La Diocesi di Andria dal Medioevo al VaticanoII

Contenuto

Premessa

Si trascrive questo studio di don Adriano Caricati, docente di Storia della Chiesa presso SFTOP della Diocesi di Andria e, attualmente (06/2018), parroco della Chiesa del "Sacro Cuore di Gesù" di Andria [1],
studio stralciato dalla sotto citata pubblicazione della Facoltà Teologica Pugliese “Storia delle Chiese di Puglia”,
perché “vengono ripercorsi quasi due millenni, dai tempi della prima evangelizzazione e della formazione delle comunità cristiane dentro assetti territoriali, determinati dalle vicende politiche e dalle evoluzioni economiche, nonché dallo sviluppo dei rapporti istituzionali tra gruppi religiosi e autorità ecclesiastiche
e abbozza “con tratti moderni il volto antico e attuale delle Chiese di Puglia” e, tra esse
delLa Diocesi di Andria dal Medioevo … al concilio Vaticano II.

dal volume Storia delle Chiese di Puglia

(a cura) di Salvatore Palese e Luigi Michele de Palma,
Bari, Ecumenica Editrice, 2008

stralcio

Andria

di Adriano Caricati

L’attuale diocesi di Andria, il cui territorio comprende i comuni di Andria, Canosa di Puglia e Minervino Murge, copre una superficie di circa 799 kmq lungo un’ampia balza calcarea molto fertile, che dall’Adriatico si estende nell’entroterra murgiano (la costa dista meno di 9 km dal centro città di Andria), raggiungendo nel comune di Minervino Murge e nella località di Castel del Monte, in territorio andriese, due delle quote più ragguardevoli dell’intera Murgia nord-barese. La popolazione diocesana, distribuita nei tre comuni della diocesi, con le annesse frazioni di Montegrosso (nel territorio e comune di Andria) e Loconia (nel territorio e comune di Canosa di Puglia), è di circa 140.000 abitanti, ripartiti in modo non del tutto omogeneo nelle 37 parrocchie costituite ed in 2 centri pastorali con ampie facoltà di cura pastorale delle persone di un territorio canonicamente definito.

La diocesi fa parte della metropolia di Bari, di cui è suffraganea dal 20 ottobre 1980, dopo la soppressione della metropolia di Trani. Il clero è costituito da 71 presbiteri diocesani, 10 diaconi permanenti e 4 diaconi avviati al presbiterato. Numerose le comunità religiose: 8 maschili e 19 femminili, presenti nei tre centri della diocesi.

La cattedrale, situata nel centro storico di Andria è dedicata a s. Maria Assunta. La città di Canosa ha una vicenda ecclesiale più antica e, per certi versi, insigne, essendo attestata come sede vescovile sin dalla prima metà del IV secolo. Nel 1802 Canosa venne unita alla diocesi di Minervino (comprendente i comuni di Minervino Murge e Montemilone). Il 27 giugno 1818, con la bolla De utiliori, Pio VII annesse Minervino alla diocesi di Andria.

“L’antica diocesi di Canosa”

Una prima comunità cristiana con sede vescovile è attestata tra le prime sedi episcopali della regione imperiale e, dunque, ecclesiastica Apulia et Calabria, ed era molto attendibilmente già eretta nella prima metà del IV secolo. Il primo vescovo noto fu Stercorio, sottoscrittore degli atti del concilio di Serdica (343), convocato dagli imperatori Costante e Costanzo per risolvere alcune questioni lasciate aperte dopo il concilio di Nicea (325) e per tentare una riconciliazione degli episcopati orientale ed occidentale. La partecipazione di Stercorio ad un sinodo di tale rilevanza denota che la sede canosina fosse già abbastanza attiva e organizzata sin dalla prima metà del IV secolo. In questo periodo la città dauna andò progressivamente assumendo il ruolo di capoluogo amministrativo e di centro privilegiato della comunicazione politica dell’intera regione.

Busto di S.Sabino (Andria, Chiesa dell'Annunziata)
[Busto di S.Sabino (Andria, Chiesa dell'Annunziata)]

Il secolo V è segnato dall’episcopato di Probo. Nel 465, egli prese parte con tre vescovi pugliesi (Concordio di Bari, Felice di Siponto e Palladio di Salpi) al concilio romano convocato da papa Ilario (461-468) per risolvere alcune questioni della Chiesa spagnola riguardanti il diritto di ordinazione e la successione episcopale. I tre vescovi pugliesi presero parte attivamente al sinodo, offrendo un significativo contributo all’approfondimento dei temi discussi. Probo di Canosa intervenne con decisione contro un tentativo di abuso da parte di un vescovo spagnolo che pretendeva di scegliere il suo successore, esprimendo una linea ben precisa della Chiesa canosina sul problema, allora molto dibattuto, del rapporto tra la sede di Roma e le altre chiese. In virtù del deciso e fedele intervento in concilio, Probo poté godere di alta considerazione negli ambienti ecclesiastici romani, che ne apprezzarono evidentemente le doti culturali, la vivacità e le capacità dialettiche, qualità che furono messe a frutto qualche anno dopo, nel contesto dei difficili rapporti tra oriente e occidente. L’attività di Probo legò in modo netto la Chiesa canosina alla sede romana, tanto da renderla una delle più prestigiose.

Se il V secolo vide l’assalto definitivo delle popolazioni germaniche agli ultimi residui di potere imperiale ed il sorgere dei regni romano-germanici in tutto l’occidente europeo, nel VI secolo partì l’offensiva orientale contro i nuovi regni appena costituitisi. L’Italia ostrogota (con la corte di Teodorico instauratasi a Ravenna, dopo la breve dominazione di Odoacre, re degli Eruli, dal 476 al 488) divenne campo di battaglia nel corso di un ventennio sanguinosissimo (535-553), che vide fronteggiarsi, da ultimi, il generale bizantino Narsete ed il goto Totila. La sconfitta ostrogota segnò l’inizio di una breve dominazione degli orientali a cui, dal 568, si andarono progressivamente sostituendo i Longobardi. In questo contesto politico-istituzionale di grandi rivolgimenti si inserisce l’azione pastorale e diplomatica del grande vescovo canosino Sabino.

Il lunghissimo episcopato sabiniano segna il periodo di massimo fulgore della Chiesa canosina, testimoniato da un notevole impulso dato all’edilizia sacra nella prima metà del VI secolo. Recentissime sono le campagne di scavo presso la chiesa di San Pietro, in località Murgetta, identificata in modo molto attendibile come il primo sacello che raccolse le reliquie del santo vescovo canosino. Tali recenti indagini archeologiche consentono di avere un quadro abbastanza chiaro e pressoché completo della ricchezza di monumenti cristiani in città, tali da far ritenere Canosa la città paleocristiana più ricca di testimonianze archeologiche dell’intera regione. I siti noti da tempo sono la basilica di San Leucio, edificata su un precedente luogo di culto pagano (il tempio di Giove Toro) e successivamente dedicata ai santi Cosma e Damiano; il battistero di San Giovanni, nelle cui vicinanze recenti campagne di scavo hanno individuato il sito dell’antica cattedrale paleocristiana, dedicata a s. Maria, precedente all’età sabiniana e significativamente ampliata e nuovamente decorata nel corso del suo episcopato; una vasta necropoli, in località Ponte della Lama, ancora non completamente ispezionata per la problematica messa in sicurezza del sito, dai cui primi rilievi sono evidenziate sepolture con tratti iconografici inequivocabilmente cristiani (utilizzo del monogramma, dell’ancora, dell’acrostico; rinvenimento di ingente materiale fittile, come lucerne, lampade ad olio).

