Donna, lo fino amore - Manfredi

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Donna, lo fino amore

Canzone del Duecento attribuita a Manfredi (1)
(Figlio di Federico II di Svevia e di Bianca Lancia)

Donna, lo fino amore
m’à tu(t)to sì compreso,
che tu(t)to son donato a voi amare;
non pò pensar lo core
altro c’amore ac(c)eso
e come meglio vi si possa dare,
E certo lo gioioso cominzare
[i]sforza l’amorosa mia natura,
ond’io mi credo assai magnificato
e’nfra gli amanti .in gran gioi coronato.

Eo porto alta corona
poi ch’eo vi son servente
a cui m’asembra alto regnar servire;
sì alta gioi mi dona
a voi stare ubidente,
pregone voi chel degnate gradire.
E vero certamente credo dire,
chè ‘nfra le donne voi siete sovrana,
d’ogni graz[i]a e di vertù compita,
per cui morir d’amor mi saria vita.

Se lingua ciascun membro
del corpo si facesse,
vostre bellezze non porian contare;
ad ogni gioi v’asembro
che dicer si potesse;
ciò avete che si puote divisare.
Molto ci à belle donne e d’alto affare,
voi soprastate come il ciel la terra,
che meglio vale aver di voi speranza,
che d’altre donne aver ferma certanza.

Ipotetiche raffigurazioni di Federico II e Manfredi sul portale della Chiesa di Porta Santa
[Ipotetiche raffigurazioni di Federico II e Manfredi sul portale della Chiesa di Porta Santa
foto Sabino Di Tommaso, 2014]

Ancor che sia gravenza
lo tormento d’amore,
ma zo c’abo d’amor m’assembra bene;
e nulla crudeleza
pote pensar lo core
che [i]n voi aveste, donna, e non s’avene.
Gioco e sollazo me sostene in pene;
sperando ca venir può la gran gioia,
meglio mi sa per voi mal sostenere,
che compimento d’altra gioia avere.

Madonna, il mio penare
per fino amor gradisco,
pensando ch’è in voi grande conoscenza;
troppo non de’ durare
l’affanno che sofrisco,
chè bon segnor non dà torta sentenza.
Compiutamente è ‘n voi tu(t)ta valenza,
[e] merito voi siete e morte e vita;
più vertudiosa siete in meritare
ch’io non posso in voi servendo amare.

NOTE

[1] Annota il prof. Carl Arnold Willemsen (1902 - 1986) commentando questa poesia:
Manfredi, il figlio che maggiormente somigliava all’imperatore e che per breve tempo fece risplendere ancora una volta nel regno meridionale l’astro della cultura sveva, inventò con l’amico Manfredi Maletta [suo zio materno], poeta al par di lui, cantilene e melodie. …
Non solo essa [canzone] è contraddistinta da una melodia e policromia preludenti i toni petrarcheschi, ma ci ricorda nel contempo, per la sua maniera cavalleresca e galante, l’immagine del re-poeta, che Dante ha delineato nel Purgatorio della sua Divina Commedia, dove rappresenta lo svevo [Manfredi] dagl’occhi di stelle, dalla pelle candida e dalle guance rosse (“biondo era bello e di gentile aspetto”) come l’immagine principesca dell’Italia.
[Commento di Carl Arnold Willemsen (trad. di Leopoldo Bibbò), estratto dalla sua conferenza “Federico Secondo e il Circolo dei suoi poeti”, del 29 marzo 1982 e tenuta in Andria in occasione dell'inaugurazione della mostra “Gli Svevi nell'Italia Meridionale”.]

In questa poesia è possibile identificare una delle prime strutture metriche della canzone in lingua italiana, composta ai suoi albori dalla cosiddetta Scuola Poetica Siciliana, sviluppatasi nella prima metà del Duecento e resa poi celebre soprattutto da Dante e Petrarca nel secolo successivo.
Ecco la struttura metrica dei versi e delle rime, rilevata nella prima delle cinque stanze: