ricerche V.Zito - N.Montepulciano

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“Rivista Diocesana Andriese”

Anno LIV - n. 2 - Maggio/Agosto 2011

NUOVE RICERCHE
SUL

SANTUARIO

DELLA

MADONNA D’ANDRIA

di Nicola Montepulciano e Vincenzo Zito

Le ricerche svolte in occasione delle celebrazioni giubilari nel centenario dell’elevazione a basilica minore del santuario della Madonna dei Miracoli in Andria (2006-2007) hanno permesso di far luce su molti aspetti del santuario stesso e costituiscono senz’altro un punto fermo per la sua conoscenza. Tuttavia con la pubblicazione degli atti di tali ricerche (1) non si può dire che queste siano terminate. Per un’opera dalla storia così complessa, come il nostro santuario, le ricerche e le scoperte, a volte anche casuali, non hanno termine. La recente ristampa anastatica del libro di Giovanni di Franco Di Santa Maria dei Miracoli (2), ha dato a queste un novello impulso.
Si presentano quindi i risultati di alcune di queste ricerche.

1. Note integrative su Giovanni e Valeriano di Franco, con riflessi sul santuario (3)

Il libro Di Santa Maria dei Miracoli di Giovanni di Franco da Catania costituisce l’unica fonte degli avvenimenti che vanno dalla scoperta della sacra Immagine sino al 1606. Clara Gelao, nel suo lavoro sull’architettura del santuario (Gelao 2008), al fine di verificare l’attendibilità della fonte, solleva il problema della necessità di dover acquisire maggiori conoscenze su Giovanni di Franco e sul fratello Valeriano, “decano titolare” di un non meglio precisato monastero, ed a questi personaggi dedica gran parte del proprio lavoro.
Le notizie raccolte e le conclusioni cui giunge la Gelao sono sintetizzabili come segue.
Giovanni di Franco (latinizzato in de Franchis nei testi dell’epoca (4) o reso al plurale di Franchi da Giovanni medesimo(5)) è stato dottore in Sacra teologia, Protonotario apostolico, canonico della cattedrale di Catania e, per un breve periodo, vicario generale del vescovo di questa città.
Valeriano di Franco (latinizzato, a seconda gli Autori, in de Franchis e in Franchus) è stato priore del cenobio benedettino di San Salvatore a Cerami e si è distinto all’interno del suo Ordine per la sua profonda cultura nelle scienze religiose, umanistiche e matematiche. Per la sua erudizione nelle scienze religiose ed umanistiche è stato autore di una Corona benedettina della SS.ma Trinità e della B.V. e, in tarda età, della rielaborazione della Istoria delle cose insigni e famose successe di Catania clarissima città della Sicilia […], meglio nota col nome di Cataneide, opera manoscritta di O. D’Arcangelo e riordinata da Valeriano dopo la morte dell’Autore (6). Per la sua cultura nelle scienze matematiche il Nostro sarebbe stato autore del progetto del monastero benedettino S. Nicolò all’Arena di Catania che, salvato dalla lava dell’eruzione dell’Etna del 1669 che distrusse la chiesa annessa, crollò nel 1693 a seguito del violento terremoto che distrusse gran parte di Catania. Inoltre nel 1615 sarebbe stato autore del progetto del monastero di Militello Val di Noto.
Dall’esame delle notizie riferibili ai due fratelli di Franco, la Gelao (2008, pp.103-104) ipotizza che il rapporto tra Giovanni ed il convento benedettino di Andria non sia stato particolarmente stretto e che, tutt’al più, sia consistito in una breve visita al seguito del fratello Valeriano. Secondo questa ipotesi, quindi, i due fratelli sarebbero stati ad Andria solamente “di passaggio” nel periodo in cui vescovo della città era un Antonio Franco, appartenente al ramo napoletano della famiglia, forse provenienti dal monastero benedettino dei SS. Severino e Sossio di Napoli. Per questi motivi non esclude che la descrizione del santuario contenuta nel libro Di Santa Maria dei Miracoli, redatto da Giovanni, possa contenere qualche imprecisione o omissione in quanto l’Autore si sarebbe servito di appunti frettolosi, forse neppure di sua mano, oppure di disegni eseguiti, forse, da Valeriano, il quale avrebbe “suggerito” la descrizione. Imprecisioni e/o omissioni che, comunque, non inficierebbero la validità e l’interesse della fonte ma che, sembra di capire, la renderebbero meno affidabile.
Alle notizie fornite dalla Gelao, ed alle conclusioni cui giunge, si possono aggiungere le seguenti note.
I fratelli di Franco appartenevano certamente ad una famiglia della nobiltà catanese, il cui stemma nobiliare Giovanni riproduce all’inizio del Libro Secondo del suo lavoro. Questa famiglia, il cui patronimico, come rilevato anche dalla Gelao, denuncerebbe una origine d’oltralpe (de Franchis = dei franchi), risalente forse al tempo della dominazione angioina, proveniva dalla Liguria e si era ramificato in Sicilia, a Napoli e in altre zone del centrosud. In Sicilia, in particolare, troviamo dei “di Franco” anche a Palermo e Messina (7). I vari “rami” nei quali si era diversificata la famiglia in Sicilia avevano in comune nel blasone una o tre corone d’oro integrate, eventualmente, con altri elementi (fig.1). I due fratelli sarebbero stati i “cadetti” della famiglia, destinati, secondo la legge del maggiorascato (8), alla vita religiosa o alla carriera delle armi, dove avrebbero potuto far valere la posizione influente della famiglia di provenienza. Gli alti “gradi” raggiunti nei rispettivi ambiti di vita si devono attribuire anche a quest’ultima possibilità.
Su Valeriano, in particolare, si può aggiungere quanto è riportato dalla Matricula monachorum del Bossi (9), dalla quale risulta che il Nostro, professo nel 1565 presso il monastero di Catania, «in senectute bona defunctus est anno 1635». La data della morte del Valeriano, posticipata di dieci anni rispetto a quella indicata dagli Autori citati da Gelao (2008), è perfettamente compatibile con la sua rielaborazione della Cataneide del D’Arcangelo che si sarebbe conclusa nel 1633 e appare, quindi, la più attendibile (10). Difatti gli Autori moderni riportano la data del 1635 (11). Inoltre Valeriano ha redatto, come allegato alla già citata Cataneide del D’Arcangelo, una serie di disegni delle opere di epoca romana che ai primi del ‘600 sarebbero state ancora visibili a Catania (12). A proposito di questi disegni, al Valeriano si rivolge l’accusa di aver peccato un po’ di fantasia e, in sostanza, di aver eseguito delle ricostruzioni più o meno fantasiose dei monumenti romani superstiti (13).
Per quanto riguarda il rapporto che i due fratelli ebbero col santuario andriese, la lettura del libro dello stesso Giovanni appare risolutiva.
In primo luogo occorre precisare che il rapporto di consanguineità dei due sacerdoti, che la Gelao trae da cronisti del tempo, è esplicitamente affermato da Giovanni stesso più volte nel suo libro, a cominciare dalla lettera di dedica iniziale al duca Carafa nella quale, quando parla di Valeriano, lo qualifica sempre come suo “fratello carnale”.
In secondo luogo la questione della posizione di Valeriano quale “decano titolare” (14) di un non meglio precisato monastero viene definitivamente risolta dallo stesso Giovanni il quale, in numerosi passi del suo lavoro, qualifica il fratello “decano titolare” del santuario andriese, la cui presenza in Andria è esplicitamente attestata nel 1592, 1604 e 1605 (di Franco 1606, pp. 220; 317; 319 e 335).
Infine per quanto riguarda la permanenza di Giovanni in Andria, la stessa si deve essere protratta certamente per lungo tempo. Lo stesso, tra l’altro, riferisce di avvenimenti di cui è stato testimone diretto, dopo aver assolto al suo ministero sacerdotale (di Franco 1606, pp. 93-94).
Alla luce di queste inconfutabili notizie occorre parzialmente modificare alcune delle conclusioni cui giunge la Gelao.
I due fratelli di Franco non sarebbero stati in Andria solo “di passaggio”. Valeriano, quale decano titolare del monastero, è stato presente in Andria quanto meno dal 1592 al 1605, forse senza soluzione di continuità. Giovanni, invece, sarebbe venuto su esplicito invito del fratello, verosimilmente con il preciso incarico di redigere un libro celebrativo del santuario, che i benedettini vollero affidare ad una persona estranea all’Ordine, probabilmente per evitare l’accusa di essere autocelebrativi (15).
Accertata la lunga permanenza in Andria di Giovanni (e non poteva essere diversamente, considerata la notevole massa di documentazione dallo stesso acquisita per la redazione del libro (16)) occorre concludere che la descrizione del santuario, anche se non è il fine principale dell’opera, deve essere stata fatta in base alla diretta osservazione dell’Autore e, quindi, deve necessariamente corrispondere allo stato dei luoghi del tempo. Alla luce di queste considerazioni alcune delle affermazioni fatte dalla Gelao nel suo lavoro sull’architettura della chiesa (Gelao 2008) risultano non condivisibili per le ragioni che seguono.
Per quanto riguarda il vestibolo della chiesa inferiore, la struttura attuale sicuramente risale alla fase fondativa dell’edificio, come dimostrano gli archi ogivali e le volte a crociera di copertura, strutture tipicamente medievaleggianti e che, secondo un’analisi svolta in un precedente lavoro (Zito 1999, pp. 76-79) e dalle considerazioni che si svolgeranno nel paragrafo successivo, devono essere state realizzate prima della venuta dei benedettini in Andria. Dubbia potrebbe essere la questione relativa alla presenza della cupola, che secondo la Gelao potrebbe essere stata sottaciuta dal di Franco, ma considerata l’affidabilità della fonte è da ritenere più probabile la circostanza che al tempo del di Franco la cupola non esistesse ancora (17).