Le vicende pastorali di Sabino si intrecciarono con quelle più tormentate della città, immersa e coinvolta nella guerra greco-gotica (535-553). Sabino riuscì a conservare buoni rapporti con Totila, re dei Goti, e con l’imperatore Giustiniano. L’azione del santo vescovo, infatti, si estese al di là dei confini della sua giurisdizione ecclesiastica, facendone un fiduciario papale in tutte le missioni diplomatiche verso Costantinopoli, organizzate durante i pontificati di Giovanni I (523-526), Bonifacio II (530-532) e Agapito (535-536). Oltre agli atti conciliari (che fanno riferimento a queste missioni), le fonti principali che ci informano sulla vita di Sabino sono i Dialoghi di Gregorio Magno e una biografia anonima del IX secolo. Gregorio Magno tratta di Sabino in due passi dei Dialoghi: nel primo racconta della sua amicizia con s. Benedetto da Norcia, dal quale si recava spesso. In un secondo passo vengono ricordati l’incontro con Totila e l’inganno ordito da un invidioso arcidiacono, il quale tentò di avvelenare il santo.

Alla morte di Sabino, nel 566, la città si avviò verso un declino irreversibile. Il quadro fornitoci da una lettera di papa Gregorio, indirizzata a Felice, vescovo di Siponto, ci offre uno spaccato della situazione drammatica nella quale la popolazione era precipitata, avendo perso un punto di riferimento forte come il vescovo Sabino, a buon diritto da considerare come defensor civitatis, oltre che con il titolo di restaurator ecclesiarum, che la tradizione ci ha consegnato. Furono questi, infatti, gli anni forse più travagliati della crisi istituzionale della regione, divenuta terra di conquista, contesa tra i Longobardi del ducato di Benevento, i Greci, sempre desiderosi di estendere la loro area di influenza politica e religiosa, ed i Saraceni, che, con le loro scorrerie, dalle zone costiere si spingevano fino nell’entroterra. Il secolo VII, infatti, rappresentò per la Puglia centro-settentrionale un momento di particolare instabilità politico-istituzionale, determinata dal trovarsi ad un crocevia di interessi economici, commerciali e politici. Alla morte di Sabino la sede rimase vacante. Gregorio Magno, nel 591, si vide costretto ad inviare come visitator il vescovo di Siponto.

I due secoli successivi all’episcopato sabiniano rappresentarono per la sede canosina un evidente momento di decadimento delle prerogative tipiche di una Chiesa primaziale nell’ambito della regione ecclesiastica pugliese in età tardoantica. Il lento passaggio all’alto medioevo, infatti, comportò lo spostamento degli interessi geo-politici e religiosi verso Bari. Canosa, negli anni dell’episcopato di Sabino, si era andata edificando come una vera cittadella cristiana, con significativi insediamenti nelle diverse direzioni degli assi viari romani. Il lento abbandono del sistema viario consolare, ritenuto ormai poco sicuro, contribuì a determinare una progressiva e graduale trasformazione, quando non il decadimento, delle grandi architetture cristiane di età sabiniana.

Dalla seconda metà del VII sec. Canosa divenne sede di gastaldato, nell’ambito dell’amministrazione longobarda del ducato di Benevento. La cronotassi episcopale riprende con il vescovo Pietro; durante il suo episcopato è attestata la traslazione del corpo di Sabino dalla basilica cimiteriale di San Pietro, divenuta ormai lontana dal centro cittadino, alla nuova cattedrale dei Santi Giovanni e Paolo (nella seconda decade del secolo IX). Di lì a poco, verso la metà del secolo IX (poco prima dell’872), è datata la traslazione delle reliquie di Sabino da Canosa a Bari, ad opera del vescovo Angelario. Tale vicenda fu all’origine di un’aspra contesa tra la sede canosina e le emergenti pretese della sede barese. Sin dalla metà del X secolo, infatti, il vescovo di Canosa si era, di fatto, traferito a Bari. Nel 943 compare per la prima volta, in un documento della Cronaca di Montecassino, un riferimento ad un insediamento benedettino, dedicato a s. Benedetto o a s. Vincenzo e dipendente dall’abbazia di Montecassino o di San Vincenzo al Volturno. Il processo di marginalizzazione della sede di Canosa a vantaggio di Bari, frattanto, si compì definitivamente sotto l’episcopato dell’arcivescovo Elia (intorno al 1085). Il privilegio di Urbano II (5 ottobre 1089) riconobbe per la prima volta ad Elia il titolo di arcivescovo di Bari, premettendolo al titolo di Canosa. Le controversie successive trovarono una composizione con l’intervento di Pasquale II (1099-1118) che, sentite le ragioni delle parti in lotta, riconfermò la bolla del predecessore, riconoscendo, tuttavia, al prevosto di Canosa la piena autonomia giurisdizionale sul territorio della sede di Canosa e, all’arcivescovo di Bari, la mera titolarità di Canosa e la giurisdizione metropolitica sulle sedi suffraganee.

La fine del secolo XI e il secolo XII rappresentarono, nonostante la perdita del vescovo residente, un periodo di significativa e munifica attività dei duchi normanni, i quali edificarono o riedificarono su una precedente struttura la cattedrale, insieme alla tomba di Boemondo d’Altavilla, principe di Antiochia. Questi, figlio di Roberto il Guiscardo, stabilì la propria residenza a Canosa, dove morì nel 1111. Negli anni immediatamente successivi venne edificato in suo onore un mausoleo, addossato al muro esterno del transetto destro della cattedrale che egli stesso aveva contribuito a riedificare e che, per sua intercessione, era stata consacrata da papa Pasquale II con una nuova dedicazione al grande vescovo Sabino. L’interessante architettura del mausoleo rimanda alle forme dell’Anastasis di Gerusalemme, a ricordo dell’impresa crociata del principe; di particolare interesse è la porta bronzea d’ingresso alla tomba, frutto di una contaminazione tra tecniche differenti (a fusione e da sbalzo), coeva alle porte della cattedrale di Troia realizzate da Oderisio di Benevento con tecnica differente, ma con esiti altrettanto significativi. Opere di indubbio valore arricchirono l’interno della cattedrale in questo periodo: tra tutte lo splendido pergamo di Acceptus e la sede episcopale di Romualdo, datata 1087 e recante, su una lapide laterale del trono episcopale, l’indicazione del committente, l’arcivescovo di Canosa e Bari Ursone.

La Chiesa di Canosa, privata del suo arcivescovo, ebbe come suoi capi i “prevosti”, che avevano funzioni amministrative per la città e per il territorio, con un’autorità parificata a un vescovo. Essi, infatti, conferivano i benefici ecclesiastici, celebravano i sinodi diocesani, si avvalevano del diritto alla visita pastorale, eseguivano le visite ad limina e adempivano all’obbligo di residenza, così come fu stabilito dal concilio di Trento. La diocesi canosina venne chiamata “prepositura” e la sua chiesa primaziale conservò il titolo di cattedrale. Successivi pronunciamenti della sede romana configurarono la Chiesa canosina come nullius dioecesis, sottraendola a qualsiasi giurisdizione di vescovi viciniori. Più volte, nel corso dei secoli, i vescovi di Minervino e gli arcivescovi di Bari, tentarono di rivendicare un diritto di giurisdizione sulla Chiesa canosina, ma esso venne sempre negato, riconoscendo alla prepositura di Canosa il privilegio di Chiesa immediatamente soggetta a Roma.

