Neo Umanesimo di O. Bramante, di P.Petrarolo

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 "IL RAPPORTO TRA PITTURA E STORIA
NEL NEO UMANESIMO DI ONOFRIO BRAMANTE"

a cura dell’Amministrazione Comunale di Andria

di Pietro Petrarolo (1927-2007)
(stralcio dalla Conferenza del 14 dicembre 1985)

Il rapporto tra Pittura e Storia
nel Neo Umanesimo di Onofrio Bramante

Autorità, gentili signore e signori,
mi è stato affidato dall’amico Onofrio Bramante l’incarico, per me molto lusinghiero, di tenere una conversazione in occasione della inaugurazione delle tre opere destinate alla Sala consiliare e della sua Rassegna di pittura su soggetti di Storia sveva.

Sono veramente grato al pittore lombardo per avermi immeritatamente scelto, perché pur non essendo io un critico d’arte, ma soltanto un osservatore attento alle cose dell’arte, mi offre il privilegio di valutare pubblicamente non solo l’artista (cosa che egregiamente e molto meglio di me, hanno fatto noti critici di ogni parte d’Italia), ma l’uomo con la sua carica di simpatia, con la sua vasta cultura, insieme con un dinamismo sorprendente ed un autentico entusiasmo per la vita.

Mi è sembrato, pertanto, che questa era la giusta occasione per parlarvi della evoluzione della Pittura e del suo rapporto con la Storia, in riferimento alla produzione artistica del Bramante, tema che svolgerò in due parti, tra loro strettamente connesse ed interdipendenti.

Intendo prima darvi, in maniera del tutto sommaria e approssimativa, dato anche il tempo a disposizione, un excursus sui contenuti e sulle finalità dell’Arte pittorica attraverso il suo evolversi diacronico, fino ai giorni nostri, soffermandomi su quei periodi in cui l’Arte ha attinto alla Storia, per parlare poi dell'inserimento della pittura di Onofrio Bramante in siffatto contesto.

Inizierò l’excursus storico dalla pittura greca, sperando che gli ascoltatori mi perdonino, se dirò concetti ormai scontati, ma per me necessari per capire, in maniera globale ed unitaria, il travaglio non facile, attraverso cui filtra l’ispirazione dell’artista, che si concretizza nell’uso di un particolare linguaggio pittorico.

Che cosa, dunque, si propone la pittura presso la Grecia antica? Essa, destinata ad una funzione celebrativa ed educativa, è utilizzata come decorazione di templi e di pubblici edifici; meglio si realizza nella fiorente pittura vascolare, molto diffusa e raffinata, che si propone, attraverso figurazioni diverse, di allietare i conviti e di sollecitare amabili conversari.

Sotto questo aspetto la pittura greca, più che avere carattere divulgativo di tipo didascalico, tende alla creazione di un prodotto raffinato, autonomo, altamente estetico; donde l'artista è anche un esperto artigiano.

Anche la pittura etrusca sorge a complemento dell’architettura, trovando spazio, in particolare, nell’arte funeraria. Ci troviamo, così di fronte ad affreschi, in cui prevalgono scene di costumi, di ambienti di vita familiare e sociale, con musicanti, danzatori, atleti, partite di caccia e pesca, quasi a voler frangere le tenebre del sepolcro con le immagini liete della vita; è questa una pittura, almeno nella sua rilevanza, in funzione del defunto, affinché egli possa (secondo la conce-zione animistica antica) rinnovare l’interesse, che anche materialisticamente lo legava alle cose del mondo terreno.

Passando, ora, all’antica civiltà di Roma, mi pare che in essa gli artisti, grazie all’acquisizione di tecniche più sofisticate e alla concezione individualistica della potenza dell’uomo, privilegiano l’architettura e la scultura, a scapito della pittura.

