Collegiate, oltre della Cattedrale, e tutti li Regolari ancora, e pure in questa settimana caduta appunto oggi sono otto giorni, che quantunque fossero intervenuti secondo il solito nella Cattedrale tutti li Preti delle Collegiate, non di meno li Padri Domenicani non vollero venire, e né meno si fe' la processione.
Confesso alle EE. VV. con ogni candidezza la pura e sincera verità, che queste leggerezze commesse dai detti Padri mi hanno recata grandissima mortificazione a riguardo del grande affetto, che porto a quest’Ordine Benedetto.
Rimetto intanto all’alta intelligenza e somma prudenza delle EE. VV. tutto quello che ho riferito, sperando nel Signore Iddio, che con l’oracoli di questa S. C. s’abbiano a terminare le presenti controversie et insieme troncarsi ogni occasione per le future, mentre io acchiudendogli il memoriale trasmessomi, con profondissimi inchini, mi ratifico sempre dell’EE. VV.
Andria 13 ottobre 1708.
Umil.mo Dev.mo Ob.mo Servitore Nicola Adinolfi Vescovo di Andria » [116].
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La questione portata in Roma innanzi alla Sacra Congregazione del Concilio fu ridotta ai seguenti quesiti:
  • Se i Padri Domenicani di Andria, nel giorno della festa di S. Domenico, patrono della detta città, sieno tenuti a portare la statua del medesimo Santo dalla loro Chiesa alla Cattedrale, con la semplice associazione, senza canto, e senza erezione di croce, onde fare la processione per la città, con il clero secolare e regolare, e nel caso affermativo?
  • Se l’ordine emanato dalla Curia vescovile agli stessi Padri, sotto pena d’Interdetto, obblighi in questo caso?
  • Se obblighi l’Interdetto posto dalla stessa Curia alla Chiesa dei Reverendi Domenicani, per la loro contumacia in non obbedire all’istesso ordine?
  • Se in questo caso stia ben fatta l’amozione del medesimo Interdetto?
  • Se i Padri celebrando di poi nella loro Chiesa sieno caduti nelle Irregolarità e nelle altre pene canoniche?
  • Se i Frati sospesi debbano riabilitarsi ad ascoltare le confessioni sacramentali?
Il 6 luglio 1709 la S. Congregazione degli E.mi Cardinali di S. R. Chiesa, interpreti del Concilio Tridentino, al primo e secondo quesito rispose affermativamente: al terzo negativamente: al quarto ed al quinto essersi già provveduto nel terzo: al sesto rispose: ad mentem, cioè che i Padri Domenicani dovevano domandare perdono al Vescovo, e venire abilitati ad ascoltare un’altra volta le confessioni.
B. Card. Panciatibus Præfectus. V. Petra Secr. [117].
In tal modo la quistione, accesa tra i Frati Predicatori, il Capitolo Cattedrale, la magnifica Università ed il Vescovo di Andria, ebbe termine.
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Al vedere in quell’epoca con quanta facilità insorgessero quistioni tra i Frati Domenicani ed i preti della Cattedrale, voi siete tentati a credere che altro compito più nobile e più importante non avessero se non quello di litigare sempre, di litigare per un nonnulla, che o veramente o immaginariamente offendesse i loro dritti ed i loro intangibili privilegi!
Laonde i Padri Predicatori nel 1720 pensarono eleggere e costituire un conservatore dei loro privilegi nella persona dell’Ill.mo Monsignor Giuseppe Davanzati Arcivescovo di Trani, acciò fossero da questi difesi e protetti in tutte le ingiurie, danni ed aggravii che loro venissero fatti da chicchessia, tanto secolare, quanto ecclesiastico.
A tal uopo gli spedirono la seguente lettera testimoniale e declaratoria di detto Conservatore, eletto e costituito unanimemente dai Padri del Consiglio.
La testimoniale, tradotta dal latino, del seguente tenore:
«Noi Priore e Padri del Consiglio assegnati in questo venerabile Convento di S. Domenico di Andria Ordine dei Predicatori, vedendo tali e tante ingiurie, molestie e danni arrecati a questo Convento da talune persone sia ecclesiastiche che secolari, in notabile pregiudizio dei privilegi all’Ordine nostro ed agli altri Ordini dei mendicanti largamente e benignamente da molti Sommi Pontefici concessi volendo opportunamente provvedere il predetto Convento d’un legittimo Conservatore di tutti i detti Privilegi; capitolarmente congregati, ad unanimità eleggiamo Ill.mo e Rev.mo Monsignor Arcivescovo di Trani, dotato d’ogni vigilanza, prudenza e dottrina, e verso la nostra Religione assai pio e benevolo, a questo ufficio di Conservatore, per facoltà a noi concessa circa tale elezione dai predetti Sommi Pontefici.
Per la qual cosa col tenore delle presenti lettere istituiamo e dichiariamo istituito pel suddetto Convento di S. Domenico di Andria il predetto Ill.mo Monsignor Arcivescovo di Trani come vero e legittimo Conservatore di tutti i predetti nostri privilegi, umilmente pregandolo non solamente ad accettare questo ufficio, ma ancora a degnarsi con aiuto di efficace difesa di accorrere contro qualunque molestia, ingiurie, violenze e danni finora fatti a questo Convento sia da persone ecclesiastiche che da secolari, in modo che se qualche danno già fatto crederà riparabile, esso secondo le sue forze non sdegni quanto prima di riparare, giusta la potestà a lui concessa dalla Santa Sede Apostolica. Che se non è riparabile, almeno presumiamo che in avvenire per l’autorità d’un tanto uomo, nessun gravame, nessun pregiudizio contro il tenore dei nostri privilegi sarà per essere arrecato da qualunque persona, sia ecclesiastica che secolare, a questo Convento.
Per la qual cosa scrivemmo le presenti lettere testimoniali, e con le proprie mani le sottoscrivemmo, e del sugillo del Convento le corrobo-rammo.
Datate in Andria il giorno 10 giugno 1720.
Io Fra Giacinto Sarcone Lettore e Priore, e primo elettore.
Io Fra Nicola Tomaso Barone, primo lettore di S. Teologia, e secondo elettore.
Io Fra Pietro Martire da Molfetta, lettore, maestro dei novizi e terzo elettore.
Io Fra Domenico Tomaso Friuoli, Lettore, Vicario, e quarto elettore.
Io Fra Giuseppe Maria Stasi, lettore, e quinto elettore».
L’originale di detta Lettera testimoniale fu conservato nella Curia Arcivescovile di Trani, ed un’altra in quella di Andria [118].
NOTE
[113] Archivio dell’Ordine dei Frati Predicatori. Roma.
[114] Archivio della Cattedrale di Andria: Caose diverse del Capitolo contro varie Comunità.
[116] Archivio della Cattedrale di Andria: Caose diverse del Capitolo contro varie Comunità.
[117] «S. Cong. Concilii Andrien. Processionis, Interdicti et aliorum Pro Rev. D. Promot. Fiscali Curiæ Episc. Andriæ, ac Ill.ma Universitate eiusdem civitatis Summarium». Caose diverse del Capitolo con varie Comunità, pag. 19-34
(Archivio della Cattedrale di Andria).
Vedi Documento VII.

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XV. - I Domenicani esonerati dalle processioni che facevansi in Andria