La serie cronologica dei prevosti canosini risulta ancora incompleta, soprattutto fra i secoli XI-XVI. Fra i titolari della prepositura furono numerosi i cardinali commendatari, come Alessandro Farnese, futuro Paolo III, prevosto di Canosa dal 1530 al 1532, e Cesare Baronio (1598-1600), nominato da Clemente VIII, il quale ben presto vi rinunciò. Il breve periodo del suo governo, tuttavia, fu significativo e, per certi versi, rappresentò una svolta nel governo pastorale della prepositura. Attraverso interventi mirati del suo procuratore, mons. Casati, e del vicario generale, mons. Della Marra, l’opera del Baronio è ricordata, in primo luogo, per il riordino dei beni e delle rendite prepositurali e capitolari, attraverso la meticolosa redazione di un inventario dei beni di ciascuna chiesa, cappella, rettoria; e poi per un tentativo di riforma del clero, sempre molto refrattario all’autorità dei prepositi. Notevoli e necessari furono, infine, gli interventi di restauro della casa del preposito, annessa alla cattedrale e del monastero di San Quirico (le cui prime notizie risalgono al 1323).

L’ultimo periodo della prepositura di Canosa fu arricchito dalla presenza di tre figure di notevole levatura intellettuale: Francesco Paolo Nicolai (1689-1704), Angelo Andrea Tortora (1752-1780), Domenico Forges Davanzati (1786-1810). Nicolai fu uomo di vasta cultura, versato nell’erudizione ecclesiastica tanto da essere chiamato nell’ «Accademia dei Concilii» di Propaganda Fide in Roma. Il Nicolai, sessant’anni prima della Storia della Chiesa di Canosa del Tortora, aveva programmato uno studio atto a dimostrare l’antichità della sede canosina all’interno del quadro delle Chiese di Puglia. Davanzati impiegò notevoli energie e risorse finanziarie per la sistemazione della cattedrale di San Sabino: i rilevanti interventi ottocenteschi, ancora evidenti nell’attuale architettura della basilica, sono riconducibili proprio al periodo di governo pastorale del Davanzati. Alla sua morte la prepositura fu annessa alla diocesi di Minervino che, a sua volta, fu soppressa il 1818 e affidata al governo pastorale del vescovo di Andria.

“La diocesi di Andria dal medioevo al 1818”

Le più antiche testimonianze di presenza cristiana nel territorio andriese si ritrovano nelle grotte disseminate lungo le lame che degradano verso la costa. Una sommaria elencazione dei siti più noti non può prescindere da riferimenti agli insediamenti più ampi, lungo lama Santa Margherita (attualmente basilica della Madonna dei Miracoli) e presso il Gurgo, in località Trimoggia (nei pressi dell’attuale santuario del S.mo Salvatore). Altri insediamenti significativi, maggiormente vicini all’attuale centro abitato, sono Santa Croce, Santa Sofia (l’attuale santuario di Maria S.ma dell’Altomare), Gesù Misericordia. La stessa cripta della cattedrale, in origine nata come chiesa di superficie, avendo l’antico sito del primo nucleo della città un piano di calpestio notevolmente più basso dell’attuale, è presumibilmente di età pre-normanna.

Busto di S. Riccardo, trafugato nel 1983
[Busto di S. Riccardo, trafugato nel 1983]

Nel processo di inurbamento, favorito dai signori normanni, si inserì la nascita della città di Andria, antico pagus attestato in documenti notarili dell’Archivio metropolitano di Trani sin dal IX secolo, che, nel 1073, divenne contea normanna. Le prime attestazioni della sede episcopale parlano di un vescovo Leone, il quale compare come donatore al monastero di Santo Stefano ad rivum maris, nel 1137, dell’Hospitalis di Santa Maria e, nel 1144, della chiesa dei Santi Martiri Nicandro e Marziano, edificata in silva andriensis e di un vescovo Riccardo che partecipò, nel 1179, al concilio Lateranense III. Da ciò si deduce che l’erezione di Andria a sede episcopale non poté avvenire prima del 1063, in quanto Andria compare ancora tra i possedimenti della chiesa di Trani in un privilegio di Alessandro II, né dopo il quarto decennio del secolo XII, quando compare per la prima volta il riferimento ad un vescovo di Andria, intervenuto alla traslazione di s. Nicola Pellegrino a Trani, nel 1143. Con ogni probabilità si trattò dello stesso vescovo Leone, di cui riferisce la Cronica del Monastero di Santo Stefano ad rivum maris. Ad oggi, dunque, l’ipotesi più attendibile individua la data di ottenimento della sede vescovile per Andria negli anni dell’episcopato di Ubaldo, arcivescovo di Trani, durante gli ultimi anni del pontificato di Innocenzo II (1130-1143).

Circa la regolarità dell’elezione di Leone alla sede vescovile di Andria permangono motivi di incertezza, derivanti dai difficili rapporti intercorsi tra la sede di Roma ed i signori normanni in merito al diritto di nomina dei vescovi, che trovarono una regolamentazione nel Pactum beneventanum del giugno1156. In tal senso diviene possibile conciliare il dato tradizionale che individua in Richardus anglicus il primo vescovo di Andria, consacrato da AdrianoIV (1154-1159). È, infatti, ipotizzabile che Leone fosse vescovo di Andria per investitura regia, consacrato dall’arcivescovo di Trani Ubaldo, ma non “confermato” dalla sede romana. Alla sua morte la sede di Andria sarebbe rimasta vacante fino alla nomina di Riccardo, ufficialmente riconosciuta dalla sede romana, in quegli anni retta da Adriano IV, un papa inglese (Nicolò Breakspear) come il santo vescovo di Andria.

In questo rinnovato contesto si collocò l’episcopato di Riccardo, uomo probabilmente istruito e preparato al sacerdozio in ambienti monastici, inviato nella sede di Andria, ritenuta strategica nel riassetto territoriale della Chiesa latina in Terra di Bari. L’episcopato di Riccardo prese avvio, dunque, durante il pontificato di Adriano IV, sviluppandosi per circa un quarantennio fino alla fine del secolo, in un contesto politico particolarmente conflittuale per i rapporti tra papato romano ed impero svevo. Anche Riccardo fu tra i più di 300 vescovi che al concilio Lateranense III (1179) assistettero alla ratifica della pacificazione di Alessandro III con l’imperatore Federico Barbarossa. La sua azione pastorale fu volta al risanamento dei costumi del clero, afflitto dai mali della simonia e del nicolaismo, e all’educazione cristiana del popolo, nella linea della riforma della Chiesa, ribadita dai concili Lateranensi. Una testimonianza riportata dall’Ughelli, che trascrive un documento dell’archivio di Andria ora perduto, attesta che Riccardo fosse ancora in vita nel 1196, quando trasferì alcune reliquie dei santi Erasmo e Ponziano presso la chiesa di San Bartolomeo. Ulteriori informazioni sulla situazione ecclesiastica andriese in età riccardiana sono deducibili da una lettera di Alessandro III (1159-1181), indirizzata al vescovo di Andria (senza riferimenti precisi al nome), in cui sono affrontati alcuni casi di giustizia amministrativa, penale o fiscale che il vescovo aveva ritenuto di dover sottoporre al parere o alla sanzione della sede romana.