Dobbiamo, in tal caso, rifarci alle espressioni parietali di Ercolano e Pompei per capire che la pittura è posta su un piano squisitamente edonistico, perché indulge, si intende positivamente, nello studio del colore e nell’applicazione della interessante scoperta del chiaro-scuro; prevale il realismo pittorico, che umanizza la mitologia, e diventa il tema preferito da ambienti sociali di alta cultura e di considerevole capacità economica. L’arte pittorica avrà anche come scopo la estetizzazione dei soggetti di vita quotidiana banali e sensuali, attraverso immagini raffinate dalla forte emozione visiva (si ricordino gli affreschi della Casa dei Vettii a Pompei).

A mio parere, nell’arte romana vi è il calarsi dell’umano nel divino; cioè vi è l’aspirazione a divinizzare l’uomo in ogni sua funzione di vita, per cui qualsiasi altro argomento pittorico (come il paesaggio, gli ambienti domestici o urbani, le scene di guerra o di vita politica) serve a sottolineare la sua intelligenza, potenza e volontà. D’altronde la vasta produzione del ritratto, è il segno più evidente dell’individualismo mitizzante dell’uomo.

Con l’affermarsi del Cristianesimo e con il fiorire dell’arte romanica, la pittura trova finalmente una dimensione nuova: prima di tutto predilige le Cattedrali con i loro immensi spazi, dove l’affresco può esprimere un ritmo grafico ad ampio respiro. Per la medioevale filosofia cristiana, avendo ogni immagine un significato morale, la figurazione è un modo per addottrinare gli incolti.

L’artista si impegna, perché la stessa immagine possa parlare sia alla fantasia popolare e sia, con i suoi segni allegorici, all’intelligenza dei dotti. Il pittore, pertanto, si presta a riempire le grandi superfici murali per svolgere un discorso animato; infatti nel Medioevo la pittura narra spesso i fatti, a cui il sacerdote allude, celebrando la liturgia o predicando la Parola di Dio; per cui la funzione dell’arte è primariamente didascalica, mirando ad intrecciare e a fondere il contingente, cioè il fatto in sé, e l’eterno, cioè il suo significato morale e dottrinale. L’artista va alla ricerca del rapporto tra i temi suggeriti dalle Sacre scritture e dalla teologia e il dramma dell’esistenza terrena, perché la gente non si interessi tanto alla vicenda, che già conosce attraverso la predicazione dei Vangeli, quanto a viverne il dramma nella dimensione spazio-temporale. Altro fenomeno da evidenziare, a mio parere, è che l’apparato plastico pittorico di una Chiesa o di un Convento non si esaurisce quasi mai nell’opera di una singola personalità creativa, ma spesso diventa espressione collettiva e corale di una so-cietà che non vuole definirsi solo nel presente, ma si aggancia al passato per preparare il futuro.

Inoltre, ciò che comunemente si chiama “unità stilistica” viene interpretata dal Medioevo come continuità narrativa dell’opera, anche se è presente una diversità di stili.

Sotto questo profilo, la pagina e la parete sono i due schermi, su cui appaiono le immagini della pittura medioevale. Sulla prima eccelle la miniatura, sulla seconda si prediligono grandi temi iconografici e narrativi.

Anche l’arte musiva, che ci viene da Bisanzio, è solo espressione chiesastica e, talora, tombale; spesso la descrizione di un episodio religioso o storico si esplica attraverso diversi pannelli, in modo che la lettura ne risulti coerente, organica ed altamente incisiva. L’esigenza figurativa, poi, prenderà corpo in particolare nei secc. XIII e XIV nella cosiddetta pittura gotica, quando avviene l’interessante passaggio dalla presentazione dell’immagine, che è tipica della pittura fino a Cimabue, alla rappresentazione delle azioni a cui ci introduce la pittura di Giotto, tutta intesa a svolgere temi narrativi o rappresentativi.

Mi piace riportare a tal proposito una significativa riflessione del noto critico d’arte Giulio Argan. Egli spiega tale passaggio affermando che all’ideologia bizantina dell’Eterno si sostituisce, nella Civiltà medioevale occidentale, l’ideologia della Storia o il pensiero che la coscienza della storia sia la base di ogni interesse conoscitivo ed etico.