Infine occorre ri-affrontare sinteticamente la questione dell’Autore del santuario, che la storiografia locale ha attribuito a Cosimo Fanzago, nome che risulta decisamente improponibile (21).
Si è visto che Valeriano si è distinto anche in opere di architettura, sebbene queste notizie non sono ricavate da documenti ma da cronache e testimonianze successive. Sembrerebbe pertanto logico pensare che possa aver avuto un ruolo nell’adattamento della chiesa superiore in forme rinascimentali, ipotesi non esclusa dalla Gelao (2008, p.118). Alla luce del testo del di Franco quest’ipotesi non risulta condivisibile perché, qualora ciò fosse avvenuto, Giovanni avrebbe certamente riportato, e con rilievo, la notizia nel suo libro, cosa che non fa (22). L’unico dato certo di cui al momento si dispone è il nome di un «mastro Paolo dell’Abbate, capo mastro della fabbrica di detta chiesa», testimone in una “grazia” il 10 marzo 1605 (di Franco 1606, p.324). Non sappiamo se la qualifica di “capo mastro della fabbrica della chiesa” sia indicativa del fatto che i lavori della chiesa superiore fossero ancora in corso oppure, forse la più verosimile, che il medesimo fosse inserito stabilmente in una struttura tecnico-amministrativa dedicata alla manutenzione dell’edificio, sul modello delle medievali “fabricerie” create per la costruzione delle cattedrali. Il nome dell’Autore dell’impianto originario della chiesa, quindi, è una questione che resta ancora aperta, mentre è probabile che l’adattamento in forme rinascimentali dell’interno della chiesa superiore, effettuato dai benedettini, possa essere opera di una persona tutt’ora ignota, appartenente all’Ordine.

