La Chiesa Andriese negli anni 1923-30

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Si trascrive questo stralcio di relazione di Carlo Marcora, letta il 18 marzo 1977, perché ci presenta
un meraviglioso spaccato di usi e costumi degli anni Venti del Novecento della Chiesa Andriese,
così come li vide e li "curò" il vescovo del tempo mons. Alessandro Macchi.

dall'editoriale " BRUNDISII RES"
- MCMLXXVII - IX. 1
Edizione – Amici della «Annibale De Leo» - Brindisi


“UN PRELATO MILANESE IN AREA PUGLIESE: MONSIGNOR ALESSANDRO MACCHI,
VESCOVO DI ANDRIA (1923-1930)”

di Carlo Marcora
stralcio

… … …

Mons- Macchi nel 1928 - foto Aurelio Malgherini

La diocesi di Andria, suffraganea di Trani, contava quindici parrocchie, settanta chiese, centotrentotto preti e cinque sacerdoti religiosi, il tutto per una popolazione di 142.000 abitanti [10].
Quello che colpisce un estraneo al metodo pugliese (e doveva essere così anche per mons. Macchi) era il constatare che ben cinquantacinque preti erano addetti alla cattedrale: poco meno della metà del clero; come si potesse dar lavoro ministeriale ad un numero così alto di preti doveva essere difficile da capirsi; ammessa anche qualche mansione nella curia vescovile e qualche ora d'insegnamento nel seminario ginnasiale, rimaneva sempre molto margine di tempo da impiegare, tanto più che anche presso le parrocchie non apparivano iniziative di carattere culturale, sociale ed assistenziale.

Secondo una testimonianza orale, confidata anni dopo la partenza da Andria, il capitolo usava molto darsi al ministero delle confessioni. Nelle ore del mattino i confessionali erano assiepati da buone donne in vena di lunghe chiacchierate.
Il novello vescovo se ne accorse un po’ di tempo dopo, tanto più che nel gruppo delle penitenti o consolande, giorno per giorno, vi era la vivandiera, detta per l’occasione la preferita, quella che offriva al confessore la spesa degli alimentari per la giornata. Il vescovo, molto mite, dovette intervenire con ordinanze e sanzioni ecclesiastiche perché le confessioni non durassero a lungo, ma fossero piuttosto brevi; dovette proibire che si baciasse la mano al confessore, anzi prescrisse che sull’entrata del confessionale pendesse la tendina. Le prescrizioni furono fatte osservare con tenacia perché non degenerassero nelle «grida spagnolesche»; le donne erano perciò spaesate, tanto è vero che per lasciare sussistere il baciamano al confessore in altre diocesi si era proibito dai vescovi che nei giorni festivi si confessassero le donne.
Mons. Macchi commentava che, al di là del gruppo delle beghine, vi erano delle affaccendate madri di famiglia che approfittavano dell’adempimento della messa festiva per confessarsi: perché impedirlo a loro, per mantenere l’usanza barocca del baciamano? Da buon milanese, se proibiva ai canonici la vivandiera di turno, sapeva che l’abuso derivava dalla scarsezza di finanza, e che al sostentamento dei canonici bisognava pur provvedere e tentò di farlo rivendicando, con buon esito, diversi legati e lasciti.

Il capitolo, così affollato di canonici, rappresentava un’idea troppo individualistica del sacerdozio, quasi fosse una devozione personale od una pia confraternita, un sacerdozio staccato quindi dalla cura pastorale. A parte le irrequietezze dei capitolari che «non hanno la pazienza di ascoltare una breve omelia durante il pontificale: perché devono in quel momento correre a comperare il pesce» [11], quei comportamenti al vescovo dovevano far pena. Così compativa i canonici che al mattino, non essendoci ancora la concelebrazione, volevano celebrare senza rispettare gli orari di turno e qualcuno più fervoroso e frettoloso finiva per litigare con il collega che accampava lo stesso diritto e nella foga della discussione volava qualche ceffone ed era, o no, dato, suadente diabolo, per cui lo scatenato saliva in episcopio a farsi assolvere dall’eventuale scomunica.