L’arte pittorica, dunque, attinge alla Storia e diventa essa stessa storia, poiché è volta a chiarire il significato e il valore della rappresentazione di azioni, concorrendo al processo di formazione dell’uomo. La pittura, pertanto, diventa arte sovrana a tal punto che con essa, grazie a Giotto, si gettano le strutture culturali dell’occidente dei secc. XIII XIV, con una importanza ed una capacità di penetrazione non inferiori all’opera della Poesia, come la Divina Commedia di Dante.

Chiedo scusa se insisto su questo concetto, perché è importante per comprendere l’Opera di Onofrio Bramante. La pittura diventa veicolo di informazione; la chiamerei, con ardito traslato, la televisione del Medioevo: l’uomo è portato, allora come ora, a recepire visivamente gli episodi e a collocarli in una dimensione successoria, in modo da «sapere», da «conoscere» il fatto e assimilarlo come bagaglio di formazione spirituale e culturale.

Ecco perché con Giotto nasce anche l’esigenza di studiare gli espedienti cromatici e geometrici, per rendere con migliore evidenza prospettica ciò che si narra con il linguaggio pittorico; ecco la necessità di rappresentare le folle, che rendono più viva e realistica la partecipazione al comune fruitore dell’opera. Ma oltretutto, la pittura diventa, per parecchia gente incolta, l’unica fonte di conoscenza.

Cito due esempi emblematici, tratti dalla pittura giottesca: la vita di S. Francesco attraverso gli affreschi parietali della Basilica del Santo ad Assisi, e tutta la storia della Madonna e del Cristo, fino alla Pentecoste, nella Cappella degli Scrovegni a Padova.

Dunque, la pittura nel Medioevo, ma vedremo anche nell’Umanesimo, era la forma più eletta e anche la più pratica e immediata di cultura, perché, essendo il libro destinato a pochissimi, alla pittura potevano accedere masse enormi di uomini che, oltretutto, potevano “rileggere” ciò che magari era sfuggito al primo contatto visivo. La pittura diventa, così, il “libro dei poveri”, sempre aperto, di facilissima comprensione anche da parte di chi è analfabeta, di dimensioni temporali imprevedibili, perché la fruizione è sempre identica, o che si tratti del fruitore del sec. XIII o di quello del sec. XX.

Siamo, comunque, sempre nella Storia sacra, nella cultura tipicamente cristiana; ma del resto, il Medioevo finalizza interamente o quasi la sua cultura al didascalico-sacro, date le premesse di formazione ascetico-spirituale a cui mirava l’umanità del tempo.

Ma quando i fermenti umanistici avranno riportato l’uomo e la sua nuova dimensione alla ribalta della Storia, anche la pittura si avvarrà di una cultura di tipo laico, affrontando anche temi strettamente collegati alla quotidianità. Comunque, anche per questo modo di realizzare la pittura occorrono ampi spazi, che sono le volte e le pareti imponenti dei Palazzi signorili o principeschi, o i saloni dei palazzi comunali, dove la cultura pittorica da aristocratica diventa sociale e popolare.

Il ‘400 perfeziona il fine didascalico della pittura medioevale, con lo studio dell’armonia delle proporzioni e della bellezza delle forme. Spazio e tempo diventano due realtà indissolubili e perfettamente integrantisi: la rappresentazione in funzione dello spazio è la prospettiva, e la rappresentazione in funzione del succedersi degli eventi è la storia; poiché per gli umanisti il mondo è natura ed umanità, prospettiva e storia si integrano, formando una concezione unitaria del mondo.

È questo il momento di maggiore realizzazione del binomio “Arte-Storia”; cito i nomi degli artisti più importanti di questo periodo: Masolino da Panicale, il Beato Angelico, Masaccio, Donatello, Ghiberti, Lippi, Piero della Francesca, Leonardo da Vinci, Luca Signorelli, Donato Bramante.