2. Le epigrafi sulla facciata della grotta (23)

La chiesa inferiore del santuario si compone di due parti: quella relativa alla grotta, che contiene la sacra Immagine in una nicchia cavata nel tufo, sovrastante un altare, e quella relativa al “vestibolo”, cioè un corpo di fabbrica a tre navate addossato alla facciata della grotta. Quest’ultima si presenta in una veste cinquecentesca, articolata in tre livelli coronati da un timpano triangolare. Sul fregio sovrastante il secondo livello è incisa un’iscrizione il cui testo, a partire dal di Franco (1606, p.4) e accreditato da tutta la storiografia locale successiva, sarebbe il seguente:
PARVM IN ABSCONDITO SACRVM OBLIVIONI RELICTVM,
MEMORI PIETATIS VIRGINI:
PIORVM AVXILIO MAGNVM REPONITVR, ET PATENS.
DIE PRIMI SABBATHI IVNII. ANNO SALVTIS M. D. LXXVI
La forma dubitativa è d’obbligo dal momento che l’epigrafe non è interamente leggibile a causa della mancanza di alcuni pezzi mediani, rimossi verso il 1849 per far posto ad un organo installato in occasione del rivestimento della facciata con una nuova sovrastruttura (24).
Con l’ausilio delle moderne tecnologie digitali è stata condotta una campagna fotografica che ha reso possibile proporre un restauro virtuale della facciata (Fig. 2), ottenuto ricollocando al posto originale i pezzi dell’epigrafe a suo tempo rimossi per l’installazione dell’organo e che, fortunatamente, non sono andati perduti. Da questa operazione il testo dell’epigrafe risulta inequivocabilmente essere il seguente:
PARVVM IN ABSCONDITO SACRVM OBLIVIONI RELICTVM
MEMORI PIETATIS VIRGINI PIORVM
AVXILIO MAGNVM REPONITVR ET PATENS
DIE. I. SABBATI. IVNII. ANNO SALVTIS M D LXXVII
È facile rilevare come, tra l’epigrafe riportata dal di Franco e quella realmente esistente, ci siano delle differenze. Preliminarmente occorre far presente che, all’epoca, le lettere “U” e “V”, sia maiuscole che minuscole, erano usate e interscambiate in maniera indifferente. Nelle epigrafi in lettere maiuscole, in particolare, la “V” sostituiva sempre la “U”. Si tratta di differenze solo formali che non incidono, per chi sa leggere il testo del ‘600, nella sua sostanza. Parimenti occorre segnalare che l’abbreviazione apportata alla parola “ABSCONDITO” dal lapicida che ha inciso l’epigrafe, per la verità poco visibile, nella quale ha fuso insieme le lettere della sillaba “AB”, è stata sciolta sia nel di Franco e sia in questa trascrizione per mancanza del corrispondente carattere tipografico. Venendo alle differenze, una prima riguarda la soppressione di una “V” nella prima parola (PARVM in luogo di PARVVM) che forse è un errore tipografico. Una seconda riguarda l’esplicitazione del giorno della data, scritto in forma estesa dal di Franco (PRIMI) mentre in situ è riportato il semplice carattere “I”. Anche questa non è rilevante. Una terza differenza consiste nell’aggiunta da parte del Nostro di una “H” alla parola “SABBATI” che diventa “SABBATHI”. Infine un’ultima differenza, che sinora nessuno ha rilevato, è di natura più sostanziale e riguarda l’anno inciso in numeri romani al termine dell’epigrafe: nel testo del di Franco è riportato M.D.LXXVI, cioè 1576, anno ripetuto da tutta la storiografia successiva, ma in situ l’anno inciso è inequivocabilmente M D LXXVII, cioè 1577, l’anno successivo (Fig. 3) (25). Il testo dell’epigrafe è scarsamente leggibile ad occhio nudo, e questo potrebbe giustificare in parte la sua lettura non corretta. In particolare l’ultimo carattere a destra è il meno leggibile del testo, poco percettibile da terra ma chiaramente visibile con un binocolo o, meglio ancora, in una fotografia digitale opportunamente ingrandita. Tuttavia questo doveva essere ben leggibile nel 1606 e la sua errata trascrizione pone dei quesiti che in seguito si cercherà di risolvere.
Questa data, la cui corretta lettura si presenta particolarmente straordinaria perché, pur essendo stata per secoli sotto gli occhi di tutti è passata regolarmente inosservata, nello sconvolgere la tradizione consolidata permette di puntualizzare meglio una parte delle fasi costruttive del santuario. In un precedente lavoro si è dimostrato come l’intera basilica sia caratterizzata da impianto e da particolari architettonici medievali, il che porta ad attribuirne la costruzione al periodo in cui il santuario era gestito da una confraternita (Zito 1999, p.79). Non mancano, tuttavia, Autori contemporanei che attribuiscono la costruzione della basilica, chiesa inferiore compresa, ai benedettini (26). La corretta lettura dell’anno effettivamente esistente nell’epigrafe permette, quindi, di dare un contributo, si spera risolutivo, alla questione.
Secondo la storiografia locale, avviata dal di Franco (1606, p.4) e proseguita ininterrottamente sino ai nostri giorni, l’epigrafe di che trattasi è un semplice “epitaffio dell’invenzione”, cioè un semplice testo commemorativo posto a ricordare l’evento della scoperta dell’Immagine sacra, privo quindi di relazione alcuna con l’opera architettonica nella quale è inserita. Prova ne sia che tutti gli Autori si sono sempre limitati a trascriverne il testo, omettendo stranamente sia di riportarne la traduzione dal latino e sia di svolgere una doverosa, sia pur sintetica, analisi semantica.
La traduzione del testo dell’epigrafe è la seguente:
Piccolo luogo sacro abbandonato nell’oblio,
dedicato alla Vergine della pietà,
restaurato con l’aiuto dei pii (devoti) è restituito grande.
Giorno del primo sabato di giugno. Anno della salvezza 1577 (27)
Analizzando il testo è facile rilevare come lo stesso si riferisca al sito della grotta, che da essere un “piccolo luogo sacro abbandonato nell’oblio” adesso è divenuto “grande” perché “restaurato con l’aiuto dei devoti”. Risulta quindi di tutta evidenza come il testo dell’epigrafe faccia riferimento ai lavori eseguiti per rendere adeguatamente fruibile il luogo che contiene l’immagine, per cui è da ritenere che la data del 1577 indica che in quell’anno i lavori per la costruzione della chiesa inferiore e di quella intermedia, se non ultimati, erano almeno giunti ad uno stadio notevolmente avanzato.
Pertanto, alla luce di quanto innanzi, risulta ulteriormente rafforzata l’ipotesi a suo tempo avanzata in Zito (1999, p.79) secondo la quale la chiesa inferiore, la chiesa intermedia e le principali parti di quella superiore, siano state eseguite nei primi quattro anni in cui la gestione del santuario era affidato alla confraternita.