Se il suo episcopato prese le mosse durante il pacifico e promettente regno del normanno Guglielmo I (il Buono), ben presto gli opposti interessi fra le classi dominanti determinarono uno scontro tra componenti etniche contrapposte e inasprirono la lotta tra gli irrequieti capi normanni. Al culmine della contrapposizione vi fu il sanguinoso scontro tra Ruggero, conte di Andria, gran connestabile e giustiziere della Puglia, e Tancredi di Altavilla, conte di Lecce, entrambi pretendenti al trono vacante. La morte del vescovo Riccardo seguì di poco il cambio di governo nel Mezzogiorno.

I decenni seguenti hanno lasciato nella storia di Andria tracce evidenti, specie ad opera dell’imperatore Federico II, sia per la costruzione del Castel del Monte, insigne esempio di architettura civile sveva in Italia meridionale, voluto dall’imperatore presso il monastero benedettino di Santa Maria al Monte, sia per la tradizionale notizia della sepoltura delle due mogli dell’imperatore, Isabella e Iolanda, nella chiesa cattedrale di Andria. Tanto si è scritto dell’architettura di Castel del Monte. È significativo notare che la collocazione del castello federiciano è pressoché identica a quella di un precedente monastero benedettino maschile, titolato S. Mariae de Monte Balneoli, divenuto in seguito monastero cistercense e fondato certamente prima del 1120, anno in cui, per la prima volta si trova citato un “monasterium Sancte Marie de Monte”. Inoltre è degno di nota l’impiego degli stilemi architettonici tipici dell’arte cistercense (furono i monaci architetti cistercensi ad introdurre le prime novità stilistiche che, successivamente, diedero vita alla stagione del gotico francese e nord-europeo) nel maniero svevo. Indicativo è l’uso di alcune arcate superiori alle porte del castello federiciano di Andria, identiche a quelle presenti nel monastero di Casamari. Da ciò è facilmente deducibile l’utilizzo di maestranze cistercensi nella progettazione e realizzazione di Castel del Monte.

Con la morte di Corradino, ultimo erede della dinastia sveva, dal 1264 la Puglia passò sotto la dominazione angioina. Il ducato di Andria fu affidato alla famiglia Del Balzo. Ai Del Balzo sono legati ben due secoli della storia civile e religiosa di Andria, città dove essi, dal 1308 al 1487, ininterrottamente esercitarono il loro dominio. I Del Balzo erano scesi in Italia al seguito di Carlo d’Angiò, collaborando alla conquista del regno di Puglia e di Sicilia.

Beatrice d’Angiò, sposa del duca Bertrando Del Balzo, giunse in città nel 1308. Secondo una ben radicata tradizione, Beatrice portò nella dote matrimoniale una spina della corona di Cristo, con ogni probabilità ottenuta dallo zio, il re di Francia Luigi IX, attingendo alla corona custodita gelosamente dalla dinastia francese nella Saint Chapelle, a Parigi, e frutto delle crociate. La reliquia fu donata al vescovo Giovanni (1307-1318) ed al Capitolo della città ed è tuttora venerata nella cattedrale di Andria. Sotto i Del Balzo, nel 1398, si insediavano ad Andria i Domenicani, che costruirono il loro convento, dopo quello dei Conventuali (l’attuale Palazzo di Città), quello degli Osservanti presso la chiesa di Santa Maria Vetere, e quello degli Agostiniani. Il 1431 il ducato passò a Francesco II, al quale si deve il rinvenimento del corpo di s. Riccardo durante l’episcopato del vescovo Dondei (1435-1451). Tale ritrovamento, avvenuto il 23 aprile del 1438, segnò la ripresa del culto del santo, con l’elevazione agli onori degli altari del vescovo di Andria, sotto il pontificato di Eugenio IV, ed il riconoscimento del titolo di patrono della città. Solo successivamente, per disposizione di Urbano VII, Riccardo di Andria venne iscritto nel Martirologio Romano. Negli anni del ducato di Francesco II e su sua esplicita richiesta, la diocesi di Andria fu unita a quella di Montescaglioso (dal 1452 al 1479).

I Del Balzo hanno lasciato alla comunità civile e religiosa andriese una preziosa eredità di beni culturali, unici nella regione. Il ducato, infatti, godette di grande prestigio e ricchezza, dando origine ad una vera “rinascenza andriese” nelle arti e nello sviluppo urbanistico e socio-economico della città. Francesco II Del Balzo, indubbiamente animo nobile e sensibile, sentì il fascino delle voci nuove della cultura che fioriva alla corte di Napoli e, a contatto con l’ambiente napoletano, riportò quelle voci rinascimentali nella sua città, arricchendola di autentici capolavori, quale il suo busto, realizzato in marmo dal Laurana ed attualmente conservato tra le opere dell’erigendo museo diocesano. L’intero complesso conventuale di San Domenico, in particolare il portale e la sagrestia, rappresenta un significativo esempio di architettura rinascimentale in terra di Puglia. Altri esempi insigni di opere quattrocentesche, giudicate il più notevole esempio di pittura rinascimentale in Puglia, sono le due raffinate tavole, di scuola franco-provenzale datate 1487-1488, raffiguranti il Cristo benedicente e la Madonna che intercede per la città (rappresentata in una significativa vista dell’epoca), che fungevano da chiusura dell’armadio delle reliquie posto sull’altare maggiore della nuova cappella dedicata a s. Riccardo, fatta erigere proprio in quegli anni dal duca Francesco II. All’interno della cappella è di interesse notevole la raffigurazione di formelle in pietra scolpita che ripresentano episodi tratti da una vita anonima del santo patrono e che offrono uno spaccato del vissuto della popolazione cristiana andriese del Quattrocento.

Con l’avvento degli Spagnoli nel Regno di Napoli, Andria venne assegnata prima a don Consalvo di Cordova, viceré di Napoli, poi al nipote di questo, don Fernandez Consalvo II, che, nel 1552, la vendette al Conte di Ruvo, Fabrizio Carafa. Sono questi gli anni della celebrazione del concilio di Trento (1543-1565). Non si fa cenno alla presenza del vescovo di Andria ai lavori conciliari. Tra l’altro la sede vescovile di Andria fu retta, in quegli anni, da una dinastia episcopale della famiglia dei Fieschi, originari di Genova (Nicola, 1517-1517; Giovanni Francesco, 1517-1562; Luca 1566-1582), i cui episcopati sono ancora poco noti e meriterebbero un supplemento di indagine storica. Degna di nota in questo periodo è, innanzitutto, la fondazione e costruzione dell’imponente monastero delle Benedettine, dedicato alla ss. Trinità (o a s. Benedetto). Ubicato nel centro storico cittadino, nelle immediate adiacenze della Cattedrale, il monastero fu approvato nel 1563 da Pio IV; tuttavia l’effettiva apertura si ebbe solo nel 1582. La comunità raggiunse momenti di vera fioritura, non superando normalmente il numero di 40 monache. Era destinato all’educazione delle fanciulle appartenenti alle famiglie dei notabili di Andria e le sue dotazioni crebbero notevolmente, tanto da possedere, nel sec. XVIII, immobili urbani e vasti terreni fuori città. La scoperta dell’immagine della Madonna dei Miracoli (1576) e la costruzione del monastero dei Benedettini e della grande basilica, avviata da Fabrizio II Carafa, rappresentarono un ulteriore e significativo momento di vitalità e vivacità della vita spirituale del popolo andriese. Il monastero, di obbedienza cassinese, fu edificato a circa 2 km dal centro cittadino, in direzione nord-ovest uscendo da porta Sant’Andrea ed ottenne l’approvazione pontificia il 13 gennaio 1580 da Gregorio XIII con la bolla Cathedram praeminentiae pastoralis. I primi monaci provenivano dall’abbazia napoletana dei Santi Severino e Sossio. Nel 1605, Paolo V annetteva il monastero alla provincia napoletana allora costituita, mentre Innocenzo X, con la bolla Inter praeclara del 1649, fissava il numero dei membri della comunità a 32 monaci. Ulteriore novità di questi anni fu l’avvio della presenza cappuccina in città, con la fondazione e l’edificazione di un convento cappuccino sulla via per Trani, a circa 1 km e mezzo dall’abitato dell’epoca e datato con attendibilità nell’anno 1577. Infatti, una bolla di Gregorio XIII del 15 giugno 1577 autorizza la contessa di Ruvo, donna Adriana Carafa, vedova del duca Antonio, figlio di Fabrizio, conte di Ruvo, a far trasportare il materiale necessario per l’edificazione del nuovo convento cappuccino di Andria anche durante i giorni festivi, senza timore di incorrere in peccato.