Il ‘500 Rinascimentale, il ‘600 Barocco e il ‘700 Rococò hanno ormai acquisito questa dimensione prospettico-temporale; però l’arte tende a raffinarsi e ad estetizzarsi, prediligendo l’estetica a scapito dell’etica; tutto ciò che è sacro viene fortemente umanizzato e la storia esce dai Conventi per instaurarsi negli edifici pubblici e privati. L’arte pittorica, sovraccaricata dall’estetica classica, incomincia a perdere il suo valore didascalico, per acquisire sempre più quello del godimento estetico; ed il soggetto da ritrarre, più che essere l’elemento dominante del dipinto, diventa studio, attraverso cui possano esprimersi l’abilità, la ricercatezza, la tecnica dell’artista.

Bisogna giungere alla pittura neoclassica tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’ ‘800, per riparlare del rapporto Pittura-Storia, sebbene la produzione pittorica sia fortemente limitata rispetto a quella architettonica e scultorea.

Tuttavia in questo periodo il quadro non si fa quasi mai narrazione, ma espressione di un particolare momento del vissuto storico. Date le premesse francesizzanti in cui si sviluppa quest’arte, la Storia, in genere, è finalizzata alla esaltazione delle gesta napoleoniche: più che di storia, in verità, si deve parlare di asservimento dell’arte alla volontà del dittatore, come supporto propagandistico alla costruzione del mito. In effetti la pittura non si rifà alla storia, ma tenta di creare storia attraverso il contingente.

La reazione romantica, con il suo concetto estetico dell’assoluta autonomia dell’Arte dalla realtà che ci circonda, e, per ciò stesso, dalla Storia, porta l’arte pittorica su altre frontiere: l’artista non vuole più cogliere i fatti, ma i sentimenti: si studiano, così, colori stemperati e spenti, si predilige il grigio brumoso, dove le figure si rarefanno e perdono incisività somatica. Solo per il periodo risorgimentale, in Italia, l’arte ritorna alla storia e diventa strumento di educazione patriottica e popolare. Dopo, salvo rare eccezioni, dovute più a momenti occasionali che ad indirizzi profondamente sofferti, l’arte pittorica si stacca sempre più dalla quotidianità, per rifugiarsi nei canoni decadenti dell’informale, del drammaticamente geometrico, della macchia di colore, dell’incomunicabile.

Di conseguenza si infrange violentemente il rapporto tra l’artista e lo spettatore fruitore. Il primo va alla ricerca di sensazioni subconscie e psicopatiche, non preoccupandosi delle difficoltà di fronte a cui si trova il suo stupefatto e sconcertato interlocutore.

Il ‘900 risuona di questa complessa e non ancora chiarita ricerca di modi nuovi dell’arte, non di rado (mi si permetta una notazione personale) sfocianti in vere e proprie banalità. La nuova realtà sociale e politica sembra interessare solo raramente l’artista pittore; e quando ciò avviene, egli dà agli avvenimenti una interpretazione di discutibile complicanza psicologica. In questo ambito, anche Picasso trasferisce la sua arte nell’episodio della lotta politica; ma non vi è nulla di organicamente sviluppato e la cosiddetta originalità di strani somati-smi e la monodimensionalità delle immagini sviano quasi totalmente il fruitore da quella che dovrebbe essere la chiara lettura del soggetto dipinto.

Non voglio suscitare motivi di risentimento, se affermo che il neo-Mecenatismo contemporaneo è alimentato dalla ricca borghesia industriale o bancaria che, non avendo un reale interesse per l’arte ma occupandosene prevalentemente per motivi di prestigio economico e sociale, arreda con dipinti di arte contemporanea le sale dei propri uffici, dipinti che lasciano frastornato e disorientato il comune fruitore, e spesso anche l’esperto.

