Duomo, il Cappellone di S. Riccardo

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Cappellone di San Riccardo, in Cattedrale

CAPPELLONE DI S. RICCARDO

Giacinto Borsella (1770-1856)
Interrompiamo già la serie delle cose cominciate onde far parola del Cappellone di S. Riccardo, esso è fornito di elegante balaustra di marmo a colonnette di varii colori traforate, sulla quale poggiano cancelli di ferro, guerniti di borchie di ottone, con sei pilastrini dello stesso metallo, non senza piedistallo. L’architrave scorniciato è largo, ha in cima vari rabeschi; ed in mezzo il gran festone è allogato eminente il ritratto del Santo. La porta è lavorata a lastre anche di ottone, costrutta a due valve. In fondo è situato l’altare maggiore rabescato a varii lavori di scelti marmi, rabbellito quindi da Monsignor Cosenza con tumulo nel palliotto di verde antico, avendo nel centro una statuetta del santo esposta alla venerazione di tutti, con due vaghi serafini scarmigliati a fianco, che ne compiangono la morte. Non sarà ammeno che non ti soddisfi quindi il grande arco che si estolle dietro l’altare istoriato, tutto di quadretti di marmo al numero ventisette, di palmi tre ciascuno, alcuni dei quali conservano tuttavia la doratura dai quali ben si appalesano i varii strepitosi miracoli da lui operati che dichiaransi nelle iscrizioni apposte.
Queste tabelle votive offrono i seguenti miracoli:
1. Cæcus illuminatus.
2. Mulier a contractione liberata.
3. Omnes qui afferebantur infirmi sanabuntur.
4. Filius Iohannis de Noia natus mortuus, revixit.
5. Lucia ob nati, mortem, resurrectionem obtinuit.
6. Mita Melella, uxor Iohannis Angeli de Trano per XVIII annos sterilis, masculum peperit, cui Riccardi nomen impositum, et duos alios sussequenter recepit.
7. Dominus Thomas a S. Angelo (di S. Angelo a Lago, borgo di Andria) a sanguinis fluxu liberatus.
8. Notarius Franciscus Caputus argentum flagitans reperit.
9. Sanctorus de Caurato sensum recuperavit.
10. Masella de Fanello filium de acqua ebullente sanum recuperavit.
11. Iohannella de Canto cujus vir cœcutierat, visum recuperavit.
12. Ciminus de Melficta a latronibus restrictus, solutus. Questo fatto viene così registrato. Ciminus de Melficta iter agens Andriam incidit in latrones sex, prope Ecclesiam Sanctæ Mariæ de Iano abiis vestibus collum manusque pedes a fune adstrictus, et agitatus cum scirpe, metu frigoris et caligine noctis oppressus a Deo misericordiam petiit, et a nostro Sancto Riccardo intercessionem, ut liberavet afferens ipse, quod mors sua foret filiis. Qui sanctum suis oculis vidit, pontificali abitu indutum, et eius propriis manibus solvit se sensit eundem ad ratum .... iter dirigendo.
13. Iohannes de Mella a sciatica liberatus.
14. Francisca Petri Paschalis in continenti gressus receperit, quæ iam per octo menses perdiderat.
15. Notarius Franciscus Caputo cum esset in Ecclesia ad vespras unum argentum ante ianuam se invenire insignum petiit, si Sanctus Riccardus sanctus esset. Cui sicut ipse flagitavit, concessum est.
16. Iohannes Melella, qui in Ecclesia erat, ubi Presbiteri in suo festo vesperas celebrant. Qui quidem per multum tempus malum, quod sciatica dictum est, patiebatur, in ista verba prorupit. O Richarde Sancte oro te, ut me adjuves, et veniam a te peto; non enim te Sanctum existimabam. Et statim sanus factus est, me deinceps illud sensit.
17. Presbiter Thomas de Sancto Angelo, imbutus fuit ab illis rabiis: hinc sic ait: O Sancte Riccarde si tu es vere sanctus, pro mea salute intercede, et ex templo sanitatem recepit.
Gli altri quadretti votivi non ben si ravvisano nelle leggende [1]. Tre dei suddetti ci fan vedere, cioè: Un personaggio con penna in mano, ed altro con libro, che legge, ed il terzo in atto supplichevole. Che ragionevolmente possono interpetrarsi il primo per lo scrittore della vita di S. Riccardo, che fu il Duca del Balzo, nel qual libro molte notizie son registrate di antiche memorie, il secondo il dott. Fellecchia, nostro concittadino, che ne scrisse la vita in ottava rima. Il terzo personaggio può dirsi stato fosse il Campione Ettore Fieramosca, mentre la tradizione, e gli scritti ne assicurano, prima della battaglia, assistè egli con gli altri commilitoni nella Cappella di S. Riccardo, ove offrissi per la vittoria l'incruente sacrificio al Dio degli eserciti. In ognuno dei suddetti quadri il Santo scorgesi vestito con piviale, e mitra, in atto d'impartir la benedizione, a cagionevoli ed infermi giacenti per lo piú in letto, confortandogli a sperare il ricupero del vigore, e della salute dalla bontà di Dio.