Chiarito il senso dell’epigrafe della facciata, si pone il problema di individuare perché il di Franco ha riportato nel suo lavoro una data sbagliata, influenzando così tutta la letteratura successiva. Le ragioni di una così vistosa mancanza possono essere due.
Una prima può essere individuata nel fatto che il Nostro sarebbe stato solo di passaggio ad Andria, come ipotizza la Gelao (2008, p.101-102), per cui sembra naturale che la data sia stata letta in maniera sbagliata, anche perché la sua posizione in alto la rende di difficile lettura. Questa ipotesi, tuttavia non è accettabile in quanto, come si è visto sopra, il Nostro ha dimorato stabilmente per lungo tempo in Andria, ospite dei benedettini, presso i quali esercitava regolarmente anche il suo ministero sacerdotale. Sembra quindi impossibile che sia incorso nell’errore marchiano di sbagliare l’anno dell’epigrafe, quando questo doveva essere ben visibile e leggibile ad occhio nudo, anche dal basso.
Esclusa questa ipotesi, una seconda, un po’ più intrigante, può essere individuata nell’evolversi degli eventi durante i primi anni di vita del santuario. Come si è visto, i benedettini sono subentrati nella gestione del santuario nel 1582, quando la chiesa inferiore e la relativa epigrafe dovevano essere già esistenti. Gli stessi potrebbero non avere ben compreso il senso dell’epigrafe e, conseguentemente, avrebbero coperto l’ultima cifra romana che indica l’anno, facendolo diventare quindi 1576, coincidente con l’anno del rinvenimento dell’Immagine sacra, data che a loro deve essere sembrata la più logica. Pertanto il di Franco avrebbe trascritto l’anno che effettivamente si leggeva ai suoi giorni non rilevando, anch’egli, la contraddizione esistente tra il testo dell’epigrafe e l’anno riportato. A conferma di quanto sostenuto, si fa presente che nella relazione del 1650 (28) è trascritta l’epigrafe senza gli errori del di Franco ma aggiungendone altri, tranne l’anno che è sempre 1576. Questo vuol dire che il testo non è stato copiato dal di Franco ma è stato letto in loco, sia pure con altre lievi differenze di trascrizione, e che, pertanto, nel 1650 l’anno che si leggeva era sempre MDLXXVI. A fronte di eventuali accuse di forzature su questa interpretazione si fa rilevare che proprio l’ultimo carattere, come si è già notato, è il meno visibile dell’intero testo, come se sia stato per lungo tempo obliterato, ricoprendolo con dello stucco.
Assodato che l’epigrafe non rappresenta la memoria dello scoprimento dell’immagine sacra ma indica la data del completamento, quanto meno nelle parti principali, della chiesa inferiore e di quella intermedia, è possibile sciogliere alcuni dubbi sulla originaria forma della facciata della grotta che oggi si presenta mutila. Clara Gelao (2005, p.174) ipotizza che “un tempo”, non altrimenti meglio precisato, dove ora ci sono i bassorilievi dell’Annunciata e dell’Angelo annunciante dovevano esserci altre due finestre, tesi ripetuta anche successivamente (Gelao 2008, p.109). Questa tesi, oltre che gratuita, non è condivisibile per almeno tre motivi.
Il di Franco (1606, p.3) afferma che la facciata è bucata da quattro finestre, dove sono collocati i calici e le altre argenterie offerte dai fedeli al santuario. Il numero delle finestre è confermato nella descrizione della chiesa intermedia dove riferisce che «nella parte occidentale, dove sono le suddette quattro fenestre, che corrispondono alla sopradetta facciata da basso, dalle quali riceve il lume la capanna, & avanti a quella di mezzo alquanto maggiore, vi è una statua di Giesù Signor nostro…» (di Franco 1606, p. 6). Si rileva, quindi, che le finestre sono sempre quattro ma che quella di mezzo è più grande delle altre (29). Essendo le finestre in numero pari, tenuto conto delle descrizioni e del contesto, la loro disposizione più ragionevole non può che essere quella proposta nella ricostruzione virtuale di fig. 2.
In aggiunta a quanto già esposto si fa presente che alle spalle dei bassorilievi dell’annunciazione esistono due pilastri inglobati nella struttura muraria della facciata, opere che sostengono la struttura della chiesa intermedia e del coro di quella superiore (Fig. 4). Risulta quindi materialmente impossibile, per motivi meramente strutturali, la presenza di ulteriori finestre in luogo dei citati bassorilievi. Del resto, seguendo la tesi della Gelao, le finestre sarebbero state fino a otto (le quattro finestre a giorno dei calici più la finestra centrale più larga delle altre più le tre finestre del livello superiore, due delle quali sarebbero state tompagnate per dipingervi le immagini di santi benedettini (Gelao 2008, p. 109), ragion per cui alla fine i conti non tornano. Infine non si può fare a meno di rilevare che, qualora le quattro finestre e quella centrale fossero state allineate sullo stesso piano orizzontale, ciò avrebbe comportato il pressoché totale annullamento della struttura muraria creando seri problemi di stabilità.
Oltre all’epigrafe principale di cui si è discusso, sarebbe individuabile una seconda epigrafe alla base del timpano sull’ultimo livello. Infatti dall’ingrandimento delle foto digitali é chiaramente visibile una lettera “E” color “terra di Siena naturale” nonché i resti di quelle che potrebbero essere una lettera “A”, una “V”, una “F” ed una “S” (Fig. 5) (30). Sono altresì visibili, in ordine sparso, altri piccoli frammenti colorati dai quali non è assolutamente possibile individuare le lettere alle quali appartenevano. A differenza dell’epigrafe del livello inferiore, di cui si è ampiamente discusso, quest’ultima è semplicemente dipinta e questa è stata, senza dubbio, la causa della sua pressoché totale distruzione, avvenuta probabilmente nel 1911 con la rimozione dell’incamiciatura di stucchi del 1849.
Quello che lascia perplessi è la constatazione che di quest’ultima epigrafe non si conoscono trascrizioni. Nessuno degli storici del santuario ne ha fatto cenno. È pur vero che dal 1650 sino alla prima metà dell’800 non si conoscono descrizioni dettagliate del santuario, il che porterebbe ad ipotizzare che l’epigrafe possa essere stata apposta proprio in questo periodo. Tuttavia, stante l’assoluta mancanza di notizie in merito, su questo argomento occorre sospendere ogni valutazione.