È chiaro che tale modo di far pittura non è, sempre, frutto di una meditata ricerca di canoni innovativi, ma nella gran parte dei casi è una sollecitazione suggerita da esperti mercanti d’arte, che, data la diffusa malcelata ignoranza in un campo così insidioso, sono capaci di rendere altamente remunerative opere di artisti ignorati o tenuti in nessun conto dalla critica seria e non prezzolata.

È tra queste tendenze dell’Arte contemporanea molto complessa, variegata e talora confusa, che si inserisce il discorso pittorico di Onofrio Bramante. Pittore milanese, approdato all’arte del pennello in piena maturità, di fronte all’inaridirsi dei valori tradizionali della religione, della storia, della politica, dell’etica e dell’estetica e di fronte all’abbrutimento della persona umana tutta tesa ed intesa a raggiungere mete di guadagni e di sfrenati godimenti, il Bramante ha sentito, ponendosi in chiave polemica ed anticonformistica, che oggi la pittura deve tornare a svolgere quella funzione didascalica, che in situazioni consimili svolse nel Medioevo e nell’Umanesimo. Non condivido la visione vichiana dei corsi e dei ricorsi storici, ma mi pare ol-tremodo evidente che i mezzi più avanzati della comunicazione di massa, con la loro aggressività, hanno distrutto o inibito la capacità autonoma di una formazione culturale, che nasca dalla meditazione sui grandi problemi della vita; d’altro canto, avendo la filosofia consumistica schiacciato l’uomo di fronte al miraggio del successo e della ricchezza, si va facendo strada una richiesta sempre più insistente del ripristino della dimensione umana, sia in campo religioso e filosofico, che in quello civile e sociale, che ci autorizza a pensare ad una sorta di NEO-UMANESIMO, o ad un cosiddetto UMANESIMO INTEGRALE, già preconizzato dal Pontefice Paolo VI Montini.

Allora, quale potrebbe essere lo strumento per la prima presa di contatto con questa nuova esigenza, se non la pittura, con la sua capacità immediata di dire, di suggerire, di far meditare, di impressionare la mente e il cuore, di sollecitare interessi inerenti lo sviluppo dell’uomo; una pittura, cioè, che si faccia carico del messaggio religioso, storico, sociale e politico?

In tal senso, infatti, l’ha intesa l’amico Bramante, il quale ha individuato nella storia di Dio e in quella degli uomini il suo efficace mondo di ispirazione.

Ritengo che più di quello che potrei dire io in maniera modesta, eloquente e centrato è il giudizio di una personalità ecclesiastica, Mons. D’Erchia, e di un critico d’Arte, Amanzio Possenti.

Scrive Mons. Antonio D’Erchia, vescovo di Monopoli, parlando dell’arte sacra dell’Artista: «Il Bramante espone la Storia della salvezza con l’esplicito intento non di perseguire l’arte per l’arte, anche se felicissima per l’alta tecnica ed ispirazione, ma di portare all’uomo di oggi il “Messaggio d’amore” di Dio, per una convivenza civile, fraterna e di pace».

Il critico bergamasco Amanzio Possenti, invece, spaziando in tutta la fertile e poliedrica produzione del Bramante, si esprime nei seguenti termini: «L’aspetto nobile della pittura di Onofrio Bramante sta nell’impegno culturale; alla sua radice c’è il bisogno di “dire per coinvolgere”, di raccontare affinché la testimonianza non sia soltanto pittorica, ma anche fonte di dialogo, di ricerca, di sensibilità interpretativa e storica; le sue opere sono un “libro parlante”».

Mi si permetta tuttavia di dissentire dal Possenti, quando egli afferma che si tratta, in alcuni soggetti, di epigoni di un linguaggio espressivo disincantato; per quel che sono andato dimostrando, mi pare che si debba parlare di prodromi di un ripristinato linguaggio pittorico, commosso ed autentico, che si avvale della chiarezza di espressione, sia attraverso la ricchezza cromatica e grafica, sia attraverso la spazialità di sintesi del quadro, sia attraverso la interpretazione delle storia divina o umana che sia, in modo che il suo “libro parlante” possa essere letto senza la intermediazione di astruse e talora incomprensibili verbosità critiche.

Insomma, Onofrio Bramante non solo ha perizia e genialità d’artista, ma è stupito ammiratore dell’umanità, vista sia nel suo dramma divino che nella sua operosità storica; sensazione che egli cerca di trasmettere direttamente al lettore della sua opera, perché ne ricavi giovamento non solo per la sua cultura, ma specialmente per sua crescita spirituale.

Ne è segno eloquente la trilogia allegorica per questa Sala consiliare, dove umanità e storia si integrano felicemente: infatti, intorno al tema centrale della civiltà contadina della nostra Terra, si sviluppano in ardita sintesi allegorica i periodi storici che hanno contrassegnato il cammino dell’uomo nella nostra città, dal momento in cui i Normanni nel sec. XI la elevano a “civitas”, attraverso gli Svevi, gli Angioini, i Del Balzo, gli Aragonesi, fino al ducato dei Carafa.

Ma ancora più convincente è questa rassegna degli Svevi, tra “Mito e Storia”, che vi invito a leggere con lo stesso intento da me illustrato. Mi astengo dal commentare questa trentina di opere qui esposte, perché, come ho già detto, Onofrio Bramante non ama intermediari, ma vuole che il consenso o il dissenso nasca dal diretto colloquio con il pubblico.

In ogni opera, comunque, vi accorgerete che il Bramante concepisce la figura umana in scala gigantesca, protagonista eroica di uno spazio “monumentale”.

Prima di concludere mi preme darvi due informazioni importanti: il Bramante, sia nelle opere di storia andriese, che in quelle di storia sveva, si è avvalso della preziosa collaborazione della pittrice marchigiana Dina Mosca.

La seconda informazione è che la rassegna di stasera anticipa, salvo contrattempi, l’allestimento di una grande rassegna pittorica sugli Svevi, sempre del Bramante, a cui ho l’onore di offrire la mia consulenza storica, e che sarà organizzata con oltre 100 opere in Castel del Monte, o altrove dal mese di aprile 1986 in poi; per cui Andria potrebbe essere promotrice di un turismo culturale di rilevanza internazionale.

Non mi resta, dunque, che augurare all’amico artista il successo che si merita, rivolgendogli l’invito a continuare su questa non facile via, con la speranza che Andria, città notoriamente sveva, avendo avuto il privilegio di inaugurare questa rassegna, sia il punto di partenza per diffondere il messaggio del NEO-UMANESIMO PITTORICO di Onofrio Bramante, non solo come chiara espressione grafica e cromatica, ma, come ripristino degli insostituibili valori della dignità dell’UOMO e della sua STORIA.

Appendice

1) GIUDIZIO SULL’ARTE SACRA E PROFANA DI ONOFRIO BRAMANTE.
2) DESCRIZIONE DELLA TRILOGIA ALLEGORICA DELLA STORIA DI ANDRIA.

GIUDIZIO SULL’ARTE SACRA E PROFANA
DI ONOFRIO BRAMANTE

Parlare della pittura di Onofrio Bramante non è impresa facile: vi sono in essa due modi fortemente contrastanti di esprimersi, che, a mio parere, scaturiscono da una personalità che avverte in sé le contraddizioni dello spirito e le proietta attraverso un sincero, e perciò diverso, linguaggio pittorico.

Infatti, se si esamina attentamente la sua vastissima e fertile produzione, si nota subito uno “spartiacque” profondo tra l’Arte sacra e quella profana: nella prima il senso biblico, o evangelico, o agiografico del divino è calato nel dramma umano, che turba e talvolta sconcerta; nella seconda, invece, irrompe il senso totalizzante della vita, dalle opulente maternità alle scene di vita mondana, epica o storica. Ne consegue che nell’Arte sacra il linguaggio è asciutto, tagliente, in-cisivo, attraverso l’uso, più che di colori, di ricalcate ed indefinite zone di chiaroscuro; l’Artista, attraverso una anatomia dalla possanza esasperata e deformata, e attraverso una voluta bidimensionalità quasi schiacciante della figura, dice sempre l’urlante umanizzazione del divino (coinvolgenti, sotto tali aspetti, sono le sue Crocifissioni!).

Nell’Arte profana, invece, il linguaggio si fa riccamente cromatico, avvalendosi di fasci di luce radente, che evidenziano la corposità dei personaggi nettamente emergenti, attraverso una sapienza prospettica, pur nella fantasmagoria collettiva (affascinanti, ad esempio, sono le folle dei suoi quadri storici!).

Un altro particolare mi sembra importante, pur nella “contradditio in terminis”: nell’Arte sacra le folle hanno un senso desolato di solitudine, in quella profana anche un solo personaggio esprime il senso panico della vita nelle sue più disparate manifestazioni.

E allora, quale potrebbe essere il filo conduttore per “leggere” la pittura di Onofrio Bramante? A mio parere, proprio perché “sente” fortemente presente il senso della morte, accettata con attonita rassegnazione, l’Artista avverte più prepotente il senso della vita, che egli vive attraverso il flusso eterno dell’Uomo e della sua Storia.

Ritengo di aver indicato solo alcuni elementi dell’arte del Bramante: ma mi sembra che siano sufficienti per iniziare a discutere, anche in chiave polemica, della sua produzione. Anche perché l’Artista lombardo, ponendosi in rottura con le dominanti correnti contemporanee, dalle sorprendenti e talora incomprensibili complicanze psicopatologiche, ripropone l’Uomo nella sua giusta poliedrica “umana” dimensione, avvalorando l’esigenza che da circa un decennio vanno esprimendo alcune timide voci filosofiche e letterarie intorno ad un neo-Umanesimo integrale, che sconfigga l’avvilente neo-Scientismo e il Nichilismo tecnologico.

DESCRIZIONE DELLA TRILOGIA ALLEGORICA
DELLA STORIA DI ANDRIA

L’Artista ONOFRIO BRAMANTE, di Milano, è l’autore dei tre pannelli ad olio che, situati nella Sala consiliare, costituiscono una trilogia allegorica della Storia di Andria.

IL PANNELLO CENTRALE, di m. 1.75 x 2.20, vuole evidenziare la Civiltà contadina, che ha contrassegnato e tuttora contrassegna la società e l’economia di Andria. In primo piano, a sinistra, spicca una serena Maternità, simbolo della vita che germina nel sacro vincolo familiare; al centro il bambino simboleggia lo sviluppo della vita che si proietta, a destra, verso la virilità del robusto contadino, con gli arnesi del suo lavoro e con disseminati i frutti tipici della nostra terra.

In secondo piano, da sinistra al centro, altro segno della intensa operosità umana, in una simbologia di arti, mestieri e coltivazioni; sullo sfondo il panorama di Andria, con le sue fitte costruzioni dominate dai suoi svettanti campanili.

I pannelli di sinistra e di destra esprimono in una ardita sintesi, con figurazioni di richiamo allegoriche, il periodo più intenso e più significativo della Storia della Città, e possono dividersi in settori, pur mantenendo una organicità cronologica e strutturale.

IL PANNELLO DI SINISTRA, di m. 2.20 x 2.85, in primo piano, nel I settore presenta il periodo normanno (secc. XI - XII) nel gruppo di guerrieri, i cui primi due simboleggiano il fondatore della Contea, Pietro I, e l’ultimo sfortunato rappresentante normanno, Ruggero. Nella parte superiore del I settore, la figura ieratica di S. Riccardo d’Inghilterra, Patrono della Città, la quale si profila con le sue mura di difesa, fatte costruire nel 1046 da Pietro I il Normanno.