Né qui ti spiacerà volgere eziandio lo sguardo al grande armadio a tre valve, dorato nella superficie, sottoposto al suddetto arco. Nella base custodivasi l’antica statua d’argento, col mezzo busto pure d’argento, che tenea nel cocuzzolo una stella forata, cui soggiacea la cotenna della chierca sua, che presentavasi al bacio dei devoti, donde esalava un odore di Paradiso.
Delchè possiam rendere testimonianza noi, e gli anziani, i quali erano nell’età adulta anteriormente all’epoca fatale del 1799. Superiormente nelle scansie erano riposte le tante reliquie maggiori di simulacro; costrutte a forma di minareti con cuspidi finamente traforate, come torsi Cinesi, nei di cui piedi eravi la corrispondente leggenda, delle quali tuttavia esiste la luna. Nelle facce interne delle valve stanno allogati innumeri occhietti dorati, muniti di cristalli che racchiudeano pezzetti di osso, di vesti, di veli e di altri sacri ricordi di sante e santi.
Questo armadio preziosissimo soggiacque egualmente al saccheggio del 99. E ben al di fuori mostra pur oggi il tesoro celeste che custodiva, essendo esternamente tutto dorato ad oro pretto, e nell'opposte valve son dipinti di gusto greco i ritratti del Salvatore, e della Vergine madre. Fra le antiche reliquie spiccavano il cuore, e la mitra di S. Riccardo. Veneravasi pure in un globetto di cristallo un grumo del Virgineo latte di Maria ed una piccola ciocca dei di lei santi capelli, non che dei pezzi d’osso del Battista, e la testa di S. Colomba. L’altare inoltre portatile di S. Gregorio, Dottore della Chiesa; un pezzetto di velo di S. Marta, sorella della Maddalena, oltre tante altre cospiquie memorie di Martiri, di Vergini, cenobiti, confessori e di Apostoli. Vantavamo eziandio una scheggia della Colonna, in cui venne flagellato il figliuol di Dio. Ebbene di tanto religioso tesoro sieci rimasta una scarpa di S. Filippo Neri, un sasso con cui fu lapidato il proto martire S. Stefano, e l’altarino di S. Gregorio, duole e dorrà sempre mai altamente nel cuore degli Andriesi, la dilapidazione irreparabile ed infausta di tal sacro deposito, che eccitava la pietà nei loro petti, e di cui tanto pregiavansi le anime divote non ristando nei loro discorsi di gloriarsene per lo bene spirituale. [2]
Dalchè può dedursi l’ardore che ha in ogni tempo animato questo popolo al culto della religione. Chepperò assai più care e più preziose dell’argento, dell’oro e delle gemme istesse furono stimate quelle tabelle votive di cui abbian tenuto discorso e tutte quelle sante reliquie gelosamente serbate nell’armadio e le altre offerte innumere che testimoniar dovevano ai lontani nipoti la possanza degli eroi della fede, e la stupenda forza di uno dei Taumaturghi dello stesso agl’idolatri, agl’Empii ed Infedeli, onde all’aspetto, al ricordo dei tanti prodigi che vennero operati a nome dell’Onnipotente, piegassero le loro pervicaci cervici, si ravvedessero dei loro errori, e credessero una volta alla verità di quella religione, che con tanta demenza impugnano, deridono e perseguitano. [3]
Il rinunziare alla evidenza, ai fatti incontrastabili è proprio dei sonnolenti balordi che meridiana luce cæcutiunt. Imperciocché non certius Divinitatis argumentum, quam a miraculis, quæ Deus ipse homo factus, et talem se esse asseveret, atque ostenderet polum exibuit, et vulgavit. Così Lipsio ex Gregorio Magno. Quindi lo stesso S. Dottore ebbe a stabilire quel canone che divina operatio si ratione coompretenderetur non esset abmirabilis. Laonde con fior di senno inferisce S. Matteo c. 26: si talia esset opera Dei, ut facile ab hominibus ratione caperentur, non essent mirabilia nec investigabilia dicenda. Ma è tempo di rimetterci in via.