3. L’affresco del miracolo di S. Placido (31)

Quando, nel Gennaio 1998, dalla parete che fronteggia la grotta con l’immagine della Vergine fu rimossa la tela raffigurante la Regina di Saba alla corte di Re Salomone, per essere sottoposta a restauro, venne alla luce un affresco del quale s’ignorava l’esistenza (Fig. 6). Il dipinto, di chiara impronta secentesca, raffigura l’episodio del salvataggio di San Placido dall’annegamento, derivante dall’agiografia del santo, e costituisce la conferma che le pareti della chiesa inferiore, verso la fine del XVII secolo erano tutte dipinte (32). L’affresco, che è racchiuso in una cornice dipinta ed è inquadrato in un’architettura, anch’essa dipinta, formata da una balaustra sorretta da colonne con capitelli ai due lati, si presenta parzialmente mutilo sia per i danni subiti dal supporto sia perché in parte coperto dalla cornice di gesso curvilinea che conteneva la tela rimossa.
Al momento resta ignoto l’autore del dipinto per la mancanza di documentazione dovuta alla distruzione dell’archivio del santuario, avvenuta dopo la confisca effettuata nel 1806.
L’affresco presenta alla base un’estesa didascalia latina, distribuita su tre righi, che descrive la scena rappresentata nel dipinto (Fig. 7). Si tratta di una particolarità piuttosto inconsueta nella nostra città, dal momento che l’unico altro caso di affresco con epigrafe si trova nel Cristo Pantocratore presente nella cripta della Cattedrale di Andria, dove sul libro che Cristo regge con la mano sinistra si legge la frase “Lux ego sum”, Io sono la luce, ovvero la salvezza.
Purtroppo l’epigrafe è mutila sia perché in parte coperta dalla cornice in gesso e sia perché alcune lettere sono scolorite e, quindi, poco visibili. Addirittura il terzo rigo è quasi integralmente ricoperto dalla cornice di gesso. Le parole integre che si possono leggere ad occhio nudo sono soltanto sei: DVM, PLACIDVS, IN, IMPETV, JVSSV, AQVAS. Altre quattro parole sono incomplete: RAPERET, VPER, INCEDF, ATTRAY. Le lacune sono quindi talmente gravi da rendere l’epigrafe quasi incomprensibile.
Con l’aiuto di un binocolo si leggono meglio altre lettere ma per la soluzione del testo è stata determinante la decisione di effettuare delle foto digitali da esaminare, opportunamente ingrandite, al computer (33). Dall’esame delle foto si possono leggere più chiaramente le parole RAPERETVR, (che da terra si legge “RAPERET”), parola “IN-CEDENS”, (che da terra si legge “INCEDF”). Quindi, le parole intelligibili diventano 8, alle quali si possono aggiungere tracce di altre lettere che, successivamente, risultano molto utili alla comprensione del testo.
Tutto questo, però, non è sufficiente per comprendere la didascalia. Poiché le ricerche sui testi nelle varie biblioteche non hanno dato alcun esito, si è pensato di eseguire una ricerca su Internet di una estrapolazione certa del testo (34). Inserite quindi alcune parole della didascalia e precisamente “Dum Placidus monachus”, è venuto fuori l’intero testo originario dal quale era stata estratta l’epigrafe.
La didascalia è un adattamento di una frase tratta dal Divinum officium matutinum S. Pauli primi Eremitae et Confessoris scriptura: feria VI (sexta) infra Hebdomadam I post Epiphaniam (lectio 9) – Commemoratio St. Mauri, Abbati., cioè dalla nona lettura dell’Ufficio divino mattutino di S. Paolo, primo eremita e confessore, venerdì della I settimana dopo l’epifania - commemorazione di S. Mauro Abate.
Viene qui riportata quella parte della commemorazione della vita di S. Mauro, nel testo originale in latino e relativa traduzione, che più ci interessa, perché da questa l’autore dell’affresco ha tratto la didascalia:
Maurus nobilis Romanus puer a patre Eutichio Deo sub sancti Benedicti disciplina oblatus, brevi tantum divina gratia profecit, ut ipsi magistro admirationi esset: qui illum saepe veluti regularis observantiae, et virtutem omnium specimen, ceteris discipulis ad imitandum proponebat. Cujus adhuc adolescentis illud admirabilis obedentiae exemplum a sancto Gregorio Papa commemoratur. Nam cum Placidus monachus in lacum prolapsus, aquarum impetu raperetur, sancti Patris jussu accurrens Maurus, et super aquas incedens, socium capillis apprehensum, ad terram attraxit (35).
Traduzione
Mauro nobile fanciullo romano, consacrato a Dio dal padre Eutichio sotto la guida di San Benedetto, in breve tempo crebbe tanto in divina grazia, da essere ammirato dallo stesso maestro, che spesso lo proponeva (lo indicava) agli altri discepoli come esempio di costante (zelante) obbedienza, e modello di ogni virtù da imitare. L’esempio di ammirabile obbedienza di quel giovane viene anche ricordato da San Gregorio Papa. Infatti quando il monaco Placido caduto nel lago, stava per essere portato via dall’impeto delle acque, Mauro accorrendo su comando del santo Padre e camminando sulle acque, preso il confratello per capelli, lo trasse a riva.
La didascalia è stata ricavata dall’ultimo periodo del brano, quello, cioè, sottolineato. Il periodo non fu riportato fedelmente, ma adattato con alcune varianti per renderlo autonomo dal contesto e comprensibile. Qui si riporta l’intero periodo variato e la relativa traduzione (Fig. 8).
Dum Placidus in lacum prolapsus, aquarum impetu raperetur, sancti Benedicti jussu accurrens Maurus, et super aquas incedens, socium capillis apprehensum, ad terram attraxit.
Mentre Placido, caduto nel lago, veniva travolto dall’impeto delle acque, accorrendo Mauro su comando di San Benedetto, camminando sulle acque, preso il confratello per capelli, lo trasse a riva.
La frase originale è quindi composta da 25 parole, mentre la didascalia si compone di 23. Perché? Perché eliminando ma anche sostituendo alcune parole se ne ricava un brevissimo racconto. Però a rendere difficile la comprensione, oltre alle eliminazioni e sostituzioni, ci sono i danneggiamenti e occultamenti, questi ultimi dovuti alla cornice in stucco. Per quest’ultimo motivo il terzo rigo quasi non esiste più.
Altre tre parole recano scarsissime tracce di poche, singole lettere, ma grazie alla loro conformazione si è potuto ricostruire, con l’ausilio del computer, esattamente le lettere e da queste risalire alle parole cui appartengono. Di queste, inoltre, due sono del testo originale mentre una è sostituzione. Un’altra indicazione utile si è avuta dal modo con cui il pittore scrisse le iniziali maiuscole dei nomi dei santi. Quasi sempre sulle epigrafi le parole sono scritte interamente con lettere maiuscole ed in alcune poche altre si può osservare che le parole sono inserite nei righi. Anche il nostro Autore si è servito dei righi, ma si nota che per scrivere i nomi di persona la lettera iniziale supera il rigo. Così di una parola si è potuto riconoscere con certezza, insieme ad alcune piccole tracce di 4 lettere e una sola completa, il nome “Benedicti” (genitivo latino), non presente nel testo originale.
Pertanto, rispetto al testo originario, due sono le parole eliminate: NAM, con cui inizia la frase originale, e MONACHVS, mentre due quelle sostituite: DVM al posto di CVM e BENEDICTI al posto di PATRIS. Perché l’eliminazione di NAM? Evidentemente, dovendosi riportare una frase ad uso didascalico e fuori dal suo contesto, non ha senso iniziare la frase con NAM che in latino vuol dire “INFATTI”, quindi una congiunzione coordinante che conferma o richiama una affermazione precedente contenuta in un’altra frase del contesto. Naturalmente nell’affresco non si poteva riportare il contesto per brevità. Anche la seconda eliminazione “MONACHVS” è fatta per brevità. Per le parole sostituite, la prima parola è “CVM” da tradursi con “QUANDO” per far posto a “DVM” (MENTRE), per spiegare cosa avveniva in quel momento, quando S. Placido cadde nel lago. La seconda è “BENEDICTI” al posto di “PATRIS”, questo perché le parole “SANCTI PATRIS” nel testo originario si riferiscono S. Benedetto, ma questo si comprende solo se si legge tutto il testo che precede la frase. Chi invece si trova a leggere la sola didascalia è indotto a tradurre “SANCTI PATRIS” con “Santo Padre”, appellativo col quale si designa il Papa, che col miracolo non c’entra. Così con poche variazioni si diede il senso voluto: appartenenza all’Ordine, virtù dell’obbedienza, miracolo.
L’affresco trova una giusta collocazione nella chiesa inferiore dove vi sono le immagini affrescate di S. Margherita e S. Nicola, che sono due santi “sauroctoni”, capaci, cioè, di sconfiggere ed esorcizzare il diavolo sotto forma di drago, al pari di S. Silvestro, di S. Giorgio, di S. Michele(36). Il de Palma ci fa di seguito osservare come Mario Sensi «ha posto in evidenza quanto il culto e la devozione per i numerosi santi sauroctoni sia da porre in relazione con il problema rappresentato dall’impaludamento delle acque e con i danni provocati sulla popolazione dei territori interessati dalle epidemie malariche». Ma, ancora, i santi sauroctoni sono invocati anche per altre forme di difesa dalle forze delle acque. S. Silvestro è venerato a Roma come il santo che protegge anche dallo straripamento del Tevere, a Venezia S. Giorgio è invocato per la difesa dall’acqua alta, S. Michele dalle acque malariche. Infatti «richiamandosi alle scene descritte dall’Apocalisse (12,12-16), la forza delle esondazioni viene configurata con il vomito del drago, mentre l’impeto del mare dal drago precipitato negli abissi. Perciò San Nicola, che secondo la leggenda dirada la tempesta e salva i naufraghi, può considerarsi -per estensione- un santo sauroctono». E questo miracolo è rappresentato nella nostra grotta, dove vi è l’icona di S. Nicola. L’affresco è affiancato da sei scene relative alla vita del santo, due delle quali illustrano le fasi del miracolo del salvataggio di alcuni marinai: nella prima scena S. Nicola appare ai marinai di una nave sorpresa dalla tempesta, nell’altra i marinai, riconosciuto il santo salvatore, si prostrano per ringraziarlo. Anche S. Margherita, il cui affresco è pure nella grotta, è una santa sauroctona che nel Medioevo era invocata o contro la furia di piena delle acque torrentizie oppure per il ristagno in momenti di secca, pericoloso per la formazione di acquitrini che potevano favorire l’insorgenza della malaria. La martire antiochena è una santa sauroctona anche perché capace di sconfiggere il drago durante la sua prigionia e, nello stesso tempo, capace di dominare con la preghiera la potenza delle acque. La santa uscì indenne dal tormento dell’acqua fredda in cui fu immersa per essersi rifiutata di sposare il governatore pagano Olibrio.
A questo punto viene naturale chiedersi il perché sia stato scelto questo soggetto per decorare l’aula della chiesa inferiore. Si possono fare due ipotesi che non si escludono a vicenda.
Prima ipotesi. Il santuario era retto dai monaci benedettini e la storia dell’affresco aveva come protagonisti due monaci, San Mauro e San Placido che appartenevano all’Ordine.
Seconda ipotesi. Dato l’enorme afflusso di pellegrini nel nostro santuario, provenienti da ogni parte della Italia Meridionale, si voleva dare grande risalto all’Ordine dei Benedettini. Per far questo i Cassinesi fecero dipingere l’affresco di fronte alla grotta, in modo da colpire il pellegrino, che scendeva verso questa. Era come un manifesto dell’Ordine. In base alle mie ricerche, sebbene non approfondite, non risulta in nessuna chiesa o monastero benedettino della provincia di Bari un dipinto raffigurante il salvataggio di San Placido che, probabilmente, era ritenuto in tempi passati uno dei miracoli più sensazionali di San Benedetto.