Il sacerdozio, considerato non come ministero, finiva per portare ad una devozione privata tanto che al vescovo veniva spesso chiesta la concessione di celebrare in casa [12], dove non vi era una cappellina, ma un armadio debitamente congegnato che conteneva un altare. Bisognava sapere comprendere e mons. Macchi scriveva: «Preghiamo per loro! In fondo in fondo sono più da compatire che da biasimare. Poveretti quando si pensa che nei seminari di un certo tempo non vi era la S. Messa nei giorni festivi !!!» [13]. Vi era una tale ristrettezza di mezzi che, nel 1923, il vescovo, volendo obbligare i sacerdoti agli esercizi spirituali, si trovò in difficoltà: «In Seminario mancano i letti e sarebbe troppo oneroso obbligare i sacerdoti a portare il letto. Quindi alla sera fanno ritorno alle loro case. Pazienza!» [14]

Naturalmente sarà una delle prime cose a cui il vescovo provvederà. Per il capitolo mons. Macchi vorrà molta disciplina; così scrive di aver dato norme sul modo di procedere nei funerali: «Devono, cioè, i canonici dalla partenza al ritorno andare bini, bini, in silenzio... Il popolo ne è contento speriamo che i canonici la durino» [15]. E l’energia del vescovo arrivò fino ad espellere dal capitolo, un canonico giudicato indegno. «Il popolo ed anche il clero» scriveva il Macchi «approvò il mio atto energico, unico nella storia di questa chiesa, doloroso per me» [16] Ma quando trovava virtù e bontà il vescovo era il primo a lodarla, così in diverse lettere parla della malattia in morte di mons. Giuseppe Merra: «... morì rassegnato e da buon sacerdote gli amministrai io la Santa Comunione e l’Estrema Unzione. Fu commovente quell’ora e domandò a tutti perdono. Alla Messa in canto di requie assistetti anch’io e dissi poi alcune parole ricordando il suo viaggio a Milano per accompagnarmi ad Andria, il conforto reso alla mamma che abbandonavo» [17]

Per il clero mons. Macchi cercò di curare il seminario: non gli rimaneva che il seminario ginnasiale e prodigò molte cure per il restauro dell’edificio, curando con premura la cappella che volle restaurata come ricordo del suo venticinquesimo di sacerdozio, ma soprattutto volle la restaurazione degli studi ed in genere dei programmi scolastici, uniformandoli al grande seminario di Mi-lano e si prodigò per la formazione spirituale dei seminaristi chiamando, come predicatori degli esercizi spirituali, o l’amicissimo don Carlo Sommaruga, o qualche oblato missionario di Rho [18].
Quando poi mons. Macchi aveva un momento di libertà accorreva al seminario regionale di Molfetta per intrattenersi coi suoi chierici di Andria, in colloqui fattivi di calore paterno.
Quasi una gelosia lo prendeva quando vi era da consacrare qualche nuovo prete, per cui se una malattia una volta gli impedì di celebrare questa sacra funzione considerò la circostanza come una mortificazione inflittagli dal buon Dio. Scrive infatti per la Pasqua del 1927: «S. E. Mons. Giannastasio mi ordinerà sacerdote a Canosa il diacono Minerva, che studia a Roma. Tanto feci per avere tale consolazione avendolo io ordinato diacono sulla tomba di S. Luigi a Roma e il Signore mi mandò tale mortificazione. Sarà per purificare le mie colpe e ottenere dal Signore tante grazie per questa diocesi» [19].