Ai lati della porta del Cappellone sono allogati in marmo gli stemmi della Città per lo ius patronato che vanta nella elezione del priore della Cappella. Il pavimento è lastricato di verniciati mattoni. La volta bastantemente elevata ne accresce lo splendore, che devesi sopra tutto allo zelo di Monsignor Vaccarella.
Dall’umbilico della volta scende vaga luminiera di Boemia, costrutte a faccette di birilli, che accesa incanta l’occhio.
È d’uopo intanto volger il passo indietro, onde far parola del saccheggio che soffrì questa Cattedrale di tanti oggetti, suppellettili sacre, esistenti non meno nella stessa, che in questa Cappella, sicché si ebbe futura memoria a far incidere in una gran lapide marmorea il triste avvenimento.
Seviente in Italia anno MDCCXCIX
Teterrimo pericolosoque bello
Quum in huyus populatione Urbis
Hostes cum argenteis in quibus erant clausa thecis
Divi Richardi primi antistitis præcipuique Andriæ Patroni
Cor calvamque impio ausu obripuissent
Ioseph Cosenza Andriæ Episcopus
Kalendis Augusti Anno MDCCCXXXVI
Clero Magistratu, Primoribus Civitatis inspectantibus
Reserato conditorio
Ubi Divi Presulis ossa intus binas arcas adservabantur [4]
Brachiique indidem sublato osso et argentea incluso capsa
Ad fovendam fidelium pietatem
Pubblicæ illud venerationi exposuit
Ad hæc pretiosis lipsanis
In novam cuppressinam compositis arcam
Marmoribus affabre cœlatis contectam
Et sub ara sacelli eidem patrono dicati in latis
Veteres ex lapide pariter et cupressa areas
Hoc in loculo collocavit
Canonicus Ioseph Iannuzzi Senior
Eiusdem Sacelli Prior
Ne quid posteritatem lateret
Lapidem facti testem P. C.
Anno Rep. S. MDCCCXL

CENNO PIENO DELLA STORIA DI FEDERICO II.
tratta dal nuovo dizionario istorico [5]

Fu egli nipote di Federico Barbarossa, figlio dell’Imperatore Enrico VI. e di Costanza, Regina di Sicilia, e di Napoli. Nacque, nell’anno 1194; secondo la più comune, nella Citta di Iesi nell’Italia, eletto Re dei Romani in età di due anni, investito della Sicilia nel 1198, e sposò Costanza, figliuola del Re di Aragona nel 1209. Essendo stato scomunicato Ottone IV. dal Papa Innocenzo III, l’Arcivescovo di Magonza fece eleggere Imperatore Federico nel di 13 Dicembre 1210 in età di soli 16 anni. La Dieta di tale elezione fu tenuta in Bamberga, e la sua incoronazione seguì poi due anni dopo in Aquisgrana.
Non fu però, egli pacifico possessore nell’Impero, se non dopo la morte del suo competitore Ottone, seguita nel 1218. Cominciò il suo regno con la Dieta tenuta in Egra, avvero Exford nel 1219. In questa Dieta fra le altre cose fece giurare ai grandi Signori dell’Impero, di non più tassare i viandanti, che passerebboro pel loro territorio; e di non più battere falsa moneta; usi barbari e che i Baroni, e piccoli Principi consideravano come dritti sacrosanti in quei tempi di ladroneccio.
Dato sistema agl’affari di Germania, e segnatamente ottenuto l’intento, che molto premevagli, di far eleggere Re dei Romani Enrico suo figlio, benché di tenera eta, passò in Italia per conseguire la corona Imperiale; al quale effetto aveva già da astuto politico premessi col Papa i suoi maneggi con umili lettere, ed ufficiosi Ambasciatori.