I Padri Domenicani mal volentieri intervenivano alle frequenti processioni, che si facevano in Andria, e però non se ne stettero inoperosi, e varie volte tumultuariamente tentarono di sottrarsi. Finalmente per essi suonò l’ora propizia, in cui sulla cattedra di S. Pietro salì un loro correligionario nella persona di Papa Benedetto XIII. Dettero essi un grido di gioia inenarrabile, e si adoperarono efficacemente per liberarsi da tale obbligo, e felicemente ottennero il loro intento.
Correva il terzo anno del suo Pontificato, allorché il sullodato Pontefice da Benevento, il 26 aprile 1727, emanò in favore dei Frati Predicatori di Andria una sua Bolla, in cui diceva come
«avendo saputo che i diletti figli, il Priore ed i Frati del Convento della citta di Andria della Provincia di Puglia, dell’Ordine di S. Domenico, non potessero sopportare il peso troppo grave, a cui sottostavano, d’intervenire alle pubbliche processioni, o supplicazioni, che in detta città, nel corso dell’anno, e massime in tutti i venerdì del mese di marzo, nella Domenica delle Palme, nelle feste dell’Annunziazione della B. V. Maria, di S. Riccardo, di S. Antonio da Padova, e dell’istesso S. Domenico, erano solite di farsi, e di portare la statua del medesimo S. Domenico, nel suo giorno festivo, dalla Chiesa del loro Convento alla Chiesa Cattedrale di Andria, e di assistere inoltre ai primi vespri ed alle messe solenni, nella medesima Chiesa Cattedrale, nei predetti giorni festivi dell’Annunziazione e di S. Riccardo …
Egli considerando che detti Frati, non senza grave loro incomodo, e non senza minore detrimento della disciplina regolare, non che degli studi quivi vigenti, non potessero intervenire a tante processioni o supplicazioni, e non potessero adempiere agli altri obblighi; vuole che non intervengano se non alle processioni, o supplicazioni, che si fanno nel giorno della festa del Corpo di Cristo, nelle Litanie maggiori, nelle Rogazioni, ed in quelle ordinate per giusto motivo, o per pubblico onore dal Vescovo di Andria.
Finalmente li esonera dall’obbligo di portare la statua di S. Domenico dal loro Convento alla Chiesa Cattedrale, e di assistere ai Vespri ed alle messe solenni nei giorni festivi dell’Annunziazione e di S. Riccardo» [119].
In tal modo i Domenicani di Andria, si liberavano una buona volta dall' intervento alle processioni ed alle altre funzioni solenni, solite a farsi nella Cattedrale.
*
*      *
Con la data del 24 novembre 1725, per autorità, del medesimo Pontefice, il Rev.mo P. Maestro Generale Fra Tommaso Ripoll faceva la seguente riduzione di messe per il Convento di S. Domenico di Andria:
Destinatari delle messe di suffragio N.
TOTALE 1391
Per Antonio di Vangelli messe piane 18
Per Porzia Giuditta Micale 18
Per Silvia Pastore 5
Per Giacomo di Morselli 25
Per Cassandra Volpone 26
Per Sebastiano Tupputi 23
Per Riccardo Provenzano 36
Per Riccardo Tupputi 9
Pel Cantore Tupputi 9
Per l’Ecc.mo Duca d’Andria, D. Antonio Carafa 729
Per l’Ecc.ma Duchessa d’Andria, Emilia Carafa 488
Per Porzia e Prudenza Micale 2
Per Nunzio Romanelli 1
Per Giovanni Paolo Biana 1
Per Donato dello Fatone 1

Per Francesco Romantizzo, per Giacomo di Trani, per Nunzio Marinelli, per Vincenzo Sant’Eremo, per Suora Flora si ammettono ai comuni suffragi. Per maggiore soddisfazione dei pesi, e per i benefattori, in tutti gli anni un anniversario.
Messe che non hanno bisogno di riduzione, epperò restano in Tabella:
Destinatari delle messe di suffragio N.
TOTALE 720
Per Giovanni di Vangelli 1
Per Tommaso Paglia e suoi eredi 1
Per Riccardo Lanzetta 12
Per Lucia Gavetta 10
Per Menta e Bernardina Vallera 2
Per Baldo Paglia e suoi eredi 2
Per Tomaso di Mastro Antonio 6
Per Vittoria Vitagliani, Silvio Maranta e D. Pietro Rodriguez 365
Per gli stessi 88
Per Silvio Maranta 25
Per Paolo Cannone 54
Per Filippo Tesoriero 53
Per Nicolò Brudaglio a carlini 3 la messa 43
Per Fazio di Triminenna 50
Per Maria Caracciolo 8

Anniversarii:
Destinatari delle messe di suffragio N.
TOTALE 41
Per l’Ecc.mo sig. Duca Baucio Fondatore 1
Per l’Ecc.ma signora Duchessa Orsini Fondatrice 1
Per Pietro Lombardo e Giovanna Navarra 2
Per Giacomo e Cesare Paglia 2
Per Altabella 1
Per Antonia Vangella e Fania Vinciguerra 1
Per la madre di Fra Nunzio 1
Per Fazio di Triminenna 1
Per Blandonia Russo 2 messe cantate ed 1 anniversario 3
Per li 41 Testatori che nomina la riduzione del 1674 8
Per la maggiore soddisfazione e per i Benefattori dell'ultima riduzione 1
Per Giacomo di Morselli 11
Per Giacomo di Trani 8
Noi Fra Tomaso Ripoll, Professore di S. Teologia, e di tutto l’Ordine dei Predicatori umile Maestro Generale e servo, per l’autorità a noi concessa dalla Santità di Papa Innocenzo XIII di felice memoria, in vigore del decreto della Sacra Congregazione degli Eminentissimi Cardinali Interpreti del Sacro Concilio Tridentino, colla data del 10 settembre 1723, visti e maturamente considerati i pesi delle messe del nostro Convento di S. Domenico di Andria della Provincia di Puglia, facciamo la moderazione e la riduzione delle medesime a norma del detto decreto, col tenore delle presenti, come nella dietro scritta tabella. Ordiniamo pertanto, che tolta la vecchia tabella, ma conservata altrove, privatamente si faccia la nuova, in cui distintamente si descrivevano i detti pesi, come in questa nostra, ed ai medesimi si aggiungano gli altri, se vi sieno, i quali non avevano bisogno di riduzione.
Vogliamo ancora e comandiamo, che il presente nostro decreto a perpetua memoria, nel comune deposito del Convento diligentissimamente venga custodito, aggravando in ciò la coscienza del P. Priore, non che quella del Sagrista maggiore temporaneo.
In fede di che, ecc.
Dato in Roma nel nostro Convento di S. Maria sopra la Minerva, il 24 novembre 1725.
Fra Tomaso Ripoll Maestro dell’Ordine» [120].
NOTE
[120] Teatro, ecc., pag. 138 t.

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XVI. - Scandaloso litigio tra i Canonici della Cattedrale
ed i PP. Domenicani per la processione del Corpus Domini.