L’azione dunque di mons. Macchi è di poter portare il clero fuori dall’ambito individuale per addestrarlo alla sua vera missione: pro hominibus constitutus. Di qui l’impegno per la costruzione delle case canoniche per i parroci, affinché, sganciati dalla famiglia, fossero, nella casa fornita loro dalla comunità par-rocchiale, sempre a disposizione di tutti «Sto lavorando» scrive il vescovo «per le case parrocchiali, problema urgentissimo ma che non piace ai parroci perché prevedono che con le case dovranno lavorare sul serio» [20]. Altra volta dopo la splendida riuscita delle missioni predicate a Montemilone esclamò: «Se ci fossero preti zelanti quante opere di bene si potrebbero compiere. Ed invece ?! » [21].
Il sacerdote dunque è pastore e deve dedicarsi ai suoi fedeli. Mons. Macchi si muove per il suo popolo in queste direzioni: 1) istruzione religiosa, 2) disciplina ecclesiastica, 3) opere sociali. Infatti il primo pensiero fu per il catechismo: l’istruzione catechetica, con un rigoroso metodo coordinatore, aveva fatto a suo tempo la fortuna delle diocesi del Nord ed era stata la grande parola d’ordine del cardinale Ferrari: Dottrina cristiana! Dottrina cristiana!
«Ho richiamato in vigore la Giunta» scrive il Vescovo «e lavora con frutto: si è interessata pel catechismo nelle scuole. Avrei bisogno di sapere che cosa si fa a Milano in merito agli insegnanti e quale catechismo si è scelto per dare ai medesimi come norma per l’insegnamento. Sopra cento maestri 80 hanno già risposto affermativamente e spero di avere anche gli altri» [22]. Siamo nel 1923, tempo in cui l’insegnamento religioso anche nelle classi elementari non era obbligatorio ed era tollerato al termine delle lezioni d’orario.

Così l’amministrazione dei sacramenti dev’essere preceduta da una congrua istruzione religiosa e tra i sacramenti deve annoverarsi anche la cresima.
Su questo punto pare dissentissero anche alcuni vescovi della zona. L’uso della Chiesa bizantina di amministrare col battesimo anche la cresima aveva lasciato in questo angolo di terra il costume che il vescovo cresimasse anche gli infanti: alle meraviglie di mons. Macchi alcuni vescovi rispondevano: «E se per disgrazia il bimbo muore resta un angioletto con un’ala sola?». L’argomento teologico non convinceva il prelato milanese, il quale pure ammetteva che la mortalità infantile era veramente forte. Il concilio provinciale plenario, tenutosi a Bari nel 1928 sotto la presidenza del legato pontificio cardinal Sbaretti, diede ragione a mons. Macchi. Ma come far entrare il canone provinciale nella persuasione del clero e dei fedeli?
Ad Andria mons. Macchi da qualche tempo aveva abituato i suoi fedeli a questa futura legge, tanto che già nel 1926 scriveva: «Anche all’amministrazione della Cresima a 6 anni incominciano ad abituarsi: Parimenti alla scuola del catechismo vengono non pochi figliuoli e le prime Comunioni si fanno con solennità» [23].
I ragazzi erano stati una delle prime sue cure: a Milano, nella sua parrocchia di Sant’Andrea, non solo aveva due oratori [24], maschile e femminile, ma godeva di un assistente molto stimato in diocesi, don Giovanni Pessina, si può quindi immaginare lo smarrimonto di mons. Macchi di non trovare in Andria almeno un oratorio, vale a dire quella istituzione che trattiene i ragazzi ed i giovani alternando il divertimento al catechismo: le funzioni sacre fatte su misura della psicologia puerile con tutto quel complesso che comporta l’età giovanile per la formazione intellettuale e morale, del giovane.

«Qui è un bisogno estremo di un oratorio pei fanciulli, se no povera gioventù» scriveva sul finire del 1924 [25]. Pensava ai Salesiani e per sopperire alle spese sperava in una eredità. Ma non era una bella speranza, perché l’eredità sarebbe andata alle missioni dei Salesiani e quindi una briciola ad Andria.
Il vescovo nel frattempo si rivolse ai cosiddetti Artigianelli, in termine tecnico Figli di Maria Immacolata, fondati dal sacerdote bresciano Ludovico Pavoni, ma ebbe solo belle parole [26]: «Ricevetti dagli Artigianali una risposta che fa sperare, ma fino alle calende andriesi. Mi scrive il Superiore che per ora non può disporre di soggetti. Pazienza». Bisognava confidare ancora nei Salesiani, ma ormai anche questa congregazione era lontana da don Bosco: «Sono ancora in attesa dei Salesiani. Speriamo di riuscire ad averli. Ma hanno troppe pretese. Vorrei avere io quel denaro e riuscirei a mettere insieme Cattedrale e Oratorio» [27] Il problema rimaneva ed il vescovo, dopo aver ragguagliato l’amico del grandioso risultato della missione in Andria, scrive sconsolato: «Peccato che rimangano poi questi cari giovani abbandonati» [28]. Tutto questo avveniva in una città dal clero abbondante, ma abituato alla maniera del sacerdote della parabola del buon samaritano, che vede il ferito sul ciglio della strada e passa oltre (Luca X, 31).