4. Sacello della grotta precedente a quello attuale

Nella grotta, ai piedi dell’Immagine sacra, trovasi un altare preceduto da un sacello (tempietto), dono di Francesco II di Borbone, ex re del regno delle Due Sicilie, fatto per sciogliere un voto compiuto dal defunto genitore Ferdinando II il quale non ebbe il tempo materiale per adempiervi (37).
Del vecchio sacello con altare che, precedentemente, era posto davanti l’Immagine, non si hanno notizie da parte degli Autori moderni che hanno descritto il santuario. Una descrizione, sia pure sommaria, è stata ritrovata nell’opuscolo di Mons. Merra E., La Madonna dei Miracoli d’Andria (Bologna 1872, pp.48-49) (38). Si trascrive, perché non se ne perda la memoria, la descrizione del Merra.
In fondo della sacra grotta vi sono tre altari, dei quali il medio è posto sotto la sacra Immagine, e funziona da altare maggiore. Il piano di detto altare è sollevato su quello degli altri due di metri uno e venti, e vi si accede da due rampe laterali di cinque gradini ognuna. Questo piano sollevato forma un tutto a sé, ed è circondato da una fortissima cancellata in ferro con fregi di ottone. Le sue pareti sono adorne di cristalli colorati che nell’insieme presentano un disegno svariatissimo; anche l’altare è così costruito.
La descrizione del Merra conferma l’ipotesi avanzata da G. Lepore secondo la quale il primitivo pavimento della grotta doveva trovarsi ad una quota di poco più di un metro più alta dell’attuale (39). Da notare, inoltre, che al tempo del Merra c’erano anche altri due altari, uno sotto l’affresco di S. Margherita e l’altro dal lato opposto, sotto un quadro dedicato all’Annunziata donato da Vincenzo Carafa.
Analoga descrizione è riportata da P. Cosma Lojodice nel Manuale di pratiche divote in onore di S. Maria dei Miracoli in Andria (40). Alla descrizione del Merra il Lojodice aggiunge la notizia che la decorazione in cristalli è stata opera del P. Tommaso Tasca, agostiniano(41). Aggiunge, inoltre, che
(…) nell’abbassare il pavimento all’odierna altezza fu scoperto uno scheletro. Si vuole fosse d’uno dei primi monaci Benedettini, venuti a prendere possesso del Santuario; certamente d’un divoto della Madonna dei Miracoli.
Il P. Francesco Saverio Jafanti, allora Priore, curò di raccogliere quelle ossa, le chiuse in una cassetta, che venne fabbricata in un vano aperto appositamente nel masso tufaceo della grotta. Ora che scrivo questa nota (9 Marzo 1899) ho fatto murare sopra quel vano una lapide con la seguente epigrafe:
DEIPARAE . A . MIRACULIS . CULTOR
SUB EJUS . PRISCO . SACELLO
JACEBAM
NUNC . HIC
ALIO . NE . TRANSFERAR
ADPRECOR
AVE . MARIA
che tradotto significa:
Devoto della Madonna dei Miracoli,
ero ancora sepolto sotto il suo originario sacello (tempietto),
perciò ora supplico di non essere traslato in altro luogo.
Ave Maria(42).
È davvero singolare il fatto che tutti coloro che, a partire dal 1899, si sono occupati del santuario (43) abbiano totalmente ignorato questa epigrafe. Fa eccezione soltanto G. Lepore che nel suo lavoro sulla grotta pone dei quesiti sul significato dell’epigrafe in relazione ad eventuali depositi sepolcrali nei pressi della laura (44).
I quesiti sollevati da Lojodice e da Lepore possono essere risolti da una notizia fornita dal Merra. Probabilmente le ossa ritrovate appartenevano al benedettino Oliviero Carafa, figlio “cadetto” del duca d’Andria, dove morì nel 1771 e fu sepolto in una tomba ai piedi della cripta (45).
Di questo benedettino andriese si sa che è stato abate di S. Lorenzo di Aversa (46), poi di S. Benedetto in Chiaia a Napoli(47), poi nuovamente di S. Lorenzo di Aversa(48).

5. Facciata della chiesa superiore(49)

La facciata della chiesa superiore del santuario si presenta con tre porte di accesso e sovrastanti tre finestroni, il tutto coerentemente alla distribuzione interna a tre navate della chiesa. Un portico su sei pilastri quadrangolari, quattro dei quali compositi con colonne, coperto con volte a crociera precede le tre porte d’ingresso.
I finestroni della parte superiore hanno una sagoma esterna strombata che si profila a leggero sesto acuto, molto simile alle monofore medievaleggianti che si vedono sul fianco della chiesa superiore e sulle pareti di quella inferiore (Fig. 9). In un momento non ancora meglio identificato, forse durante il settecento, nella parte interna superiore dei finestroni venne inserito un architrave in modo da trasformarli in sagoma rettangolare, lasciando però intatta la sagoma esterna, come ancora oggi è visibilmente verificabile.
In un precedente lavoro (Zito 1999, p. 77 fig. 6) si è accennato all’ipotesi che le finestre laterali sarebbero state anche accorciate per ottenere l’altezza necessaria alla costruzione del portico attuale, realizzato in sostituzione del portico su quattro colonne menzionato dal di Franco (1606, p. 7). Questa ipotesi è stata confermata dall’esame diretto delle suddette finestre, possibile soltanto accedendo al terrazzo di copertura del portico attraverso l’ex monastero. Si è rilevato che mentre nel finestrone centrale il davanzale sostiene gli stipiti (Fig. 10), come normalmente deve essere per una corretta esecuzione di quest’elemento architettonico, nelle finestre laterali il davanzale è compreso tra gli stipiti, fatto questo del tutto anomalo (Fig.11). Unica spiegazione possibile sta proprio nel fatto che le finestre laterali siano state “accorciate” mediante la sovrapposizione, sul vecchio, di un nuovo davanzale il quale, ovviamente, non poteva che essere inserito tra gli stipiti esistenti.
Questa constatazione, associata al fatto che gli archi traversi del portico sono visibilmente “innestati” nella muratura della facciata (509) forniscono la prova che l’attuale portico è stato aggiunto alla facciata e che quindi non si può assolutamente confondere con il «portico fondato sopra quattro colonne di pietra viva» descritto dal di Franco (51).
Anche l’ipotesi a suo tempo avanzata da Cusmano Livrea (52) secondo la quale le colonne attualmente presenti nei quattro pilastri compositi centrali potrebbero essere un reimpiego delle colonne del vecchio portico non sembra più condivisibile. Infatti recentemente, nel letto della lama, sono state rinvenute due colonne in pietra calcarea, che sono state recuperate ed attualmente collocate nel vicino monastero agostiniano di Santa Monica, che per altezza e dimensione possono aver fatto parte del vecchio portico menzionato dal di Franco.

6. Aggiunte alla cronotassi degli Abati(53)

Nella cronotassi abbaziale compilata da F. Avagliano(54) resta insoluto il quesito se D. Severino da Montella sia stato il primo Abate del monastero andriese o se sia stato semplicemente un amministratore. Il quesito viene sciolto da Giovanni di Franco che in appendice al suo libro pubblica l’elenco degli abati fino al 1606 (55). Secondo il suddetto elenco D. Severino è stato un amministratore del santuario. La qualifica di amministratore di D. Severino è ulteriormente confermata in alcuni atti notarili conservati presso la sezione di Archivio di Stato di Trani, nei quali il Nostro è qualificato come “Administrator” del monastero e del santuario di “S. Marie Miraculorum in lamis” (56). Conseguentemente il primo Abate di Andria è stato D. Arsenio da Padova, professo di S. Giustina di Padova ed eletto Abate nel 1584.
Alla cronotassi degli abati occorre aggiungerne uno che sino a questo momento era ignoto. Si tratta di D. Costantino dé Notari, professo a Nola nel 1584, a proposito del quale la Matricula del Bossi (57) recita:
D. Constantino de Notariis a Nola 21 Martii 1584
Vir tum religiosa probitate tum eminenti doctrina praedictus et vere illustris. Plura et sane egregia edidit et: 1°. Il duello dell’ignoranza e della scienza fatto principalmente nel campo filosofico, diviso in due parti sceptica e dogmatica. Mediolani an. 1607. in 4. et Venetiis 1610. 2° Compendium clavis regiae S. Gregorii Sayri. 3° Eiusdem compedii pars. 2.da, ambo Venetiis an. 1613. 4°. Del mondo piccolo ammirevole, discorsi curiosi dell’umana perfezione ecc. Venetiis 1617. 5°. Il mondo grande, Venetiis 1617. 6° Il cittadino del cielo: ritratto del Salmo: Domine quis habitabit ecc. Neapoli an. 1622. Doctrinae eius fama permota Cong. Nostra illum priorem deinde abbatem costituit in qua dignitate per aliquos annos probe versatus, tandem an. 1624 ex hac vita migravit non sine magnum liberatorum maerore.
La Matricula Della Torre è al riguardo più sintetica e leggermente diversa (58):
D. Constantinus de Notariis a Nola, professus Neapoli (monastero di S. Severino) 21 martii 1584, Fuit abbas. Plura scripsit. Vide Bibliothecam Armellini sub Litera C. folio, 136 et 137.
Come si vede nessuna delle due Matricule riporta la notizia della sua carica di abate avuta in Andria, carica che, però, lo stesso “D. Constantinus” dichiara di ricoprire nel frontespizio del suo ultimo libro che si riporta integralmente:
Il cittadino del cielo ritratto dal Salmo Domine quis habitabit in Tabernacolo tuo. Opera del R. P. D. Costantino dé Notari Nolano Abbate di S. Maria de’ Miracoli d’Andria della Congregatione Casinense (…) – in Napoli: per Domenico di Ferrante Maccarano, 1622 (59).
Pertanto questo Abate va collocato tra D. Venanzio Agazzini da Roma, che nel 1621 era Abate in Andria, e D. Vittorino Schirilli da Napoli, Abate dal 13 maggio 1629 (60). Essendo il dé Notari deceduto nel 1624, al momento non si conoscono i nomi degli abati nel periodo 1624-1629.