Mentre i Domenicani di Andria avevano fatte vivissime premure presso la Santità di Papa Benedetto XIII, perché li avesse esonerati dall’obbligo di prender parte alle tante processioni, che qui si facevano, ed a tal uopo ne avevano ottenuto una bolla; ecco servirsi d’un privilegio accordato il 1.° gennaio 1704 da Clemente XI, di potere ogni anno, nella domenica infra l’ottava del Corpo di Nostro Signore, senza impedimento alcuno, fare la so-lenne processione del Santissimo Sacramento. Ed infatti per tre anni continui essi fecero pacificamente questa processione, con l’accompagnamento della sola Confraternita del Santissimo Rosario. Se non che i Preti della Cattedrale, ai quali ciò non piaceva, per interrompere la prescrizione, la fecero inibire dal Vicario Generale di Andria, D. Giovanni Maria Marchio, sotto pretesto che detta processione non poteva essere accompagnata dalla Confraternita laicale del Rosario.
La domenica 11 giugno 1730, alle ore 12 del mattino, mentre il Rev.do Priore celebrava la messa solenne per la esposizione del Santissimo, ecco venir presentata la inibizione agli stessi celebranti. I Domenicani ricorsero subito al Vescovo, il quale era un Domenicano, Fra Cherubino Tommaso Nobilione, patrizio di Sorrento e Vescovo di Avellino prima, e poi il 9 decembre 1726 trasferito a questa sede Andriese, dove avevano seduti altri due Domenicani, Fra Antonio di Giannotto, patrizio Andriese, e Fra Placido da Sulmona. Il Vescovo, perché non fosse disturbata la processione, pensò di portare egli stesso il Venerabile in qualità di persona privata, o di primo parroco di Andria.
Frattanto, mentre il Vescovo si portò nella Chiesa dei Domenicani, e la processione comincio a sfilare; nella Sagrestia della Cattedrale l’Arciprete D. Domenico Pincerna, bollente d’ira, e divampante vendetta, arringava i Capitolari e facea loro intendere che la gita del Vescovo era ad essi di maggior pregiudizio di quello che sarebbe stato se i Domenicani avessero fatta la processione da se soli, con l’intervento della Confraternita del Rosario; dando a credere che un decreto della S. Congregazione dei Riti proibiva al Vescovo di Andria di poter fare funzione alcuna, senza assistenza dei Capitolari.
Ma il Pincerna, che per altro era un uomo intelligente e dotto, s’ingannava a partito, perché il decreto proibiva al Vescovo di Andria di poter fare le funzioni pontificali, senza il Capitolo Cattedrale, non già, qualunque altra funzione. Ora le funzioni pontificali, secondo il Pignatelli (Consult. 7, n. 5, tom. VII), sono le seguenti: «Collatio ordinum: consecratio Vasorum: Ecclesiarum: Virginum: et Chrismatis: Confirmatio: Benedictio Vestium et Corporalium, etc. » Dunque il Vescovo nella processione dei Domenicani, col portare il Venerabile, che era un atto da potersi fare da qualunque altro semplice Sacerdote, non esercitava una funzione pontificale. Per la qual cosa Arcidiacono de Rubertis, che molto prudente, ed assennato era, cerco di calmare gli animi sdegnati, e di dissuaderli da quanto avevano stabilito di fare.
Inutilmente; circa cinquanta capitolari, inalberata tumultuariamente la croce, corrono a raggiungere la processione sulla strada di San Francesco. L’ Arciprete Pincerna, e Don Carlantonio Scesa, Cerimoniere del Capitolo, spiranti ira, si presentano innanzi al Vescovo, che incedeva sotto il baldacchino, portando il Santissimo Sacramento, ed imperiosamente, e villanamente gl’intimano di mettersi in mezzo a loro. In questo mentre l’Arciprete ed il Primicerio Tesse, cacciando con violenza gli assistenti Domenicani, gli si mettono a destra ed a sinistra. Gli altri preti strappano di mano ai Conversi gl’incensieri, ed i bacili dei fiori, e le aste del baldacchino, portate dai confratelli del Rosario, e questi facendo resistenza, li gittano a terra, e ne avviene una colluttazione scandalosissima!
I Padri Domenicani, che erano diciassette, fuggirono tutti, come pure fuggirono i Fratelli del Rosario; dei Conversi chi fu gittato a terra, e chi precipitato nel sotterraneo d’una casa diruta! In mezzo a tanto scompiglio, il Vescovo piangendo poté a stento, secondo il consiglio del P. Priore, rifugiarsi nella vicina Chiesa di S. Francesco, entrando per la porticina, ove consegnato il Venerabile nelle mani d’un Padre Domenicano, da cui pure lo si voleva strappare, e chiuso nel ciborio, si rifugiò tremante nel Coro, in compagnia del P. Scarcelli Conventuale, e poi nel Convento, donde al suo Episcopio, tra le lagrime del popolo scandalizzato altamente di tal fatto, e temente l’ira di Dio oltraggiato nel Divinissimo Sacramento! Ed infatti il giorno seguente, per uno di quei casi che non sono casi, il Sacerdote D. Tomaso Cassano, procuratore del Capitolo, uno di quelli che si era troppo distinto in quella sacrilega baruffa, repentinamente moriva, con raccapriccio di tutti.
Il Vescovo immediatamente riferì l’esecrabile fatto ai Cardinali, allora radunati in conclave, per la elezione del nuovo Pontefice, essendo morto Papa Benedetto XIII. Gli Eminentissimi inorriditi del fatto, ordinarono al Vescovo di formolare quanto prima il processo con l’esame di dieci testimoni, di pubblicare la scomunica contro i rei, facendo affiggerne i cedoloni, e di fare catturare due o tre Ecclesiastici i più rei, implorando a tal uopo il braccio secolare del Duca di Andria.
Infatti appena esaminati due o tre testimoni, subito furono carcerati Arciprete Pincerna, D. Carlo Antonio Scesa, e D. Leonardo Caprara, dichiarati nel giorno seguente scomunicati, con pubblici cedoloni, unitamente a D. Giuseppe de Matteis, D. Domenico Nanni, e D. Vito Barletta.
Per tale carcerazione i Capitolari eccitarono il popolo a strappare dalle mani della giustizia i suddetti preti, e corsero ad assalire il Vescovo nel suo Episcopio; ma avendolo trovato chiuso, e correndo ad appiccarne il fuoco alle porte, il Governatore della città, il Capitano delle milizie, ed altri gentiluomini accorsero immantinente a liberare il Vescovo ed a menarlo nel Palazzo Ducale, lasciando guardie a difesa dell’Episcopio contro qualche altro tentativo!
Dopo parecchi giorni essendo scoppiato un terribile temporale, ed il popolo essendo corso spaventato in Chiesa a pregare e supplicare S. Riccardo, perché lo liberasse da tale flagello; ecco che un certo D. Riccardo Bisceglia sale sul pergamo e dice al popolo che ben si meritava un tale castigo da Dio, perché non si moveva ancora a liberare dal carcere il suo Arciprete, e gli altri preti! Per questo il Vescovo fe’ carcerare ancora il Bisceglia, ma che poi a causa di malattia volle che se ne stasse rinchiuso in casa, loco carceris. E poiché si temeva che il popolo si levasse qualche giorno a tumulto, e le carceri di Andria erano malsicure, furono tutti e quattro mandati al Castello di Barletta, donde vennero dipoi rinchiusi in due Conventi [121].
La causa fu portata a Roma dal Vescovo Nobilione e dai Domenicani; il Duca d’Andria D. Ettore Carafa prese a difendere a tutt’uomo i Frati, ed il giorno 8 febbraio 1732, la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari emanò contro i Preti della Cattedrale la seguente severissima sentenza, che tradotta in italiano suona cosi:
«Governando la Chiesa Clemente VII, ed Ettore Carafa XI Duca di Andria proteggendo la causa dei Padri Predicatori; la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari stabilì e decretò:
I. Che in riparazione della sacrilega offesa, fatta al Venerabile, in occasione della turbata processione si dovesse per un decennio nella prossima Domenica, dopo ottava della festa del Corpo di Cristo, esporre solennemente nella Chiesa Cattedrale il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia, a spese del Capitolo, con l’assistenza del medesimo, per l’intera giornata, nella quale tutti i Capitolari, distinti per ore, dovessero innalzare preghiere a Dio in espiazione del commesso reato, sotto pena di scudi 10 da incorrersi da quelli che avranno mancato, e da applicarsi ad arbitrio del Vescovo.
II. Di farsi una lampada di argento di 100 oncie, all’altare maggiore della Chiesa dei Padri Predicatori, a spese dei colpevoli, che più sotto saranno nominati, dalle rendite delle partecipazioni loro spettanti, con l’iscrizione da mettersi secondo le prescrizioni, e da farsi a proprie spese come si è detto, e di costituirsi un fondo per la manutenzione perpetua di detta lampada, che arderà di giorno e di notte.
III. Nel ritorno del Vescovo, doversi nel Palazzo Episcopale domandare pubblico perdono del commesso delitto dall’intero Capitolo, e successivamente da tutti i Capitolari ad uno ad uno, e istesso doversi ripetere pubblicamente nella prima funzione pontificale del predetto Vescovo.
IV. L’Arciprete Pincerna, ed il Sacerdote Carlo Antonio Scesa, Maestro delle Cerimonie, doversi condannare per un decennio al carcere formale, da scegliersi dal Vescovo: il Sacerdote poi Leonardo Caprara al carcere, come sopra, per un triennio, ed a questo effetto doversi prima richiamare alle carceri.
V. Il Primicerio Tesse, ed il Sacerdote Giuseppe de Matteis doversi condannare questi ad un triennio, e quegli ad un quinquennio.
Roma, li 8 Febbraio 1732.
Cardinale Barberino Prefetto — G. Arcivescovo di Corinto Segretario».
La iscrizione da incidersi sulla Lampada secondo gli ordini della S. Congregazione era la seguente:
«A spese dei rei del Capitolo Cattedrale di Andria, in riparazione del divino ed episcopale onore sacrilegamente leso, la S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, il dì 8 febbraio 1732, volle che si fondesse ed ardesse perpetua-mente» [122].
Ottenuta questa sentenza, i Padri Domenicani furono premurosi di farla incidere sopra una gran lastra di marmo ed apporre in Chiesa, ad ostentazione. Ora è visibile nell’antico Oratorio della Confraternita del SS. Rosario. Per fornire poi di olio la detta lampada, mundo durante, il Capitolo assegnò ai Domenicani due casette di sua proprietà, poste nelle Grotto di S. Andrea.
Monsignor Nobilione poi, sia per questo, sia per altri fatti deplorevolissimi avvenuti in tempo del suo Episcopato, a premura di Papa Benedetto XIV, nel 20 aprile 1743, rinunziò al Vescovado di Andria, e si ritirò, con l’assegno di duc. 500 sulla mensa andriese, nel Convento di S. Domenico Maggiore di Napoli, ove nel 1758 cessò di vivere [123].
Forse alcuni animi timidi mi biasimeranno, perché io abbia risuscitato un fatto, da tanti anni omai seppellito nelle tenebre dell'obblio; ma scrivendo io non il panegirico, sibbene la storia del Convento dei Domenicani di Andria, so che prima legge della storia, secondo Cicerone, si è di non dire alcuna falsità, né di tacere alcuna verità: Primam esse historiæ legem, ne quid falsi dicere audeat; deinde ne quid veri non audeat. Altri forse grideranno allo scandalo; ma io con S. Gregorio Magno risponderò loro: È meglio lo scandalo, che la menzogna: Melius est ut scandalum oriatur, quam ut veritas relinquatur.
È vero, i rei facevano parte del Capitolo Cattedrale, a cui io mi onoro di appartenere; ma questa volta hanno avuto torto essi, e bisogna darglielo. La loro fu senza dubbio una aberrazione lagrimevole, fu una vertigine che li trascinò a tale e tanto detestabile eccesso, e che pagarono a troppo caro prezzo; ma al di sopra di ogni relazione di amicizia bisogna mettere la verità, come dice il medesimo Tullio: Amicus Cæsar, amicus Plato, sed magic amica veritas!
NOTE
[121] Alla S. Congreg. dei Vesc. e Regol. il signor Toppi, Andrien Processionis. Per il Rev.do Promot. Fiscale della Curia Vesc. di Andria e suoi aderenti contro il Capitolo e Capitolari della Cattedrale di Andria. Fatto ex Typis Leone Mainardi 1732 (Arch. della Coll. Ins. di S. Nicola in Andria. Scritture sull’Unico Parroco, etc.).
[123] D’URSO, Storia d’Andria, lib. VII, cap. XIII, pag. 162.

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XVII. - II Convento soggetto a varie imposizioni fiscali.

Il Convento di S. Domenico, come tutti gli Istituti Religiosi d’allora, andò soggetto a varie imposizioni. Nel 1780, dietro ordini Reali, spediva alla Regia Camera del Tribunale di Trani la rivela delle sue rendite annuali per essere assoggettato alla tassa della contribuzione per la formazione e per la rifazione delle nuove strade regie, come si rileva da una conclusione capitolare, tenuta dai Frati, il giorno 16 ottobre 1780 [124].
In un’altra conclusione poi del 31 gennaio 1782, si dice che la tassa imposta a questo Convento fu di duc. 40 annui [125].
In sulla fine di maggio 1795, la Regia Delegazione Normale di Napoli, per organo della Suddelegazione dello stesso ramo di Trani, comunicò oralmente al Vicario di S. Domenico, Fra Giovanni Caprile, che il Convento dovesse offerire spontaneamente una qualche somma per contribuzione ai fondi dell’Uniforme Educazione, che pretendevasi stabilire in Andria. Il Convento a tal uopo credè di fare la volontaria offerta di ducati 40 annui, la quale offerta passata in documento legale, per mezzo del Padre Maestro Candelli, fu presentata al Commissario il signor Fiscale D. Giuseppe D’Urso, il quale ben volentieri accettò. Se non che nel mese di giugno il P. Maestro Candelli scrisse che la detta Suddelegazione di Trani, non solo non restava contenta della offerta, ma pretendea che si elevasse alla cifra di ducati 150 l’anno. Per la qual cosa, ai 10 giugno del medesimo anno, ai Frati capitolarmente adunati, il Vicario Caprile faceva intendere come una tale erogazione annuale fosse superiore allo stato ed alle attuali finanze di questo Convento, gravato abbastanza da pesi regii e civici, non meno che dalla numerosa famiglia, che manteneva, e dalle abbondanti elemosine che somministrava ai cittadini bisognosi. Quindi proponeva ai Padri d’incaricare in Napoli il loro avvocato, onde ottenere dalla Regia Delegazione e dal Re l’esenzione totale di questo peso [126]. Se il Convento abbia ottenuta tale esenzione, è ignoto.
NOTE
[124] Liber Consiliorum etc, p. 71.
[125] Liber Consiliorum etc, p. 79 t.
[126] Liber Consiliorum ecc., p. 110 t., p. 111.

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XVIII. - Quistioni di precedenza nelle processioni.

Fra i Padri Domenicani e gli Agostiniani essendo nel 1782 insorto un litigio circa la precedenza nelle processioni e nelle pubbliche funzioni, la questione fu portata in Napoli innanzi al Real Trono. Il signor Carlo de Marco all’uopo comunicò al Preside di Trani, Giovanni Sanchez, il seguente Real Dispaccio del 12 ottobre 1782, e questi alla sua volta all’Illustrissimo Monsignor Vescovo di Andria, D. Saverio Palica. Il dispaccio era del seguente tenore:
«Ill.mo e Rev.mo Signore e P.ne Coll.mo. Colla posta ultima mi è pervenuta Real Carta del tenore seguente: Il Re per decidere la controversia insorta tra i Domenicani o gli Agostiniani sul punto della precedenza nelle processioni e nelle altre pubbliche funzioni, non ha stimato di entrare nella discussione delle incerte, equivoche ed intricate quistioni promosse vicendevolmente dagli uni e contradette dagli altri.
Ha bensì chiaramente rilevato che l’Ordine dei Domenicani fu approvato e confirmato nel 1216 con Bolla di Onorio III, e quello degli Agostiniani nel 1256, vale a dire 40 anni dopo, con Bolla di Alessandro IV, il quale per togliere la confusione, che era in quel tempo tra gli Eremitani ed Agostiniani passò ad unirgli in un sol corpo, e sotto uno stesso capo. Onde la M. S. attenendosi alla regola altre volte stabilita che la precedenza regolar si dovesse dall’anteriorità della solenne approvazione, o sia conferma che la Chiesa abbia fatto di ciascun Monastico Istituto, ha risoluto che i Domenicani nel Regno precedano agli Agostiniani nelle processioni e nelle altre pubbliche funzioni. Nel Regio nome, ecc. » [127].
Con questo Regio Dispaccio ebbe termine la questione della precedenza tra i Domenicani e gli Agostiniani.
NOTE
[127] Liber Consiliorum ecc., p. 110 t., p. 111.

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XIX. - Ordini di spedire alla Regia Zecca gli argenti dei PP. Domenicani.

Nell’anno 1794 Re Ferdinando IV, vedendo omai esausto l’erario dello Stato, pensò rivolgersi ai Capitoli, ai luoghi pii ed alle Comunità Religiose del Regno, e di insinuare loro che tutti gli argenti sacri inutili ed inservibili delle Chiese li spedissero alla Regia Zecca in Napoli, per batterne moneta, compromettendosi di dare loro annuo censo del 4%.
Tale ordine essendo stato comunicato al Convento di S. Domenico di Andria, il P. Lettore Fra Giovanni Caprile, che allora fungeva da Vicario, il 29 agosto 1794, notificò ai Padri capitolarmente adunati tale decreto, e propose di
«chiedere a nome di tutti il sovrano oracolo su quali argenti cader dovesse la spedizione, e contemporaneamente implorare dal real trono che gli accordasse di dare il valsente di quella lampada (qualora vi sarebbe ordine di rimetterla alla regia zecca) che nel peso di oncie 100 pendeva avanti al SS. Sacramento, in esecuzione di un decreto di Roma, corroborato di reale assenso, fin dall’anno 1732, in pena del sacrilego attentato, commesso da taluni ecclesiastici di questa città, contro il Vescovo di quel tempo, monsignor Nobilione, nell’atto che portava in processione Gesù in Sacramento» [128].
Frattanto il Convento spedì alla Regia Zecca il primo argento in una verga del peso di libre 5 ed oncie 7 ⅝, che fu valutata ducati 75.10, secondo atto pubblico fatto in Napoli, ai 23 decembre 1794, per Notar Angelo Scala di detta città.
Tomaso Sanseverino, Principe di Bisignano, il Cav. D. Giuseppe Pignone ed il signor D. Francesco Migliorini, deputati eletti dal Re per la ricezione degli argenti delle Chiese e luoghi Pii di tutto il Regno, in nome e per parte del pubblico Banco Nazionale, assegnarono al Convento di S. Domenico, a titolo di annuo censo redimibile quandochessia, la somma di ducati 3 annui, franchi e liberi da qualunque peso, pagabili da detto Banco ogni quadrimestre, che cominciava a decorrere dal dì 29 ottobre 1794, giorno in cui il Presidente della Regia Zecca spedì il certificato della ricezione e del valore di detti argenti. A patto però ed a condizione, che il detto capitale di duc. 75.10 non potesse in alcun modo alienarsi; anzi in tempo dell’affrancazione dovevasi tutto convertire nella compra di tanti argenti per uso della medesima Chiesa di S. Domenico [129].
Ai 15 novembre dell’istesso anno il Vicario Fra Giovanni Caprile faceva intendere ai Padri Domenicani, capitolarmente adunati, se stante la terza insinuazione fatta dal Re di rimettere nella Regia Zecca gli argenti inutili ed inservibili della loro Chiesa, e stante ancora la risposta non data alla supplica enunciata nell’antecedente Capitolo circa la lampada, che pendeva avanti il SS. Sacramento, si dovesse anche questa mandare con gli argenti. I Padri risposero che si mandasse tutto l’argento, ad eccezione della sopraddetta lampada [130].
Questa seconda spedizione dell’argento, fatta dal Convento di S. Domenico alla Regia Zecca, si trova segnata ai 14 ottobre 1796, come si rileva dallo Istrumento del 23 novembre di quell’anno, rogato in Napoli dal Notar Vincenzo Portanova dell’istessa città.
L’ill.mo signor Gregorio Bisogni, ministro specialmente delegato dal Re, in nome e parte della Regia Corte e sua Real Azienda, vendeva, alienava e cedeva a beneficio del Convento di S. Domenico in Andria, col patto di ricomprarla quandochessia, riserbato a detta Regia Corte, la somma di duc. 358.18, capitale effettivo, pel quale corrispondeva l’annuo censo di duc. 17 e grana 90 al 5% sui precipui introiti dell’arrendamento delle uova e dei capretti, da pagarsi dai 14 ottobre del 1796 fino a che non ne seguisse affrancazione. Questi duc. 358.18 erano per prezzo e valore di due verghe di argento immesse nella Regia Zecca di Napoli, nel suddetto dì 14 ottobre 1796, del peso di libre 26, ed oncie 6 4/8 per parte del Convento di S. Domenico. Il suddetto capitale veniva intestato a beneficio del Monistero e descritto sui Libri del Real Patrimonio; e quando ne seguirebbe la ricompra, doveva farsi il deposito di detta somma in uno dei Banchi Pubblici di Napoli, e rimanere ivi fino a che non si facesse un’altra compra, come denaro divenuto capitale di esso Convento [131].
NOTE
[128] Liber Consiliorum ecc., p. 105 t.
[129] Teatro ecc., p. 100.
[130] Liber Consiliorum ecc., p. 106.
[131] Teatro ecc., p. 100.