Anche per i bambini il vescovo ha la sua attenzione. Confida: «Penso ad aprire un asilo presso le Stimatine, essendo io il Rettore ed Amministratore di quell’Istituto. È una necessità: la mortalità infantile qui è più numerosa che altrove sia perché il popolo non conosce e quindi è maggiore il numero delle nascite, ma specialmente perché il bambino è poco nutrito e vive sempre in istrada» [29].

Ad aprire un asilo lo spingeva anche un sentimento di famiglia. Accanto al figlio vescovo era venuta discreta, gentile e premurosa la madre ed il figlio scriveva: «Poveretta mi fa compassione. A 72 anni mutare il regime di vita, portarsi così lontana dai suoi ... Sono sacrifici che solo una mamma sa compiere» [30]. Però se il figlio vescovo aveva bisogno della sua presenza e di quel tocco che lei sola poteva dare, aveva altri figli e quindi affrontava i disagi dei lunghi viaggi per arrivare a tutti «Povera donna!» scriveva mons. Macchi «quale sacrificio per me. Se fosse più vicina ai suoi cari, potrebbe accontentare un po’ gli uni e gli altri» [31]. Fu in una tornata ad Andria che la buona signora fu chiamata all’eternità. Al vescovo fu significato che secondo l’uso andriese avrebbe dovuto in segno di lutto non uscire dall’episcopio per un mese. «Impossibile», rispose il prelato, «i miei doveri mi portano fuori e quanto opererò sarà a suo suffragio». E per dimostrare il modo di onorare la memoria dei defunti, il vescovo fondò l’asilo infantile «Carlotta Binda vedova Macchi».

Nell’istruzione religiosa il vescovo comprendeva la predicazione preparata, semplice, senza vezzi oratorii; tendente alla praticità. Di qui l’episodio mille volte raccontato per il panegirico del santo patrono, san Riccardo. Si usava invitare l’oratore ad un anno di distanza; non era più una meditazione cristiana, ma una esercitazione accademica, degna di altra sede.
Mons. Macchi riferiva che un anno, per non so quale malore, il predicatore fece sapere che non poteva assolvere il suo impegno: «Aveste visto», diceva, «che faccia desolata avevano i membri della commissione per la festa patronale quando mi riferirono che il panegirista non poteva venire. Dissi fresco, fresco che avrei tenuto io stesso il panegirico»; «Non si arrischi Eccellenza, è un discorso d’aspettativa». Il vescovo arrischiò e dal, pulpito disse chiaro che egli sostituiva umilmente il grande oratore, ma che non avrebbe più permesso i discorsi d’aspettativa. Anche questo barocchismo doveva finire.
La predicazione al popolo fu voluta sotto forma straordinaria di missione e venne tenuta nell’inverno 1925-1926; parlando dell’avvenimento mons. Macchi commenta: «Riuscirono veramente un trionfo della grazia. Quante confessioni di uomini e giovani, da parecchi anni lontani dai Sacramenti! Uno spettacolo commovente la processione di chiusura per la posa della croce a ricordo. Si dovette in piazza Catuma dare la benedizione e chiudere le missioni per avere tutto il popolo, assommato a decina di migliaia. Prega perché i frutti rimangano. Sono tornato ieri da Monte Mi-lone ed anche colassù le Missioni fecero del gran bene e suscitarono grandi entusiasmi» [32]. E successivamente: «A Minervino riuscirono assai bene le Missioni: confessioni di 20, 30, 50 anni!!! Povera città!» [33].