Il primo vescovo tridentino, residente e disciplinatore, fu certamente Luca Antonio Resta, nativo di Mesagne, il cui episcopato, non lunghissimo (1582-1597), fu caratterizzato da un’attenta opera di ricognizione della situazione diocesana attraverso uno strumento tipico del disciplinamento cattolico, secondo il modello paradigmatico di Carlo Borromeo: la visita pastorale. Di essa resta un’approfondita e meticolosa relazione con le conseguenti disposizioni disciplinari, raccolte in una pubblicazione, nota come Directorium visitatatorum acvisitandorum cum praxi, et formula generalis visitationis omnium …, editata a Roma dalla stamperia Guielmi Facciotti nel 1593. Tale opera rappresentò per l’epoca un modello di visita pastorale del “buon pastore cattolico riformatore” ed un vero manuale con indicazioni pratiche anche per altri vescovi diocesani e visitatori che volessero fedelmente seguire le indicazioni e lo slancio riformatore del concilio tridentino. Interessantissime sono le informazioni che il Resta fornisce rispetto alla situazione delle chiese, dei monasteri, dei conventi, con le rispettive dotazioni, del clero e dei religiosi e della loro disciplina a volte faticosa, della pietà cristiana del popolo, offrendo lo spaccato di una “società ufficialmente cristiana”.

La vita di Andria nei sec. XVII-XVIII fu contrassegnata dalle continue lotte tra il Capitolo Cattedrale e la collegiata di San Nicola, e tra i Carafa e i vescovi della città sia per il predominio politico, sia per la spartizione delle esose imposte e delle rilevanti rendite. La sua popolazione rimase pressoché costante, aggirantesi sui 10-12 mila abitanti. Intanto Andria si espandeva fuori le mura, specie per la presenza di importanti insediamenti conventuali. Alla fine del 1700 le statistiche riportano la presenza di 140 sacerdoti, 151 monaci e fratelli laici, 58 monache e converse, per un totale di 349 religiosi, sui circa 13.000 mila abitanti. Nonostante la pletora ecclesiastica i vescovi del ’600 e del ’700 non riuscirono ad incrementare il numero delle parrocchie. Le uniche chiese battesimali rimasero la cattedrale e la collegiata di San Nicola. Occorrerà attendere l’avvento dei francesi ed il concordato tra Regno di Napoli e la Santa Sede, dopo l’età napoleonica, per vedere avviato il processo di fondazione delle nuove parrocchie, all’esterno della cinta muraria medievale della città. È significativo, inoltre, notare che le scelte disciplinari del concilio di Trento tardarono a trovare applicazione anche per una oggettiva debolezza dei decreti tridentini, soprattutto rispetto agli strumenti giuridici offerti ai vescovi per dotare le nuove parrocchie di fondi e di benefici per il sostentamento del clero in cura d’anime. La disposizione tridentina relativa all’istituzione del seminario trovò riscontro soltanto più di un secolo e mezzo dopo la conclusione dell’assise conciliare, con notevoli difficoltà per reperire i fondi necessari per il mantenimento della struttura, dei chierici e la retribuzione dei docenti. La fondazione del seminario diocesano, infatti, risale al vescovo Ariani, nel 1705. Degno di nota, in questi anni, è l’episodio legato allo scontro tra il vescovo Pietro Vecchia (1690-1691) ed il duca Fabrizio V Carafa rispetto alla presenza del trono ducale nel presbiterio della cattedrale. Tale privilegio era stato concesso dal vescovo e dal Capitolo Cattedrale sin dall’arrivo di Bertrando Del Balzo ad Andria e della sua sposa Beatrice d’Angiò, in segno di gratitudine per la donazione della Sacra Spina. Il duca, in virtù di questo privilegio, poteva assistere alle funzioni capitolari e vescovili indossando una mantelletta, insieme ai dignitari della sua corte. Nel corso degli anni e con l’alternarsi dei vescovi e dei signori della città il privilegio bauciano fu all’origine di contese tra le legittime rivendicazioni di autonomia dell’autorità ecclesiastica ed i reiterati tentativi di ampliamento delle prerogative giurisdizionali in ambito ecclesiastico da parte dei detentori del governo civile della città. In clima di incipiente giurisdizionalismo lo scontro tra il vescovo e la famiglia Carafa divenne inevitabile, determinando una rottura dei faticosi equilibri dell’età precedente ed, in qualche modo, anticipando gli esiti di un processo che attraverserà l’intero secolo XVIII, fino all’arrivo dei Francesi in terra di Puglia alla fine del secolo.

Il 23 marzo 1799, infatti, la città subì un violentissimo assedio, con conseguenti distruzioni, incendi e stragi, da parte del generale francese Broussier. La città fu messa a ferro e fuoco e perirono numerosi sacerdoti, religiosi e laici. Venne saccheggiato il monastero delle Benedettine che, miracolosamente, riuscirono a mettersi in salvo nel palazzo ducale. Sorte più atroce colpì il monastero maschile di Santa Maria dei Miracoli, anch’esso saccheggiato, che subì l’imprigionamento di alcuni monaci. Il periodo napoleonico rappresentò certamente il capovolgimento di una perdurante e lenta stagnazione economica e politico-amministrativa; tuttavia, le innovazioni in ambito giudiziario e nella ristrutturazione del latifondo e delle terre pubbliche lasciò di fatto completamente ai margini larga parte della popolazione, a tutto vantaggio di pochi privilegiati. La “legge eversiva della feudalità” emanata da Giuseppe Bonaparte, nonostante le suppliche della popolazione e della municipalità andriese, determinò la soppressione del monastero cassinese di Santa Maria dei Miracoli, con decreto del 13 febbraio 1807, dopo aver scacciato i restanti abitatori e confiscato i beni di cui era dotato. Medesima sorte sarebbe toccata ai restanti monasteri e conventi, nel corso di poco più di un cinquantennio, soprattutto con l’avvento del Regno d’Italia nel Mezzogiorno (1861).

Frattanto, come si è detto in precedenza, Pio VII aveva annesso ad Andria la diocesi soppressa di Minervino (1818).