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XX. - Il Convento indebitato.

Il 20 aprile 1796 il Priore di S. Domenico, Fra Giovanni Caprile, esponeva ai Frati radunati in Capitolo come pel rovescio sofferto da più anni non meno nell’industria degli animali, che nel ricolto del grano e delle biade, il Convento trovavasi gravato dei seguenti debiti, cioè: al signor D. Filippo Minutillo di Gravina doveva ducati 700: al signor Nicola Ceci di Andria ducati 300: al signor D. Michele Patroni di Corato duc. 500: al signor D. Tommaso Cantore Marziani di Andria duc. 600: finalmente al magnifico Giuseppe Riccardo Campanale di Andria ducati 850. A dir breve, il Convento aveva un debito di duc. 2950. E poiché anche in quel medesimo anno era venuto meno lo sperato ricolto del grano; il Convento anziché potersi sdebitare delle sopraddette cambiali, in buona parte maturate, si vedeva inabilitato a tirare innanzi le industrie, dalle quali ripeteva l’intiera rendita, e conseguentemente il mantenimento della numerosa famiglia, che lo componea. Laonde propose ai Padri che per estinguere questi debiti e per tirare innanzi le loro industrie fosse necessario prendere a censo redimibile quandochessia duc. 4000.
I Padri, vedendo la ragionevolezza della proposta, dettero a tal uopo la facoltà al loro Procuratore in Napoli per ottenere Expedit ed il regio assenso [132]. Infatti ai 18 ottobre 1796, come da pubblico istrumento, rogato dal Notar Saverio Cervone di Giovinazzo, il Convento, con l’essegno della Real Camera di S. Chiara, in data 26 settembre del medesimo anno, prese a censo passivo al 5% redimibile quandochessia, la somma di duc. 3000 dal signor D. Francesco Siciliani di Giovinazzo. Questo capitale venne affrancato ai 24 ottobre 1797 [133].
Tre mesi dopo, cioè agli 11 luglio 1796, il Convento di S. Domenico era in grado d’impiegare con la Regia Corte duc. 502. 66; ed il signor D. Gregorio Bisogni, deputato dal Re per l’alienazione di annui duc. 40,000 dei precipui frutti degli arrendamenti della Regia Corte pel corrispondente capitale di un milione al 4%, in nome e parte di detta Regia Corte e sua Reale Azienda, vendeva, cedeva e rinunziava a beneficio del Convento di S. Domenico annui duc. 20 e grana 10, in burgensatico sulli precipui dell’arrendamento dei sali dell’Abruzzo, pel capitale di duc. 502.66, alla ragione del 4%, col patto riserbato alla Regia Corte di poterli ricomprare dopo 20 anni dall’impiego suddetto, cioè non prima del 1816.
La predetta somma era pervenuta al Convento dalle vendite fatte al signor D. Nicola Ceci, per mano di Notar D. Leonardo Frisardi, il dì 2 giugno 1796, col permesso del Caporuota Bisogni, di una casa al Pennino, confinante col coro della Chiesa di S. Domenico: di un vignale e pochi ordini di terra nella contrada detta San Mauro, e dall’affrancazione di un censo perpetuo di grana 10, fatta dal medesimo Ceci, il quale invece di ducati 802. 66, restando da dare al Convento altri duc. 300, che si obbligò sborsarli nello spazio di tre anni, e di pagare frattanto al Convento duc. 12 annui. La predetta somma, impiegata colla Regia Corte, fu intestata al Convento di S. Domenico di Andria per ordine del medesimo Caporuota, in data del 27 agosto 1796 [134].
NOTE
[132] Liber Consiliorum ecc., p. 113.
[133] Teatro ecc., p. 5.
[134] Teatro ecc., p. 50.

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XXI. - I Domenicani ed i Repubblicani francesi.

Correva anno 1798 ed il Reame di Napoli era invaso dalle truppe dei repubblicani francesi, dagli uni detestati come atei ed assassini dei preti e d’ogni innocente, dagli altri decantati come portatori di libertà, di eguaglianza e di fraternità. Re Ferdinando IV in fretta ed in furia ordinò una coscrizione militare per la difesa dello Stato; ed il Cavaliere Michele Pucce Molton il 24 aprile spedì da Trani alla Curia Vescovile di Andria un dispaccio della Real Segreteria di Guerra, con cui ai Capitoli ed alle Comunità religiose s’imponeva di «mandare nell’esercito regio i soggetti di loro più prossima dipendenza» [135].
Il giorno 10 luglio 1798 il Priore di S. Domenico, Fra Giovanni Caprile, in seguito dei sovrani comandi di farsi cioè ai Terziarii Guardiani e dipendenti tutti delle Comunità religiose una efficace ed energica insinuazione di esibirsi pronti per le reclute in servizio del Sovrano e dello Stato; radunati i Frati in capitolo, fece tale insinuazione al giovine Terziario Fra Giuseppe Prudente. Ma questi, anziché mostrarsene compiacente, gli rispose burbanzoso essere egli venuto nel Convento di S. Domenico per farsi monaco, non soldato, e se di vantaggio fosse urtato, essere pronto piuttosto a deporre abito. A tale risoluta risposta il Priore, considerando che «Non può darsi un vero spirito di religione, senza un verace attaccamento allo Stato, opinò di non doversi man-tenere nella prima chi ricusava d’impiegarsi in servizio del secondo» [136]. E mandò via dal Convento il Terziario.
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*      *
I repubblicani francesi ogni giorno più si avanzavano nel Regno, ed ai 5 febbraio 1779, nel largo della Corte, il primo Eletto D. Riccardo Acquaviva, in assenza del Sindaco, radunò tutti i capi di famiglia, per la formazione della Guardia Civica, che doveva difendere Andria. Tra gli altri intervennero i seguenti individui:
  • dalla Cattedrale il Primicerio D. Giuseppe Canonico Brudaglio: il Priore D. Riccardo Accetta: il Canonico D. Francesco Saverio Vallera: il Canonico D. Domenico Friuli, ed il Canonico D. Riccardo Mininno.
  • Da S. Nicola: il Canonico D. Michele Cantore Marziani: il Canonico D. Nicola Nuzzi, ed il Mansionario D. Riccardo Friuli.
  • Dall’Annunziata: II Priore Don Francesco Laborea e D. Oronzo Grieco.
  • Dal Convento di S. Francesco: Il P. Guardiano Fra Gregorio Lavista ed il P. Fra Pasquale Palombella.
  • Da S. Agostino: il P. Maestro Regano.
  • Dal Carmine: il P. Alberto Marziani, sotto Priore, ed il P. Giuseppe Laginestra.
  • Dagli Osservanti: il P. Diffinitore Fra Giovanni Ceci ed il P. Lettore Fra Nicola da Mola.
  • Finalmente dal Convento di S. Domenico il P. Lettore Fra Giovanni Caprile, Priore.
Tutti questi, uniti coi capi di famiglia, formarono la Guardia Civica ed elessero i seguenti Capi: D. Tommasino Accetta, D. Francesco Paolo de Ferdinando, Don Ignazio de Addati, D. Biagio Griffi, D. Antonio Sinisi seniore, D. Ignazio Pincerna, D. Diego Vespa, D. Riccardo Tommaso Mita, D. Riccardo Onesti e D. Emanuele Jeva [137].
Intanto nel marzo 1799, di giorno in giorno sempre più crescevano i rumori che i Repubblicani erano prossimi ad avvicinarsi ad Andria; ed i Sanfedisti, o per dir meglio la plebaglia sguinzagliata correva fanatica di notte tempo all’abazia di Santa Maria dei Miracoli d’Andria, e di là, armata mano, trascinava in città tutti quei Frati, e li chiudeva nel Convento dei Padri Domenicani, ove, insieme a questi, ai religiosi degli altri Ordini e a non pochi gentiluomini, li sottoponeva a pagare grosse taglie, col pretesto di dovere alimentare gran numero di Tranesi venuti in aiuto di Andria, non che dugento e più giovani armati di Gioia, spediti dal finto Francesco principe ereditario di Napoli, un certo Corbara, un vagabondo, e dal Duca di Sassonia, l’avventuriere de Cesare.
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*      *
Nel terribile eccidio del 23 marzo del medesimo anno, tra i 687 uccisi Andriesi, che per altro fecero in quel giorno prodigi di valore, mentre ogni casa era un castello; nessun Domenicano restò vittima del furore Francese. La Chiesa però ed il Convento, come tutte le altre Chiese e gli altri conventi della città, furono senza modo e misura da quegli avari ladroni depredati. Non so poi se fortunatamente scampassero dall’incendio, mentre il Can.co D. Vin-cenzo Frascolla nella sua monografia manoscritta intorno agli Avvenimenti funesti della citta di Andria, nel 1799, scriveva: «Il Gallicano General Comandante ordinò che in ogni casa e Convento, in ogni monistero e Chiesa attaccato si fosse fuoco inestinguibile» [138].
Il 30 marzo, ad ore 20 in circa, un ufficiale Francese si porta improvvisamente nel Convento di S. Domenico ed ordina a tutti i ministri della municipalità, cioè al Dottor Fisico Giuseppe Vincenzo Cannone, ai Signori Vincenzo Tedesco, Giuseppe Sinisi, a D. Nicola Fasoli, a D. Em-manuele Spagnoletti, al Priore D. Riccardo Accetta, ed al Canonico D. Vincenzo Frascolla, che sotto pena del rigore militare, si portassero immantinente nel detto Convento, perché doveva comunicar loro un affare di somma importanza. Tremanti vi accorsero, e quando tutti furono alla presenza dell’ufficiale, questi con fiero cipiglio, mettendo la sinistra mano sulla scimitarra, piantata con la punta in terra, divampante d’ira, con minacciosissimi accenti intima loro che in ventiquattro ore o gli conse-gnassero 5000 ducati, o sottoporrebbe Andria ad un nuovo eccidio! A tali minaccevoli accenti i Padri Domenicani che erano presenti, un dopo l’altro, fuggirono spaventati, lasciando i poveri Municipalisti in balia di quella jena furibonda ed assetata delle ultime stille di sangue, che scorreva nelle vene degli infelici Andriesi! Finalmente dopo due ore, nulla affatto commosso dalle lagrime e dai sospiri di quei miseri, se ne partì minacciando ferro e fuoco ad Andria sventurata [139]. Fortunatamente non tornò.
NOTE
[135] Curia Episcopale di Andria.
[136] Liber Consiliorum ecc., p. 119.
[137] «I. Libro in cui si notano tutti i Parlamenti», ecc., p. 70 e 72 (Archivio Comunale di Andria).
[139] Canonico V. FRASCOLLA, Avvenimenti funesti della città di Andria nel 1799, p. 49.
[139] Canonico V. FRASCOLLA, Avvenimenti funesti ecc., p. 11, 16.