Bibliografia essenziale

Bertoldi Lenoci L., Renna L. (a cura) (2008), La Madonna d’Andria, ivi;
di Franco G., (1606), Di Santa Maria dé Miracoli d’Andria. Libri Tre, Napoli, ristampa anastatica, Bari 2009;
Gelao C. (2005), Puglia rinascimentale, Milano;
Gelao C. (2008), «La chiesa di Santa Maria dei Miracoli ad Andria. L’Architettura», in Bertoldi Lenoci L., Renna L. (a cura), La Madonna d’Andria, ivi, pp.93-140;
Zito V. (1999), «Da laura cenobitica a basilica», in Montepulciano N, Zito V. (a cura), La lama di Santa Margherita e il santuario della Madonna dei Miracoli, S. Ferdinando di Puglia.

 [estratto da "Rivista Diocesana Andriese" Anno LIV - n. 2 - Maggio/Agosto 2011, pagg. 128-157](*)

(*) In merito al presente estratto si precisa che:
- la rivista originale reca le immagini in toni di grigio: nell'estratto sono state riprodotte a colori per una migliore lettura;
- per un disguido tecnico nella rivista non sono state stampate le ultime due illustrazioni (nn. 10 e 11) in quella che sarebbe dovuta essere la pagina 158: per completezza d'informazione le suddette due immagini sono state inserite nell'estratto.
(1) Bertoldi Lenoci L., Renna L. (a cura), La Madonna d’Andria, ivi (2008);
(2) di Franco G., Di Santa Maria dei Miracoli libri tre, Napoli 1606. Ristampa anastatica Bari 2009.
(3) di Vincenzo Zito. Preferisco usare il termine italiano “di Franco” in luogo delle equivalenti forme latinizzate (de Franchis, Franchus) o italiane (di Franchi) perché questa forma compare nel frontespizio del volume Di Santa Maria dei Miracoli (1606) e, quindi, sotto il profilo bibliografico appare il più corretto.
(4) Vedasi la nutrita bibliografia riportata da Gelao 2008, pp.98-103.
(5) Di Franco 1606, p. 11 della ristampa anastatica del 2009.
(6) Copie conservate nell’Archivio Capitolare e nella Biblioteca Civica Ursino-Recupero di Catania.
(7) A Palermo si ha notizia di un senatore “Antonio de Franchis”, di un patrizio “Jacobo Franchi” e di un notaio “Giovanni di Franco” (Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo 1757, pp. 102-103 e 526) mentre a Messina sono accertati alcuni “Franchi” originari di Genova (Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Palermo 1871, p.185).
(8) Questa “legge”, che è stata applicata sino agli inizi del XX secolo, era finalizzata alla conservazione del patrimonio della famiglia. In base ad essa l’erede del patrimonio familiare doveva essere il solo figlio maschio primogenito. Tutti gli altri successivi erano destinati alla carriera religiosa o militare. Le femmine, se non era possibile collocarle in un matrimonio di convenienza, spesso anche tra cugini, per non disperdere le doti, erano destinate al convento. Si ricorda in Andria il convento delle Benedettine che ospitava la maggior parte di queste fanciulle.
(9) Bossi A., Matricula monachorum Congregationis Casinensis Ordini S. Benedicti, vol. I 1409-1699, Cesena 1983, p.533. Devo la notizia a D. Faustino Avagliano, priore claustrale del monastero di Montecassino. A proposito del patronimico si fa osservare che il Bossi a pag. 524 usa il termine “Francus” mentre a pag. 533, do¬ve riporta notizie della sua vita, usa il termine “de Franchis”.
(10) Ferrara F., Storia di Catania sino alla fine del secolo XVIII, Catania 1829, p. V.
(11) Cfr. Naselli C., «Letteratura e scienza nel Convento Benedettino», in Archivio Storico per la Sicilia Orientale, XXV, II, III (1929), Catania 1930, p.267.
(12) Pagnano G., «I disegni di Valeriano Di Franchi per la Cataneide di Ottaviano D’Arcangelo», in Il Disegno di Architettura, A. II, n. 4, 1991, pp.50-54.
(13) Tortorici E., «Osservazioni e ipotesi sulla topografia di Catania antica» in Quilici L., Gigli S. (a cura), Edilizia pubblica e privata nelle città romane, Roma 2008, pp.91-124.
(14) Quella del decano era la terza carica all’interno di un monastero, dopo l’abate e il priore. In particolare la nomina a “titolare” avveniva quando la persona non esercitava più l’ufficio. Semplificando, l’attributo “titolare” corrisponderebbe all’odierno “emerito” (vescovo emerito, rettore emerito, ecc.). Ringrazio d. Faustino Avagliano, priore di Montecassino, per le sue delucidazioni.
(15) Della stessa opinione de Palma L.M., «Origini medievali di un santuario mariano. L’inventio di S. Maria dei Miracoli di Andria» in Bertoldi L., Renna L., La Madonna d’Andria, ivi 2008, p.19. Stando così le cose appare del tutto ininfluente la circostanza, evidenziata dalla Gelao, che all’epoca vescovo di Andria fosse un Franco appartenente (forse) al ramo napoletano della casata.
(16) Lo stesso Giovanni, sia nella lettera di dedica al duca Carafa (di Franco 1606, ristampa 2009, p.10) e sia nella nota ai lettori nel congedarsi da Andria (di Franco 1606, p.528), lascia intendere di essersi trattenuto a lungo.
(17) Vedasi anche l’analisi in Zito 1999, pp.88-89, ed in particolare la nota 37.
(18) Attribuzione, questa, molto “semplificata”, che non corrisponde alle analisi svolte, come si riferisce nel seguito.
(19) Vedasi l’ipotesi ricostruttiva in Zito (1999), p.84, fig.15.
(20) Vedi Cazzato V. et alii (a cura), Atlante del barocco in Italia. Terra di Bari e Capitanata, Roma 1996, p.73, fig.16.
(21) Vedasi la bibliografia citata da ultimo in Gelao 2008, p.113. Bisogna segnalare che il nome del Fanzago è stato anacronisticamente riproposto in Melillo M., Il 10 Marzo 1576 e le vicende del Santuario di Andria, ivi 2011.
(22) Si fa per inciso notare che, per ben due volte, Giovanni evidenzia il ruolo svolto da Valeriano nel monastero: una prima volta nel 1592 per la liberazione di un indemoniato e una seconda volta nel 1604 per redigere il rapporto del primo furto sacrilego verificatosi nel santuario (di Franco 1606, rispettivamente p.220 e p.335).
(23) di Vincenzo Zito.
(24) Il rivestimento della facciata con sovrastrutture barocche non sarebbe opera del ‘700, come afferma la Gelao, ma sarebbe stata realizzata nel 1849, come attestava un’epigrafe a suo tempo esistente che si concludeva con la frase “Abbellito più degnamente con opera scultorea nell’anno del Signore 1849” (Zito 1999, p.90, nota 42). L’organo è opera dell’organaio napoletano Michele Sessa, autore anche dell’organo collocato nell’orchestra del 1644 nel coro della chiesa superiore, in sostituzione di quello distrutto a seguito della confisca operata nel 1806. La facciata del 1849 è stata poi rimossa nel 1911 restituendo alla vista, mutila, la primitiva ed attuale facciata (Zito 1999, p.95).