Con una sana e proficua istruzione il vescovo tenta di raddrizzare anche la devozione verso l’essenziale. Siamo nel momento in cui in molte chiese d’Italia si celebra il centenario di san Luigi Gonzaga, un santo non taumaturgo, ma solo modello e patrono spirituale ed il vescovo scrive: «Qui è poco conosciuto S. Luigi. Sono devoti solo dei Santi che fanno guarigioni: i Santi Medici, S. Ciro, S. Antonio ecc.» [34], e tenterà nelle chiese di togliere il superfluo di quadri e sottoquadri e devozioncine.

Una cura particolare avrà per gli uomini ed ecco qualche iniziativa, oggi discutibile, ma che comunque fu usata: «Riuscitissimo il pellegrinaggio di soli uomini al Cimitero per l’acquisto del Santo Giubileo. Portai io stesso la Croce, seguito dal Clero, dai chierici, confraternite, Associazioni Cattoliche. Fu commovente, nel pomeriggio dell’Immacolata, il concorso ... Ho stabilita la S. Messa per i soli uomini nella chiesa Mater Gratiæ» [35].
Mons. Macchi in Andria cercò di valorizzare il laicato cristiano con l’azione cattolica: non era solo il momento di moda e di comando, perché il nuovo pontefice Pio XI lo voleva, ma era profonda convinzione che il Macchi portava dalla sua esperienza pastorale di Milano. «Sto combinando per i circoli femminili nelle singole parrocchie», scrive all’inizio del 1925, «non è però la cosa tanto facile ... I due maschili camminano bene» [36].

Vi è poi l’incontro con il popolo nella visita pastorale: una funzione questa che per i lombardi era stata canonizzata dal Manzoni nei capitoli XXII e XXV dei Promessi Sposi ed il Macchi aveva rivissuto accanto al suo cardinale Ferrari: ma ad Andria le circostanze erano ben diverse. A noi basta la sua confidenza: «Oggi parto per Canosa in Sacra Visita. Ho trovato buono il sistema di accomodare tutto in actu visitationis, se no con questa gente i Decreti rimangono lettera morta. I miei convisitatori il fabbro con la scure, il segretario con la scopa, fanno molto bene. Il popolo ammira e finora, eccetto qualche piccolo incidente a Minervino, non reagisce. Capisce che è necessario nelle chiese ordine, pulizia, semplicità. I sottoquadri sono quasi tutti scomparsi. Gli oggetti di cucina (!) parimenti, le lampade di vetro vanno al cimi-tero. Si comincia a scopare le chiese, a togliere le ragnatele, ad accomodare i paramenti ecc. tutte cose sconosciute o meglio mai eseguite per il passato [37].
E scrivendo della riuscita della visita: «Terminai la Visita a Canosa: ebbi non poche consolazioni dal popolo e le nuove leggi con un po’ di sorpresa in principio finiscono con l’essere accettate ed apprezzate. Sia lodato il Signore! Ma quante riforme, quanti provvedimenti da prendersi. Si agisce ancora come quando regnavano i Borboni. Non si è ancora fatto il trapasso. Quindi puoi im-maginare quale lavoro per accomodare legati ecc. ecc. » [38].

Il vescovo però tiene calcolo anche delle esigenze materiali: Andria ha bisogno di un ospedale: «Sto lavorando per sciogliere la questione per l’ospedale. Pensa partì il presidio e lasciò in libertà l’antico convento dei Cappuccini» [39]; e pii avanti: «Per l’ospedale ora che è partito il presidio, forse si potrà combinare con la caserma un tempo convento dei Cappuccini. È un bisogno urgentissimo per questa città e nessuno pensa!» [40]

Mentre tutto procedeva in fervore di opere nel 1928 si profilò sull’orizzonte per mons. Macchi una traslazione ad altra sede … … … Di carne al fuoco ve n’era molta: il restauro della cripta della cattedrale, l’altare nuovo per la stessa; lavori questi che avevano suscitato difficoltà da parte della sovraintendenza dei monumenti; il riassetto murario del seminario, una nuova ala del palazzo vescovile, campanile a Sant’Agostino. … … … mons. Macchi aveva chiesto due anni e Pio XI, a cui pareva di aver concesso troppo, allo scadere dei due anni, essendo vacante una diocesi lombarda, lo inviava a Como, ma prima fu nominato amministratore Apostolico di Manfredonia: … … … .