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XXII. - Ordine di Re Ferdinando IV circa le Fedi di Credito
ed il Convento di S. Domenico di Andria.

Per tutti gl’infausti avvenimenti del 1799 l’erario dello Stato era rimasto esausto, ed il Re Ferdinando IV per far danari, l’8 maggio 1800, emanò un decreto, con cui ordinava che i possessori di Fedi di Credito e di altre Carte Bancali, fra lo spazio di quattro mesi, dovessero rimetterle in Napoli ed esibirle alla Giunta, per impiegarle colla Regia Corte, secondo il loro valore nominate al 3%.
Il Convento di S. Domenico aveva allora, nella sua cassa di deposito, ducati 969 e grana 99, in tante carte bancali; cioè ducati 240, prezzo d’una casa venduta, il dì 25 marzo 1795, con le debite licenze, a Giuseppe Domenico di Staso: duc. 100, capitale estinto, li 5 dicembre 1796, da Giovanni Maria Porzio, quale delegatario di Nicola di Tursi: ducati 30, capitale affrancato, ai 30 settembre 1797, da Francesco Paolo Jeva, come delegatario di Giuseppe Civita: duc. 300, residuo del prezzo della casa venduta, il dì due giugno 1796, al magnifico D. Nicola Ceci, e dal medesimo affrancato in gennaio 1797: finalmente duc. 29, 40, capitale affrancato ai 12 gennaio 1799 da mastro Domenico Cocco fu Michele. Il restante della somma in duc. 270, 59 era pervenuta dai frutti del Convento. Per tale somma, ai 4 settembre 1800 il Convento ottenne dalla Giunta in Napoli il seguente ricevo:
«1245. Numero mille duecento quarantacinque. Reg. a folio 63. Certifica la Giunta eretta da S. M. (D. G.) per la esecuzione dell’Editto del dì 8 maggio 1800 circa le Carte Bancarie, dal Monistero di S. Domenico di Andria è stata esibita una Fede dei 3 settembre 1800 del Banco Popolo della somma di duc. Novecento sessantanove e grana novantanove, che ha dichiarato voler impiegare colla Regia Corte con assegnamento sulla decima, che paga la Percettoria di Bari. — Grassillo. — Napoli 114 settembre 1800».
In forza di pubblico istrumento, rogato in Napoli per mano di Notar Vincenzo Portanova, il giorno 8 maggio 1802, e con lettera d’ufficio, diretta a dì 8 luglio 1802 al Tesoriere di Bari, furono assegnati per la più facile esazione sopra la Decima Burgensatica, che si corrispondeva dalla Tesoreria di Bari, annui duc. 29, 09, franchi da qualsivoglia peso, anche di decima, fino a che non seguirebbe affranco di detto capitale, nel qual caso la intera somma dovevasi impiegare in altra somma, come capitale del Convento [140].
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I bisogni del Regno crescevano ognora ed. il Re studiava nuovi mezzi per far danaro, obbligando a preferenza gli Ordini Religiosi a contribuire a tanto bisogno. Quindi ai 17 gennaio 1801, dal Priore del Convento di S. Domenico di Andria, Fra Giovanni Caprile, ai Padri capitolarmente congregati si faceva la seguente proposta:
“In seguito di Real Carta, in data di settembre del decorso 1800, essendosi S. M. (D. G.) benignato ordinare che si esponessero in vendita alcuni fondi dei Monasteri soppressi, della valuta di un mezzo milione, Ill.mo e Rev.mo Monsignor Torrusio, attuale General Vicario di Napoli, passò energica insinuazione al molto Reverendo P. Maestro de Angelis Caruso, Provinciale attuale di questa nostra Provincia Monastica, e da costui ai Superiori dei Conventi di sua pertinenza. La necessità di menar la vita e di adempire ad altri pesi Fiscali e Civici, non che la generale mancanza del numerario effettivo, e la difficoltà di contrarre debiti, non permisero a tal operazione un felice successo.
Quindi per togliere ogn’altra difficoltà progettossi dal nostro Augusto Sovrano (D. G.) di potersi, nel presente caso di bisogno dello Stato, permettersi ai Monasteri e Luoghi pii, il procedere alla contrazione del corrispondente debito, o alla vendita di qualche fondo, senza la solennità del Regio Assenso, o Decreto di espedienza, bastando solo la condizione di doversi pagare il danaro a beneficio del Regio Erario, e farne l’effettiva versione all’uso prescritto.
Il Re nostro Signore con altra Real Carta, in data dei 20 ottobre decorso 1800, ed in conformità di quanto gli fu umiliato con parere, devenne ad ordinare quanto siegue:
«Ill.mo e Rev.mo Signore, avendo S. M. stabilito che per supplire agli attuali bisogni del Real Erario si proceda alla vendita di mezzo milione di beni dei Monasteri soppressi, col mezzo di una Compagnia, composta di 500 Caratari, ed essendo a ciò lodevolmente concorsi molti Monasteri e Luoghi pii; la M. S. acciò i medesimi non soffrano il menomo dispendio, ordina per regola generale, che pel caso presente possano procedere alla contrazione del corrispondente debito, o alla vendita di qualche fondo, senza la solennità del Regio Assenso, o del Decreto di espedienza bastando solo la condizione di doversi il danaro pagare a beneficio dell’Erario medesimo, e effettiva versione del danaro all’uso prescritto.
S. M. dispensa a quest’effetto nella forma più ampia e più solenne a tutte le leggi, ed a tutti gli stabilimenti in contrario, i quali però vuole che abbiano il loro vigore ed osservanza per ogn’altro caso, eccettuato il presente, esigendo così il bisogno e le circostanze dello Stato. La Real Segreteria di Stato, ed Azienda lo partecipa di suo Real Ordine a V. S. Ill.ma per sua intelligenza.
Palazzo a 20 ottobre 1800.
Ill.mo e Reverendissimo Signore Monsignor Torrusio — Giuseppe Zurlo».
Un tal Sovrano permesso siccome ha contribuito a far concorrere li Conventi tutti del nostro Ordine, sistente nel Regno alla compera dei suddivisati fondi per 30 Carati, val quanto dire per duc. 30,000; cosi previa insinuazione dell’enunciato Monsignor Torrusio, il P. Maestro Fra Giovanni Andriani, attual Provinciale di questa nostra Provincia, non ha difficultato accettare per l’effetto surreferito il ratizzo di ducati 10,000, da ripartirsi da lui secondo la possibilità dei rispettivi Conventi di sua pertinenza. In effetto con suo circolar foglio, pervenuto a noi per organo del molto Rev.do P. Maestro Campanella, attuale Vicario della Provincia di Bari, è stato questo nostro Convento tassato a concorrere come sopra la rata di duc. 300.
Per tale adempimento sanno le PP. VV. quale difficoltà producesse nella contrazione di debito l’attuale scarsezza del contante nel Regno. Sanno molto bene la necessità che assiste al divisato Convento, di tirare avanti la Industria, e di adempiere ad altri pesi generali, e civici. Sanno del pari la circolazione mancata a circa duc. 1000, sistenti in Cassa in tante Carte Bancali, ed im-piegate colla Regia Corte: ostano questi motivi a poter staccare dai frutti del medesimo Convento la su accennata somma di ducati 300; e perciò stante il Sovrano permesso di potersi per l’effetto alienare qualche fondo di corri-spondente somma in valuta; essendosi dai periti stimata per duc. 372 la quinta casa nuova, che possiede lo stesso Convento a S. Andrea, oggi abitata da Nicola Porcelli, per annui ducati 13, ed essendo esso Porcelli devenuto a farne compera, colla condizione che nell’atto dell’Istrumento di compera dovrà sborsare in contante duc. 300, formandosi dalli duc. 72 di resta un capitale ipotecato sulla casa medesima, per lo quale corrisponderà annuo canone al 5%; propongo perciò alle PP. VV. da risolvere se debba eseguirsi la cennata vendita nel modo prescritto, per indi pagarsi il risultato in contante a beneficio dell’Erario Regio per organo del P. Maestro Provinciale Fra Giovanni Andriani, giusta il prescritto da costui: e da tutti fu risposto affermativamente, ut infra dandosi a tal effetto la facoltà al P. Maestro ex Regente Fra Vincenzo Tedeschi di poter intervenire alla scrittura formanda nomine Conventus ecc.” [141].
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Per tutte queste contribuzioni forzate, e per altre ancora, le finanze del Convento di S. Domenico andavano ogni dì più di male in peggio. Una nuova invasione di Francesi era avvenuta nel Regno, ai 14 febbraio 1806, condotti da Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone I; ed il dì 20 ottobre 1806 il P. Lettore Fra Vincenzo Amatulli, Vicario in Capite di questo Convento, era costretto a lamentare in tal modo dinanzi ai Padri capitolarmente adunati lo stato finanziario del Monistero:
«Al vuoto che soffre questo nostro Convento per li disastri del passato anno, si unisce oggi il ristagno dell’industria per l’incaglio del commercio. Per l’opposto si aumentano di giorno in giorno li pesi fiscali e civici in corrispondenza dei bisogni dello Stato; e il maggiore di questi risulta dalla necessità di trattare a spese del cennato nostro Convento li diversi Ufficiali acquartierati ed anche infermi, destinati dal Governo per l’alloggio» [142].
Ai 3 settembre 1807, il medesimo Priore ripeteva ai Padri l’istessa elegia dicendo loro:
«Gli esiti cresciuti a causa dei fissi alloggi e dei pesi fiscali e civici, come le mancate rendite sopra le partite degli Arrendamenti, Tesoreria di Bari, Legato pio, di questa Eccellentissima casa d’Andria, e dritto proibitivo di pescare nei nostri mari di Barletta, hanno disquilibrata a segno economia di questo nostro Convento, che si rende assolutamente impossibilitato portare avanti anche una parte dell’intiera semina, rimarcata sulla nostra Masseria di Campo. Devenuti quindi Savino Troia e Giuseppe Riccardo Campanile a seminare a proprio conto per anni 5, terminandi nel dì 14 agosto dell’anno 1812, sopra le versure 28 che formano le rimanenti versure 13 di Concadoro, le 5 del Canale, e le 10 che guardano il Canale di Montegrosso, ed obbligandosi essi non solo di pagare annui duc. 175, alla ragione di doc. 125 per carro, ma di pagare benanche li beneficii esistenti sopra una porzione delle divisate versure 28, e di prepararle alla prossima semina coll’animali ed annaroli dell’istesso Convento per quest’anno solamente; opino non doversi tra la tortura dell’attuale avvilimento del commercio da una parte e del disordine della nostra economia dall’altra, tralasciare occasione cotanto vantaggiosa».
Al che i Padri ben volentieri assentirono [143].
NOTE
[140] Teatro ecc., p. 94.
[141] Liber Consiliorum etc., p. 173-174.
[142] Liber Consiliorum etc., p. 131.
[143] Liber Consiliorum ecc., p. 134