La diocesi di Minervino dalle origini alla soppressione del 1818

La storia della diocesi di Minervino prende avvio presumibilmente verso la fine del secolo XI e comprende, sin dalla sua origine, due centri urbani: Minervino e la vicina Montemilone. Nella bolla (1025) di Giovanni XIX a Bisanzio, arcivescovo di Canosa, Minervino viene menzionata tra i territori sotto la giurisdizione del metropolita di Canosa, pur non essendo chiaro se già si trattasse di diocesi autonoma. Secondo una tradizione locale, attestata dagli stemmi dei vescovi dipinti nei saloni dell’episcopio, primo vescovo di Minervino fu Bisanzio (1069?). Più certa la storicità di Innacius, che partecipò, nel 1071, alla solenne consacrazione della chiesa di Montecassino. Tuttavia si può parlare certamente della sede di Minervino come chiesa autonoma, suffraganea della Chiesa di Bari, in virtù di un’attestazione documentaria di Eugenio III, redatta a Segni il 18 marzo 1152 e indirizzata all’arcivescovo di Bari Giovanni. La sede di Minervino, pertanto, doveva essere già costituita nella metà del secolo XII, essendo coeva alla maggior parte delle sedi viciniori, costituitesi negli stessi anni caratterizzati dal rafforzamento e dalla stabilizzazione del potere politico normanno in terra di Puglia e, di conseguenza, dalla costituzione in civitates dei numerosi centri urbani della regione.

Minervino, Grotta di S. Michele - statua
[Minervino, grotta di S.Michele, statua dell'Arcangelo]

La cronotassi episcopale della sede minervinese conta quaranta presuli. Tra questi, le personalità più note sono Antonio Sassolino (1525-1528), già generale dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, e Giovanni Vincenzo Micheli (1545-1596), il quale partecipò al concilio di Trento.

Il 30 agosto del 1608 venne solennemente riconsacrata la cattedrale di Minervino, di fondazione coeva alla diocesi ed ampiamente restaurata ed arricchita in età post-tridentina. Il secolo XVII fu abbastanza travagliato per Minervino, con alterne vicende legate al ripetuto passaggio di mano del piccolo feudo tra varie famiglie di principi. Degna di nota è la famiglia papale dei Pignatelli, principi di Spinazzola e di Lavello, che entrarono in possesso del feudo di Minervino nel 1619 e lo mantennero fino al 1675, quando Marzio Pignatelli, fratello del futuro papa Innocenzo XII, lo cedette alla famiglia Tuttavilla. I Pignatelli lasciarono numerose tracce della presenza a Minervino edificando il nuovo Sedile, un asilo per i poveri e il nuovo altare maggiore della Cattedrale, rimasto in uso fino all’intervento di mons. Longobardi del 1857. Unico privilegio concesso da papa Pignatelli (nato a Spinazzola prima che suo padre entrasse in possesso del feudo di Minervino) al vescovo della città fu l’aumento di 100 ducati della rendita della mensa vescovile, allora ammontante a soli 600 ducati. Sempre ai Pignatelli è da far risalire l’edificazione di un primo nucleo della chiesa della Madonna del Sabato. Dal punto di vista socio-religioso è interessante evidenziare la particolare collocazione del principale santuario mariano della città che, insieme ad una rete di altri luoghi di culto, cari alla pietà popolare minervinese e situati fuori delle mura della città antica ( la grotta di San Michele, le chiese della Beata Vergine Maria Incoronata e della Madonna della Croce), se pure faticosamente databili, data la scarsità di fonti a cui attingere, rappresentò un polo di attrazione delle popolazioni della zona e del circondario, particolarmente interessate al fenomeno della transumanza. In quest’ottica è più facilmente spiegabile la scelta delle titolazioni e delle date delle festività religiose cittadine. Il legame, ancora molto vivo, al culto micaelico, proveniente dal santuario garganico, e quello con il santuario mariano dell’Incoronata, nei pressi di Foggia, le annesse peregrinazioni, la collocazione delle feste liturgiche della Madonna del Sabato e della festa patronale di s. Michele arcangelo ad inizio primavera ed in autunno, sembrano seguire in modo non casuale il ciclo agricolo-pastorale, che per secoli ha ritmato la vita della maggior parte delle popolazioni cristiane della diocesi minervinese.

Il secolo XVIII per Minervino segnò, nel clima diffuso del crescente giurisdizionalismo, un accentuato contrasto tra l’autorità ecclesiastica ed i nuovi signori della città, i Tuttavilla di Calabritto. Particolarmente aspro fu lo scontro sui beni del Capitolo e quelli del demanio, con ripetuti tentativi di appropriazione indebita da parte dei duchi della città, non passati al ricordo del popolo minervinese come particolarmente munifici. Più solerte risultò l’opera della municipalità, con interventi urbanistici di un certo rilievo. L’azione pastorale dei vescovi fu, tuttavia, limitata anche per una perdurante tendenza a non risiedere in città, nonostante i decreti tridentini. Maggiore efficacia pastorale è, invece, rintracciabile nell’azione degli arcidiaconi minervinesi, responsabili del collegio canonicale della cattedrale, unica chiesa battesimale della città fino alla metà dell’Ottocento. L’assenza di collegi ed istituzioni educative, l’impossibilità di fondare un seminario per la pressoché totale assenza di rendite rappresentarono certamente un limite per una più efficace azione educativa delle classi meno abbienti e per la stessa qualità del clero diocesano. Non mancarono, tuttavia, preti illuminati e non meno efficace fu l’azione di un istituto religioso femminile, il conservatorio per l’educazione delle fanciulle, sorto nel 1738 e dotato di regio assenso nel 1758.

Altrettanto benemerita fu l’azione formativa confraternale. È degna di nota la confraternita dell’Immacolata Concezione, protagonista di una qualificata e ricca opera di committenza per il decoro della chiesa confraternale. Le altre confraternite, meno attive e tuttavia presenti in città, furono la confraternita del Purgatorio, la confraternita del S.mo Sacramento e quella dei sacerdoti del S.mo Redentore. Esse restarono espressione tipica e vivace della pietà popolare in età post-tridentina.

Non va dimenticata l’azione dei religiosi, presenti nella diocesi di Minervino con i conventi dei frati Minori e dei Cappuccini; la presenza di monasteri femminili delle Clarisse e, successivamente, delle Visitandine.

Preziose informazioni che permettono uno spaccato interessante della vita ecclesiale e civile della Chiesa di Minervino nel ’700 giungono dalla visita apostolica di Antonio Pacecco, vescovo di Bisceglie, inviato a Minervino, negli anni 1728-1731, per dirimere uno scontro tra il clero minervinese ed il vescovo Nicolò Pignatelli, dietro intervento del card. Francesco Antonio Finy (nato a Minervino il 1669 e divenuto vescovo di Avellino ed, in seguito, segretario del concilio Romano nel 1725, cardinale nel 1726 ed auditor del papa nel 1729).

Ultimo vescovo della sede di Minervino, lasciata anticipatamente rispetto alla sua soppressione, fu Pietro Mancini (1792-1803), nativo di San Marco in Lamis, che rinunziò alla diocesi a seguito di un difficile clima politico, tipico degli anni a cavallo dei secoli XVIII e XIX. Uniche tracce del suo episcopato rimangono la lapide di consacrazione della chiesa dell’Immacolata Concezione (1794), lo stemma sulla cattedra episcopale, nel coro della cattedrale, e lo stemma sui pomi del faldistorio, ancora conservato nella chiesa madre di Minervino. Il 1818 segnò il passaggio della Chiesa minervinese alla giurisdizione del vescovo di Andria e la soppressione della sede episcopale.