(25) Devo la sollecitazione per una lettura corretta dell’anno all’attenta osservazione dell’amico Nicola Milella.
(26) Da ultimi Gelao (2008, p.107) e Melillo M., Il 10 Marzo 1576 e le vicende del Santuario di Andria, cit.
(27) Ringrazio mia figlia Mariateresa per la traduzione dal latino.
(28) Leccisotti T., «I monasteri di S. Maria dei Miracoli di Andria ecc.», in Archivio Storico Pugliese, 1951, p.149.
(29) Quindi al centro della facciata non esisteva una nicchia, come afferma Gelao 2008, p.109, ma una finestra.
(30) Anche della “scoperta” di questa seconda epigrafe sono debitore di Nicola Milella.
(31) di Nicola Montepulciano.
(32) Zito 1999, pag. 88, nota 34.
(33) Devo l’esecuzione delle foto a Michele Monterisi il cui contributo in questa ricerca è stato determinante.
(34) Anche questa intuizione la devo a Michele Monterisi.
(35) La sottolineatura è nostra.
(36) de Palma L.M., «Origini medievali di un santuario mariano. L’inventio di S. Maria dei Miracoli di Andria» in Bertoldi L., Renna L., La Madonna d’Andria, ivi 2008, p. 33.
(37) Per la descrizione vedasi Petrarolo P., Il santuario di Santa Maria dei Miracoli, Andria 1996, pp.45-46.
(38) Si tratta della prima edizione del Merra sul nostro santuario, poi riproposta in una seconda edizione nel 1876 ed infine, ampliata, inserita nella raccolta Monografie andriesi, Bologna 1906.
(39) Cfr. Bertelli G., Lepore G., «La lama di Santa Margherita e la grotta di S. Maria dei Miracoli ad Andria», in Bertoldi Lenoci L., Renna L. (a cura), La Madonna d’Andria, ivi 2008, pp.55-56.
(40) Lojodice Cosma P., Manuale di pratiche divote in onore di S. Maria dei Miracoli di Andria, Bologna 1899, p.12, nota 1.
(41) P. Tasca faceva parte del gruppo di agostiniani che nel 1839 aveva preso possesso del santuario in sostituzione dei benedettini (Merra E., «La Madonna dei Miracoli d’Andria», in Monografie andriesi, Bologna 1906, pp.402-403).
(42) Traduzione di N. Montepulciano.
(43) Da ultimo Melillo M., Il 10 Marzo 1576 e le vicende del Santuario di Andria, ivi 2011.
(44) Cfr. Bertelli G., Lepore G., «La lama di Santa Margherita e la grotta di S. Maria dei Miracoli ad Andria», cit., p.52.
(45) Merra E., cit., pp. 386-387. Il Merra trae la notizia da una «Storia Mss. di Andria» del prevosto Pastore (XVIII sec.), P.II, Cap. XVI, documento tutt’ora introvabile (vedasi Zito V., La guerra dei 200 anni, Andria 2010, pp.22-25). Lo stesso Merra, forse senza rendersene conto, riferisce che alla morte del P. Oliviero, che sarebbe avvenuta all’età di 67 anni, avrebbe pianto la madre la quale, vista l’età del defunto, probabilmente non era più in vita.
(46) Archivio del monastero di Montecassino, Atti dei Capitoli della Congregazione Cassinese anni 1750; 1751; 1753 e 1754.
(47) Archivio del monastero di Montecassino, Atti dei Capitoli della Congregazione Cassinese anni 1756; 1757; 1759 e 1760.
(48) Archivio del monastero di Montecassino, Atti dei Capitoli della Congregazione Cassinese anni 1768 e 1769. Si devono le notizie sugli atti dei capitoli che interessano “D. Oliviero Caraffa” a D. Faustino Avagliano, Priore del monastero di Montecassino.
(49) di Vincenzo Zito.
(50) Cfr. Zito 1999, p.78 fig.9.
(51) Diversamente la Gelao (2008, p.112) sostiene, senza motivarlo, che il portico attuale è lo stesso di quello descritto dal di Franco.
(52) Cusmano Livrea L., «S. Maria dei Miracoli. Andria», in Calò Mariani M.S. (a cura), Insediamenti benedettini in Puglia, Cavallino di Lecce, Vol. II, Tomo I, p.364.
(53) di Vincenzo Zito.
(54) Avagliano F., «Contributo alla cronotassi abbaziale del monastero di S. Maria dei Miracoli di Andria», in Bertoldi Lenoci L., Renna L., La Madonna d’Andria, ivi 2008, pp.197-246.
(55) Di Franco 1606, p.530. Evidentemente l’elenco degli Abati del Merra, di cui si serve Avagliano, fino al 1606 è tratto dal libro del di Franco.
(56) Archivio di Stato di Trani, Fondo notarile, Notaio Giovanni Vincenzo Tota, Protocollo n.16, anno 1582, ff. 34 v; 103 r; 117 r; 156 r.
(57) Bossi A., Matricula monachorum Congregationis Casinensis cit., p.289.
(58) Archivio di Montecassino, «Matricola sive Series cronologica monachorum omnium Congregationis Casinensis» del p.d. Giovanni Battista della Torre, manoscritto, p.488. Devo questa notizia a D. Faustino Avagliano, Priore del monastero di Montecassino.
(59) L’opuscolo è stato casualmente individuato da chi scrive presso la biblioteca del Dipartimento di Studi Classici e Cristiani dell’Università degli Studi di Bari.
(60) Avagliano F., «Contributo alla cronotassi abbaziale del monastero di S. Maria dei Miracoli di Andria», cit.

figura 1
Fig. 1) Stemmi nobiliari di alcuni rami dei “di Franco” in Sicilia. Dall’alto in basso: Francorum Familiae insigne di Catania (da di Franco, Di Santa Maria dei Miracoli, 1606, p. 95), Franchis (de) di Palermo e Franchi di Messina (da Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Palermo 1871, p. 185).



figura 2
Fig. 2) Ricostruzione virtuale della facciata della grotta (Zito 1999, p.96).



figura 3
Fig. 3) Particolare dell’epigrafe sul frontone della facciata della grotta, nella quale si legge chiaramente l’ultima cifra, in caratteri romani, dell’anno 1577.



figura 4
Fig. 4) Vista della facciata della grotta dall’interno della cappella intermedia. Particolare. Si nota a sinistra la muratura d’ambito della cappella e, a destra, un pilastro che fa corpo con la facciata, retrostante il bassorilievo dell’Annunciazione.



figura 5
Fig. 5) Resti dell’epigrafe alla base del timpano di coronamento.

figura 6
Fig. 6) Affresco sulla parete di fondo della chiesa inferiore raffigurante l’episodio del miracolo di S. Placido.



figura 7
Fig. 7) Didascalia dell’affresco di fig. 6).


figura 8
Fig. 8) Didascalia dell’affresco di fig. 6) integrato delle parti mancanti.



figura 9
Fig. 9) Finestra monofora laterale della chiesa inferiore.



figura 10
Fig. 10) Davanzale del finestrone centrale nella facciata della chiesa superiore.

figura 11
Fig. 11) Davanzale di una delle finestre laterali nella facciata della chiesa superiore.
Notare la diversa conformazione rispetto a quello del finestrone centrale e della finestra laterale della chiesa inferiore.