Nel settore centrale è rappresentato il periodo svevo (sec. XIII): vi domina la possente e maestosa figura di Federico II di Svevia a cavallo, intorno a cui sono un vessillifero armato e un falconiere; nella parte superiore un suggestivo Castel del Monte sulla Murgia boschiva. Nel settore laterale destro è raffigurato il periodo angioino (sec. XIV), con la pia e amata Beatrice d’Angiò, che dona alla Città la Sacra Spina della Corona di Cristo; l’è accanto il secondo consorte, il Conte Bertrando Del Balzo. Nella parte superiore uno scorcio della facciata della Cattedrale gotica, in una gradevole ricostruzione ideale, con il suo campanile normanno.

IL PANNELLO DI DESTRA, di m. 2.20 x 2.85, presenta nel I settore la figura del maggiore esponente del periodo dei Del Balzo (XIV-XV), il duca Francesco II, in una figurazione che richiama, almeno nel volto e nel floscio copricapo, il busto marmoreo del Laurana. A lato una colonna della Chiesa di S. Agostino e, nella parte superiore appena accennato, il Palazzo ducale, iniziato dai Del Balzo e ampliato poi dai Carafa. Sempre nel I settore, accanto al Del Balzo un altro nobile sfortunato personaggio, benemerito della città di Andria: Federico d’Aragona, genero di Pirro Del Balzo, e duca di Andria, prima di divenire Re di Napoli, nel periodo più infausto per gli Aragonesi, e cioè durante l’invasione franco-ispana.

Nella parte centrale, in simmetria con il pannello di sinistra, domina, a cavallo e in costumi spagnoleschi, Fabrizio I Carafa, Conte di Ruvo, che acquistò il Ducato di Andria e di Castel del Monte nel 1552, iniziando il lungo periodo del Principato, che durerà fino alla fine del sec. XVIII. Nel settore di destra, l’artista ha voluto sintetizzare, con un gruppo di personaggi, la storia dal sec. XVI al XVIII; fa spicco don Vincenzo Carafa (seduto), nominato dal Re di Spagna Filippo II Gran Priore d’Ungheria, Comandante delle Galee dell’Ordine di Malta, e Consigliere di Stato, perché distintosi eroicamente nella leggendaria battaglia di Lepanto (1571) contro i Turchi di Maometto II. In piedi, nel gruppo, una dama rappresenta simbolicamente la presenza attiva delle duchesse Carafa; il Vescovo evidenzia il potere episcopale, importante punto di riferimento per la Città, simboleggiato da Mons. Ariano (sec. XVII), per aver egli dato incremento alla vita religiosa ad Andria, per aver istituito il Seminario e per la sua grande santa opera di apostolato e di giustizia. Dietro don Vincenzo Carafa, a chiusura del settore, un altro insigne personaggio, il duca Ettore II Carafa (sec. XVIII), che combattè a fianco di Carlo di Borbone, futuro re di Napoli e di Sicilia, contro gli Austriaci, ottenendo il titolo di Grande di Spagna, di Vicario generale per la Puglia, oltre che di Capitano degli Alabardieri del Re; il Carafa istituì il Monte del Cumulo di S. Riccardo, una rendita di 600 ducati a favore del Capitolo Cattedrale.

Nella parte superiore, al centro, la facciata della Basilica di Maria dei Miracoli, Santuario voluto dai Carafa dopo la scoperta, dell’Icona bizantina, e a destra uno scorcio drammatico della Battaglia di Lepanto.

L’unità di sintesi della trilogia è stata possibile per la grande perizia prospettica e cromatica del Maestro Bramante, che ha posto una scrupolosa attenzione nel realizzare i costumi delle varie epoche e gli stemmi relativi ai diversi Casati, particolari che, da un punto di vista didascalico, potranno incidere profondamente sull’animo, sulla cultura e sulla fantasia dei visitatori.

Il Bramante si è avvalso, per la parte tecnica ed esecutiva, della collaborazione della brava pittrice marchigiana Dina Mosca; per la parte storica della consultazione e dei suggerimenti di Mons. Giuseppe Lanave, Vescovo di Andria, e del prof. Pietro Petrarolo, cultore di Storia Patria.


marzo 1986
Tip. D. Guglielmi snc.