… … … Di qui il dispiacere del popolo e del vescovo nel lasciarsi. «Ora che mi era così ben acclimatato anche sul Gargano mi giunse l’egredere ... Sono assai dispiaciuti quelli di Andria e del Gargano. Una vecchietta mi scrisse che se fossi rimasto ad Andria fra un secolo le mie ossa potevano trovarsi vicine a S. Riccardo. Andando a Como ... rimarrò al Purgatorio fino al giorno del Giudizio» [60].

… … …

[stralcio dell'articolo tratto da “ Brundisii Res” anno 1977, IX 1, Edizione “Amici della «Annibale De Leo»”, Brindisi, pagg. 69-90]

NOTE

[10] I dati per la diocesi di Andria son ricavati da Annuario delle Diocesi e del Clero d’Italia 1924, Roma 1924.

[11] Lettera del 25 novembre 1927.

[12] Lettera del 10 giugno 1925.

[13] Lettera del 25 novembre 1927.

[14] Lettera del 12 settembre 1923.

[15] Lettera del 21 luglio 1928.

[16] Lettera del 2 ottobre 1925.

[17] Lettera del 13 dicembre 1926.

[18] Nella lettera dell’ 1 agosto 1924 parla del seminario: «Ora sto lavorando pel Seminario; ebbi da Mons. Asti [rettore del seminario di Seveso] il programma degli studi di quel ginnasio e spero di riuscire a farlo adottare anche qui. Ti aspetto con vivissimo desiderio in novembre per gli Esercizi a questi chierici». In un’altra, lettera del 25 gennaio 1925: «Il Seminario cammina abbastanza bene, ma quanto c’è da fare». «I seminaristi sono tornati alle loro case: fecero in generale buoni esami. Speriamo che le vacanze non siano fatali per loro [Lettera del 21 luglio 1925]». «Il Seminario procede bene. I restauri continuano, ma la cappella dovrò lasciarla al posto dove sta. Pazienza! [Lettera del 7 marzo 1927]». «Al Seminario continuano i restauri [Lettera del 6 aprile del 1927]». «Ricevetti parimenti tanti libri e tutti belli e buoni per il mio caro Seminario. Nel ringraziare te a nome dei Superiori e dei Chierici intendo ringraziare anche il donatore. [Lettera del 9 giugno 1929]». «Attendo qualche campione per una Via Crucis alla Cappella del Seminario [Lettera del 3 gennaio 1927] ». È interessato alla salute dei suoi seminaristi: «L’influenza serpeggia un po’: è una forma benigna: in Seminario una mezza dozzina di chierici a letto [Lettera del 15 febbraio 1925]».

[19] Lettera del 6 aprile 1927.

[20] Lettera del 7 marzo 1927.

[21] Lettera del 9 febbraio 1926.

[22] Lettera del 15 ottobre 1923.

[23] Lettera del 24 luglio 1926.

[24] In una lettera del 15 maggio 1927 scrive: «Se avessi un D. Luigi [Pessina] per l’Oratorio quanti problemi scioglierei ..., ma bisogna accontentarsi e ripetere: sia fatta la volontà del Signore!!».

[25] Lettera del 14 dicembre 1924.

[26] Lettera del 5 dicembre 1926.

[27] Lettera del 7 marzo 1927.

[28] Lettera del 12 gennaio 1926.

[29] Lettera del 15 maggio 1927.

[30] Lettera del 18 luglio 1923.

[31] Lettera del 9 dicembre 1923.

[32] Lettera del 9 febbraio 1926.

[33] Lettera del 29 marzo 1926.

[34] Lettera del 7 marzo 1927.

[35] Lettera del 13 dicembre 1926.

[36] Lettera del 25 gennaio 1925.

[37] Lettera del 24 luglio 1926.

[38] Lettera del 24 agosto 1926.

[39] Lettera del 6 dicembre 1926.

[40] Lettera del 13 dicembre 1926.

[60] Lettera del 26 giugno 1930.