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XXIII. - Varii Domenicani nominati maestri di scuola in Andria.

Il 29 agosto 1807, da Napoli il Consigliere di Stato e Ministro del Culto, il Commendatore Pignatelli scriveva al Vescovo di Andria, Monsignor D. Salvatore Maria Lombardi, come, volendo Sua Maestà che in ogni città si aprissero pubbliche scuole per la istruzione della gioventù, ed essendosi offerto in Andria a tal uopo come maestro di leggere, di scrivere, di aritmetica e catechismo Fra Vincenzo Amatulli, religioso del Convento di S. Domenico, e per istruttore di Agraria, Veterinaria e Pastorizia il reggente Fra Giovanni Caprile; voleva che si fosse informato dai superiori se i nominati Religiosi, senza disturbo della Comunità, potessero impiegarsi alle pubbliche scuole, alle quali si erano offerti. Questi godrebbero della esenzione dal Coro, e di una graduazione, che dagli stessi Superiori il Vescovo si farebbe additare.
Monsignor Lombardi, in data del 21 settembre, rispose al Ministro del Culto, che fra questi Domenicani il Padre Amatulli poteva bene impiegarsi alla pubblica istruzione, accordandogli la graduazione, con le annesse onorificenze, di Ex Maestro di Novizj. Invece poi del P. Reggente Caprile, impiegato a sentire le Confessioni, e a disimpegnare tutte le altre funzioni della propria Chiesa, potrebbe adibirsi il P. Lettore Fra Tomaso Greco, che leggeva filosofia e matematica in questo Seminario, e sarebbe capacissimo per tutti i rami dell’Agraria, e meriterebbe la graduazione di Reggente [144].
NOTE
[144] Curia Episcopale di Andria.

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XXIV. - Soppressione dei Domenicani.