La diocesi di Andria dal 1818 al concilio Vaticano II

A seguito del concordato tra il Regno delle Due Sicilie e la S. Sede (1818), negli anni della Restaurazione, la diocesi di Andria estendeva la sua giurisdizione al territorio dell’antica sede di Canosa, già unita alla diocesi di Minervino nel 1810, che veniva a sua volta soppressa, essendo ormai priva di rendite sufficienti a garantire lo stesso sostentamento del vescovo diocesano.

L’annessione del meridione al Regno d’Italia (1861) vide esplodere anche nella Terra di Bari i problemi tipici dell’età post-unitaria: la soppressione dei conventi e dei monasteri maschili e femminili, l’incameramento e la discutibile ripartizione dei beni ecclesiastici (andata ad esclusivo vantaggio della borghesia medio-alta, lasciando gran parte della popolazione in una condizione bracciantile di grande miseria), la novità della costrizione militare. In questo quadro politico-amministrativo fortemente mutato, furono definitivamente soppressi (1866) il monastero di Santa Maria dei Miracoli (affidato agli Agostiniani nel 1838, dopo l’espulsione dei Benedettini da parte di Giuseppe Bonaparte) e, successivamente, furono incamerati i beni del monastero e l’intero complesso abbaziale, divenuto colonia agricola nel 1877 ed, in seguito, sede dell’Istituto Tecnico Agrario. Le leggi eversive colpirono anche il monastero benedettino femminile della Trinità (soppresso nel 1866); ciò nonostante, le monache vi rimasero fino al 1914. Gli edifici del secolo XVIII vennero demoliti (1939) insieme alla chiesa abbaziale, per far posto al mercato comunale. Stessa sorte era toccata anni prima ai due grandi complessi conventuali di San Francesco e di San Domenico, le cui comunità religiose erano state soppresse e cacciate in età napoleonica. Nei primi anni del nascente stato unitario, erano divenuti sede del nuovo Palazzo di Città e di svariati altri uffici dell’amministrazione periferica dello stato.

L’Ottocento segnò, tuttavia, un forte impulso per la riorganizzazione pastorale della diocesi, in particolare con l’istituzione di nuove parrocchie. È da menzionare, innanzitutto, l’opera dei vescovi Giovanni Battista Bolognese (1822-1830) e Giuseppe Cosenza (1832-1850). Bolognese, nel 1823, propose alla S. Sede il superamento dell’unica istituzione parrocchiale, dando seguito al primo tentativo settecentesco di Francesco Ferrante (1757-1773), che scatenò lo scontro frontale tra il vescovo ed il Capitolo Cattedrale. La proposta di mons. Bolognese coglieva l’urgenza di una più opportuna cura pastorale della popolazione andriese e, contestualmente, cercava di superare gli antagonismi, mai del tutto sopiti, tra il Capitolo Cattedrale e le due collegiate di San Nicola e dell’Annunziata. Il progetto di Bolognese fu ripreso dal nuovo vescovo, il dotto teologo napoletano Giuseppe Cosenza che resse la diocesi per diciotto anni (1832-1850). Nel 1843 Cosenza elaborò un piano teso a riordinare la disciplina dei collegi canonicali e finalizzato a determinare con precisione la situazione beneficiale dei Capitoli. L’intento preciso del vescovo Cosenza, prima ancora che la riorganizzazione delle parrocchie, era quello di un rinnovamento profondo della vita e della disciplina del clero che desiderava fosse di qualità. Per questa ragione, negli anni precedenti (1838-1839) aveva decretato lo spostamento del seminario dalla vecchia ed angusta sede, nei pressi dell’episcopio, in una sede rinnovata ed ampia, presso l’antico convento dei Carmelitani. Negli stessi anni chiamò la Compagnia di Gesù a dirigere il seminario, elaborando un nuovo piano di studi secondo la Ratio studiorum e le rinnovate esigenze richieste dai tempi nuovi. In aggiunta all’opera formativa del seminario, il vescovo stesso si impegnò ad organizzare settimanalmente incontri formativi e di aggiornamento per il clero, aperti anche ai laici, tenuti pubblicamente in cattedrale, durante i quali il vescovo sottoponeva ai suoi preti e laici lo studio di “casi di coscienza”, per far crescere una sensibilità pastorale più spiccata. La vastità del progetto di riforma di Cosenza e le resistenze del vecchio clero capitolare, unite al clima rivoluzionario del ’48, fecero propendere per un ritiro del Piano di clero ricettizio, proposto dal vescovo nel 1843 e, tra l’altro, già approvato da buona parte del clero e degli stessi capitolari nel 1845.

L’episcopato di Giovanni Giuseppe Longobardi (1852-1870) segnò la svolta decisiva per la nascita delle nuove parrocchie di Andria. Egli veniva dalla duplice esperienza di parroco e di capitolare della diocesi di Castellammare di Stabia. Il suo temperamento fermo e tenace, unito a competenza ed esperienza, lo condussero a leggere con chiarezza le esigenze ormai maturate da tempo e ad agire di conseguenza. Dopo la relazione ad limina del 1856, ad un anno di distanza (23 aprile 1857) la S. Congregazione del Concilio emanava il decreto di erezione di sei nuove parrocchie ad Andria, incaricando il vescovo diocesano di dare attuazione al decreto in qualità di delegato apostolico. Il vescovo, forte del mandato pontificio, il 26 settembre 1857 decretava l’istituzione delle sei parrocchie (Cattedrale, San Nicola, Annunziata, San Francesco, Sant’Agostino e San Domenico). Le parrocchie vennero dotate di beneficio, con la contemporanea soppressione di sette canonicati, dai cui proventi si sarebbe costituita la congrua per i sei nuovi parroci. Si trattò di una tappa storica per la città, divenuta ormai uno dei centri di primaria grandezza nel panorama regionale. Andria, infatti, raggiungeva in quegli anni 30.000 abitanti, seconda solo a Bari, con 34.000 abitanti, ed a Foggia, con 32.000. Le leggi speciali del nuovo stato unitario, datate 15 agosto 1867 e 11 agosto 1870 avrebbero ridotto al numero di sei le dignità capitolari, incamerando tutti i restanti beni. Solo alle parrocchie fu riconosciuto il diritto di possedere beni immobili. La scelta di Longobardi, anche per questo, si dimostrò profetica. Stessa preziosa opera, se pure più limitata per proporzioni, è da attribuire all’episcopato di Federico Maria Galdi (1872-1899) per i centri di Canosa e di Minervino, dove non minori furono le resistenze del clero capitolare e, specie a Minervino, alcune risoluzioni stentarono ad essere accolte e sostenute, determinando non poco danno alla cura pastorale della popolazione minervinese, coinvolta nei fermenti rivoluzionari ed anticlericali del socialismo negli strati più larghi del bracciantato e della massoneria liberale nella piccola e media borghesia.

Nel corso del secolo XX, Andria vide una notevole espansione della città con un considerevole incremento della popolazione. Il lungo episcopato di Giuseppe Staiti (1899-1916) fu ricco di novità significative per la vita diocesana. In quegli anni, infatti, si posero le premesse per la nascita delle prime forme di associazionismo laicale come l’Unione fra le donne cattoliche d’Italia (28 dicembre1908), primo germe dell’Azione Cattolica andriese. Altra novità degna di nota è l’attività economico-sociale sviluppatasi, negli stessi anni dell’episcopato del vescovo Staiti, intorno alla figura del sacerdote andriese Riccardo Lotti.