Giuseppe Bonaparte dopo di avere per due anni dominato in Napoli, venne mandato Re in Ispagna da Napoleone I, che invece di lui spedì in Napoli il Generale Gioacchino Murat, il quale vi prese possesso, il 6 settembre 1808.
Assisosi costui sul trono delle Due Sicilie, ai di cui popoli prometteva felicità e grandezza, mutò interamente ordine del governo e della pubblica amministrazione. Impose nuove tasse: soggettò tutti i beni di qualunque natura ad una imposizione denominata fondiaria: e tutte le arti e tutti i mestieri a varie tasse da pagarsi mensilmente. Aprì nuove strade, ed obbilgò tutti i corpi morali a contribuire alle spese. Il Monistero di S. Domenico di Andria doveva pagare duc. 40 in ogni anno.
Intanto i Conventi non ancora soppressi venivano spesso spesso minacciati dai Giacobini, che con occhi di lince ne spiavano tutti i movimenti, sempre in nome della libertà, della eguaglianza e della fraternità!
Un bel giorno al Priore dei Domenicani, P. Giovanni Caprile, si presentò il signor Paolo Martignano il piccolo, e per commissione avuta dal Decurionato e dal Governo, gl’intimò che cessasse di conferire la sera con Aggiutorio, se non voleva vedere spiantato il Convento di S. Domenico! La quale minaccia quanto allarme producesse in quella Comunità, non è a dire! [145]. Raffaele Aggiutorio fu Rocco era in Andria un antico Massone, e primo Assistente e Gran Maestro dei Carbonari prima del Nonimestre [146].
Finalmente nel 1809 Murat abolì tutti gli Ordini Religiosi possidenti, in numero di 213 tra Conventi di Frati e di Monache, ed i loro beni dichiarò beni di manomorta; mentre avrebbe dovuto dirli di mano immortale, come quella che aveva dato la vita alle creazioni più durevoli e più feconde del genio cristiano! Questi beni donò ai nuovi Ministri, che aveva stabiliti, ai Generali dell’armata, ed a quanti avevano mostrato zelo maggiore nel sostenere il nuovo governo.
Fu in quest’epoca, e propriamente verso la fine di settembre, che il Convento di S. Domenico di Andria venne ancor egli soppresso! I Commissarii di tale soppressione furono i signori Felice Brunetti, Giuseppe Vincenzo Cannone, Carlantonio d’Urso e Vincenzo Marchio, i quali si fecero esibire dai Frati tutti i registri degli introiti e degli esiti, non che gli ultimi libri delle Conclusioni capitolari, che depositarono di poi presso la Curia Episcopale di Andria. Sequestrarono quanto si trovava di provviste per la Comunità, e suggellarono le porte dei magazzeni.
I beni prodigamente donati a Ministri e Generali Francesi, furono in Napoli venduti e comprati da varii proprietari di Andria. In tempo della soppressione il Convento era abitato dai seguenti Frati, cioè dal Priore P. Fra Vincenzo Amatulli, dal P. Fra Giambattista Niccolò Palena, dal P. Lettore Fra Michele Laudati, dal P. Lettore Fra Benedetto Deserio, dal P. Lettore Fra Raffaello Noja, e dal P. Lettore Fra Tommaso Greco.
Dopo tre anni circa, cioè nel 1812, i Domenicani, che rimasero in Andria, svestirono provvisoriamente l’abito per ordine di Mons. Lombardi, il quale non volendo vederli girovagare per la città, li ascrisse ai varii Capitoli. Di poi dopo molti anni domandarono alla Santa Sede la secolarizzazione, a cui appose il regio assenso il Governo.
Di questi Padri rimase in Andria il P. Fra Tommaso Greco di Luogorotondo, che non essendo stato richiamato al Chiostro per mancanza di locale, si secolarizzò, nel 1821, dopo di aver fatto delle pratiche col Governo per il ritorno dei suoi correligionarii in Andria; e vi sarebbe riuscito, se non fosse scoppiata la rivoluzione del 1820! Dal Municipio fu eletto di poi Priore della Collegiale della SS.ma Annunziata. Restarono pure i Padri Antonio Noja, che si secolarizzò nel 1816, e fu Canonico della Collegiata di S. Nicola, e promosse efficacemente il culto del SS. Salvatore in Trimoggia: il Padre Rocco Pio Grimaldi, che depose l’abito nel medesimo anno, e fu Canonico della Cattedrale. Questo Grimaldi fu antico massone e primo assistente della Vendita andriese prima del Nonimestre [147]. E finalmente il P. Giovanni Battista Palena, che fedelmente continuò a servire la Chiesa di S. Domenico, e nel 1821, quando s’era già inaridito il fiore della speranza di ripristinarsi Ordine in questa città, domando la secolarizzazione [148].
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Ai 15 decembre 1811, il Municipio di Andria, assembrato nel soppresso Convento di S. Francesco, sotto la presidenza del Sindaco D. Emanuele Spagnoletti, propose di farsi domanda formale a Sua Maestà per la cessione gratuita del locale del Convento dei soppressi Padri Domenicani, per ivi formarsi il Carcere correziozionale della Giustizia di Pace, ai termini delle sovrane disposizioni ed istruzioni, per lo stabilimento delle Prigioni in ogni Capoluogo. Il Sindaco ed il Decurionato giudicarono più opportuno all’uopo il Convento di S. Francesco, ove da più tempo si trovavano già stabiliti la Sala Decurionale, la Segreteria e Archivio Comunale [149]. Ed invece del Chiostro di S. Domenico fu convertito in carcere quello di S. Francesco. Ah ! e troppo vero quello che scriveva il signor De Maistre «Bisognerà fabbricare dei bagni con le rovine dei Conventi, che saranno distrutti!» [150].
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Nel 1815 avvenuta la restaurazione Borbonica, risalito sul trono di Napoli Re Ferdinando, e ridonata la pace al Regno; i Conventi dei soppressi Ordini Religiosi di Andria, ed un buon numero di case, non ancora vendute da Re Gioacchino Murat, furono dal Governo date in dote agli Agostiniani Scalzi di Napoli. Tra questi Conventi vi fu quello di S. Domenico.
Il gentiluomo D. Emmanuele Spagnoletti lo comprò dai Padri Agostiniani, per farne, come generalmente fu creduto, una Casa Religiosa di Padri Liguorini, lasciando a questi il suo ricco patrimonio, e forse perciò sin dal 1811 egli nel Consiglio Comunale si oppose, perché venisse adibito per uso di carcere. Ma sventuratamente lo Spagnoletti morì in Napoli ab intestato, ed i suoi eredi non sapendo, o simulando di non saperne la destinazione, lo rivendettero a minor prezzo ai medesimi Frati.
Le celle monastiche per molti e molti anni furono abitate da gente per lo più povera e scostumata. Coll’andare del tempo il Convento, non essendo stato quasi mai fatto riattare dal Notaio Michele Cristiani, amministratore di tutti i beni, che gli Agostiniani Scalzi avevano in Andria, si ridusse in pessimo stato. Di più quelle stanze essendo state vandalicamente rovistate in tutti i punti da ansiosi e da avari cercatori di tesori, perché parecchi se n’erano trovati; il povero Monistero andò di anno in anno sempre più deperendo, finché in un’orrida notte del 1891, un’acqua torrenziale prima, ed una forte nevicata di poi, lo ridussero in un mucchio lagrimevole di macerie! Alla vista di queste grandi rovine era il caso di ripetere col Conte di Montalembert:
«Quei Chiostri che servivano d’asilo così sicuro e così degno a tutte le arti, a tutte le scienze; dove tutte le miserie dell’uomo trovavano un con-forto, dove la fame trovava sempre da saziarsi, la nudità sempre da coprirsi, la ignoranza sempre di che illuminarsi, or non sono più che rovine!» [151].
Ed ora neppure queste rovine si trovano più: «Etiam periere ruinæ !!».
NOTE
[145] Curia Episcopale di Andria.
[146] G. De NINNO, Le Vendite dei Carbonari della terra di Bari, 1820-21, Andria, pag. 223. Conf. Rassegna Pugliese, vol. XIII, num. 8, febbraio 1897, Trani.
[147] G. DE NINNO, Le Vendite dei Carbonari ecc., pag. 223.
[148] Curia Episcopale di Andria.
[149] Deliberazioni del Decurionato di Andria, dal 1806 al 1813, p. 139, 140 (Archivio Comunale di Andria).
[150] MONTALEMBERT, I Monaci d’Occidente, vol. I, p. 208.
[151] I Monaci d’Occidente, vol. 1, p. 115-116.

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XXV. - Il Chiostro di S. Domenico mutato in Officina elettrica.

Fortunatamente però nel novembre del 1896 l’egregio giovane, il Cavaliere Pasquale Marchio, Sindaco di Andria, bollente di carità patria, ed il benemerito Consiglio Municipale vollero che, sul sito, ove un giorno erano accumulate le macerie del Convento di S. Domenico, si rizzasse l’elegante officina per la luce elettrica, che illuminò splendidamente Andria, la più popolosa citta di Puglia, dopo Bari. L’impresa fu assunta dal nostro valentissimo ingegnere, il giovane Nicola Labroca, il quale in fatti di meccanica è a niuno secondo.
Questa luce elettrica fu simbolo quant’altro mai bellissimo e splendidissimo della luce letteraria, scientifica e morale, che dal 1398 sino al 1809 dal Convento di S. Domenico mirabilmente si spandeva sopra Andria, e la irradiava vagamente; mentre i Chiostri, in mezzo alle città tra cui si elevarono sublimi, furono sempre fari luminosissimi di luce intellettuale, di luce d’amore, di civiltà e di verace progresso.
Il 18 luglio 1897 alla parete dell’officina, elettrica fu da me apposta la seguente epigrafe, che non rifinirà, di dire ai presenti ed agli avvenire:
QUI SULLE ROVINE
DEL CHIOSTRO DEI FRATI PREDICATORI
MURATO NEL 1398 DA SVEVA ORSINI
DUCHESSA DI ANDRIA
DAL 1809 RIMASTO IN ABBANDONO
IL SINDACO CAVALIER PASQUALE MARCHIO
I CONSIGLIERI COMUNALI
DIRETTORE NICOLA LABROCA INGEGNERE
VOLLERO QUESTA OFFICINA ELETTRICA SI COSTRUISSE
AUGURIO DI AVVENIRE MIGLIORE PER ANDRIA
CHE RICORDERÀ SEMPRE CON GIOIA
LA SERA DEL 18 LUGLIO 1897
QUANDO VIDESI LA PRIMA VOLTA
A LUCE ELETTRICA
SPLENDIDAMENTE ILLUMINATA