L’esperienza di Lotti ad Andria fu particolarmente significativa. Ordinato prete nel 1902, fu artefice del fiorire di numerose attività sociali e di cooperativismo bianco. Nel 1909 diede vita ad un esperimento di mezzadria collettiva tra contadini, stretti in una Lega, su un appezzamento offerto per l’occasione dall’avv. Squadrilli. Erano gli inizi dell’esperienza del movimento cattolico diocesano nella sua duplice espressione: religioso-formativa (Azione Cattolica) e socio-politica (Partito Popolare). Più intensa si fece l’attività del PPI ad Andria negli anni del primo dopoguerra. Nella primavera del 1919 Riccardo Lotti, con un gruppo di giovani cattolici, diede vita alla prima sezione del Partito Popolare, di cui fu eletto segretario politico. Durante il congresso di Napoli del 1920, Lotti fu eletto consigliere nazionale, schierandosi con l’ala migliolina e contestando la linea che era prevalsa nel congresso rispetto alla questione agraria. Egli avvertiva l’urgenza di una riforma agraria che mettesse fine al latifondo e contribuisse a determinare la rinascita dell’agricoltura meridionale, oltre che il miglioramento delle condizioni dei ceti agricoli e bracciantili più poveri. Fu severo nei confronti delle violenze e delle agitazioni perseguite dal movimento socialista anche contro le organizzazioni bianche, pur non rifiutando il ricorso al legittimo uso dello sciopero. Egli, tuttavia, preferiva la ricerca di ampi consensi sociali e politici, evitando di turbare l’ordine pubblico. Lotti intuì presto il pericolo rappresentato dal fascismo, denunciandone i metodi improntati alla violenza ed alla rappresaglia nei confronti degli avversari politici. La sua presa di posizione coraggiosa gli fruttò tre aggressioni fisiche da parte dei fascisti e, nel 1924, gli venne impedito di votare. Il prestigio e la stima di cui poté godere proseguì anche in pieno avvento della dittatura.

I primi passi delle organizzazioni cattoliche ad Andria ebbero un convinto sostegno nei brevi ed intensi anni dell’episcopato di Eugenio Tosi (1916-1922), eletto poi cardinale-arcivescovo di Milano, diocesi da cui proveniva. L’episcopato di Giuseppe Di Donna (1940-1952) si collocò nel periodo bellico della seconda guerra mondiale. La carità pastorale e l’infaticabile azione di pacificazione sociale negli anni duri dello scontro ideologico del dopoguerra, ne fanno una delle figure più significative e fulgide della Chiesa diocesana nel Novecento. Per lui è in corso il processo di canonizzazione. Gli anni del secondo dopo guerra furono caratterizzati da una forte emigrazione della popolazione andriese, in particolare verso il nord Europa (Belgio, Germania e Francia) e verso le più industrializzate città del nord della penisola. Non mancò un accompagnamento degli emigrati da parte della comunità cristiana, attraverso l’impiego di alcuni sacerdoti nel servizio di cappellani: basti pensare alla meritoria opera di mons. Riccardo Zingaro.

Il dopoguerra andriese ebbe in Onofrio Jannuzzi un esponente politico di primo piano. Divenuto sindaco dal 1944 al 1945 tra le liste del partito liberale, fu nuovamente eletto negli anni 1952-1956 come esponente della DC. Venne eletto senatore DC durante le elezioni del 1948, per il collegio di Molfetta, rimanendo in Parlamento ininterrottamente per le successive quattro legislature. Durante il VII governo De Gasperi (1951-1953) fu sottosegretario alla Difesa e delegato italiano alla XXI Assemblea dell’ONU. Innumerevoli furono gli incarichi parlamentari, mentre la sua attività istituzionale si preoccupò di dare un significativo contributo alle leggi di Riforma fondiaria, particolarmente sentite in larghi strati della popolazione andriese. L’episcopato di Luigi Pirelli (1952-1957) fu interrotto traumaticamente a seguito di incomprensioni e rotture tra il vescovo ed alcuni esponenti politici e del clero locale.

Francesco Brustia (1957-1969) fu padre conciliare e diede avvio alla traduzione delle indicazioni del Vaticano II in diocesi, opera proseguita con determinazione durante il suo ventennale episcopato da Giuseppe Lanave (1969-1988). Significative e, per molti versi, lungimiranti, negli anni immediatamente successivi al concilio, furono le scelte educative per il seminario minore: fu tra i primi seminari a scegliere di chiudere la scuola interna, indirizzando i seminaristi presso le scuole pubbliche. Vi fu un forte investimento nella formazione di un laicato adulto e preparato, attraverso il sostegno all’attività formativa ordinaria dell’Azione Cattolica, presente in quasi tutte le parrocchie della diocesi e dalla cui esperienza nazionale il vescovo Lanave proveniva. Egli era stato, infatti, per alcuni anni a Roma assistente centrale della GIAC (1955-1964) e poi dell’Unione Uomini (1964-1969). Anche la nascita dell’Istituto di Scienze Religiose, all’inizio degli anni ’80, contribuì a diffondere una cultura teologico-pastorale nel laicato impegnato in parrocchia o nell’insegnamento della religione cattolica nella scuola. Le scelte operate da Lanave non sempre furono comprese e condivise, tuttavia, alcune incomprensioni sono probabilmente riconducibili al clima faticoso che attraversò anche gli ambienti ecclesiali negli anni duri della contestazione.

L’episcopato di Lanave vide il fiorire di un considerevole numero di vocazioni al ministero ordinato, risultato richiamato con fierezza dal vescovo, a conclusione del suo mandato episcopale, durante l’omelia di saluto alla diocesi del 21 novembre 1988. Lo sviluppo delle città della diocesi determinò l’erezione di nuove parrocchie e la conseguente fatica nel dotarle di strutture adeguate. Si pensi agli sforzi per la costruzione di alcuni locali per il ministero pastorale delle nuove parrocchie del S.mo Sacramento, del Cuore Immacolato di Maria e di San Giuseppe Artigiano (agli inizi degli anni ’70); in seguito si aggiungeranno le parrocchie di San Luigi a Castel del Monte, di San Riccardo (nel popoloso quartiere di San Valentino, nato fuori del tessuto urbano della città e che ancora oggi attende un pieno recupero e reintegro nel tessuto cittadino), di San Paolo Apostolo e Sant’Andrea Apostolo (tra la fine degli anni ’70 ed i primi anni ’80) per la città di Andria. Identico sforzo coinvolse la diocesi, negli stessi anni, per le parrocchie di Santa Teresa, della B.V. Maria del Rosario, di San Giovanni al Piano e di Gesù Liberatore a Canosa e per la parrocchia della Trasfigurazione a Minervino. La preoccupazione per una adeguata e più funzionale sistemazione delle parrocchie periferiche, aiutata dai contributi della Conferenza Episcopale Italiana, è proseguita con intensità e determinazione durante l’episcopato di Raffaele Calabro, ordinato vescovo da Giovanni Paolo II il 6 gennaio 1989.

Bibliografia

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[tratto da “Andria” di Adriano Caricati, in “ Storia delle Chiese di Puglia”, (a cura) di Salvatore Palese e Luigi Michele de Palma, Bari, Ecumenica Editrice, 2008, pp. 71-92]

NOTE

[1] Il redattore del sito andriarte.it, Sabino Di Tommaso, ringrazia l'autore Don Adriano Caricati per aver concesso (in un breve colloquio sabato 9 giugno 2018) la pubblicazione su tale sito web di questo suo interessante studio sulle Chiese della Diocesi di Andria, così che possa raggiungere più facilmente quanti desiderano approfondire la conoscenza della storia civile e religiosa della nostra Città.