Dicesi che i Milanesi non solamente gli negassero la Corona di ferro, solita darsi in quella Città, ovvero in Monza; ma anche gli chiudessero le porte, troppo vedendo di mal occhio il nipote di Barbarossa. Egli continuò il suo viaggio, e fu solennemente incoronato in Roma da Onorio III. il dì 22 Novembre 1220. Ma il Pontefice gli fece costar cara questa cerimonia, e pretese da lui troppo pesanti ricompense. Volle la cessione del Contado di Fondi, la restituzione del Ducato di Spoleto, delle terre della Contessa Matilde, e di molti altri luoghi, e la rivocazione delle Costituzioni pubblicate contro la libertà Ecclesiastica. Dovette inoltre Federico segnalare sua incoronazione, mercè varii sanguinosi editti contro gli Eretici, e con un giuramento di andare a portare la guerra nella Soria, per riacquistare la Terra Santa. Federico nato in Italia, compiacevasi molto di soggiornarvi; e di più era premuroso di sistemare i suoi affari nel Regno di Napoli, e massime nella Puglia. Quindi non prendevasi gran fretta di passare in Gerusalemme. Ofiofrio III. pieno di ardente zelo per la ricupera di quei santi luoghi, cercò di accrescere un nuovo efficace stimolo a Federico per tale impresa. Fatto venire in Italia nel 1223, Giovanni di Brenna, Re di Gerusalemme di solo titolo però, giacchè erano da 27 anni che il possesso lo avevano i Saraceni, combinò che Iole, ovvero Iolanda, o Violante, unica figlia di esso Giovanni, Principessa che oltre le ragioni del Regno di Palestina, era dotata di rara bellezza e di ottime qualità, divenisse sposa di Federico Augusto, già rimasto vedovo di Costanza, nell’anno precedente. Si celebrò il matrimonio nel 1225, e da quest’anno comincia l’epoca del titolo di Re di Gerusalemme, assunto, e poi sempre ritenuto dai Monarchi delle due Sicilie allora possedute da Federico. Iolanda fu solennemente coronata in Roma dal Pontefice. Ma ciò non ostante Federico non fu meno lento, anzi trascurato a passare in Asia.
Si volle da alcuni, che l’Imperatore non si arrischiasse ad abbandonar l’Italia, perchè avesse subdorato alcune segrete intelligenze del Papa con le città Lombarde, e temesse di qualche seria rivoluzione in di lui assenza. Stanco di tanti ritardi, e pretendendo affettate le addotte scuse di malattia, Gregorio IX. successore di Onorio, fulminò nel 1227 contro di Federico la scomunica, e lo minacciò di sospenderlo dall’Impero, come già fosse stato dalla S. Sede, e da essa dato per grazia. Irritato l’Imperatore per tale scomunica, che fu anche confermata con maggiore formalità nel Giovedì santo del seguente anno; e molto più arrabbiato veggendo che il Papa non voleva intendere le sue giustificazioni, ne fece amare doglianze, con atti ancora di risentimento. Quindi pretendendo che in conseguenza della sua infermità fosse vera la scusa, e perciò ingiusta la scomunica, non volle punto chiederne l’assoluzione; e fatti gli opportuni preparativi, lo stesso anno 1228 dispettosamente incaminossi per andare a compiere il suo voto. Mentre per la Puglia recavasi a Barletta, giunto in Andria l’Imperatrice Iolanda, ch’era seco, gli diede alla luce un bambino, cui fu posto nome Corrado, e di là a pochi giorni morì di parto. Trattenutosi quant’era necessario per prestare gli ultimi ufficii alla degna Consorte, proseguì il suo cammino ed imbarcatosi con le sue soldatesche in Otranto, nel Settembre dell’anno medesimo, giunse felicemente in Terra Santa.
Gregorio IX. udita la partenza dell’Imperatore, senza, che fosse stato da lui assoluto, si accese di santo sdegno, che scrisse lettere al Patriarca di Gerusalemme, e ai gran Maestri degl’Ordini militari, che si guardassero di Federico, né gli prestassero aiuto, perché era scomunicato. Né di ciò pago il S. Padre, stimolò i Milanesi e varie altre città Lombarde a muoversi contro Federico, cercò di aumentare da per tutto la fazione dei ribelli, e chiamato Giovanni di Brenna, che già era malcontento dei cattivi trattamenti del genero, gli somministrò buona copia di truppe, e lo spedì ad invadere gran parte della Puglia, di cui già diede la investitura, assolvendo i popoli dal giuramento prestato a Federico. Contro di lui il buon Papa pure suscitò delle sedizioni in Germania, implorò soccorso da tutte le potenze Cristiane per fargli guerra; e per meglio riescire nell’intento di staccare da lui i popoli, fece spargere falsa voce che già fosse morto. Intanto Federico nel Levante aveva cominciato le sue imprese, fortificando Ioppe ed innoltrandosi a grandi passi nella Soria, talmente che Meledino, Sultano di Babilonia, atterrito dalla fiera tempesta, che andava a scaricarsi contro di lui, esibì proposizioni di pace.
L’Imperatore avrebbe potuto dargli la legge, ma il discredito in cui lo posero le lettere del Papa allora sopragiunte, la mancanza degli aiuti, e le mortificazioni, che a motivo di esse gli toccò di soffrire; e molto più la nuova pervenutagli poco appresso, di rumori suscitati in Alemagna, delle sedizioni fomentate nella Lombardia, e della invasione della Puglia, lo costrinsero ad abbracciare precipitosamente ogni accomodamento, per tosto ripassare, in Italia. Non mancò intanto visitare il S. Sepolcro. Siccome a motivo della sua scomunica niuno ivi ardiva accostarsi ad esercitare le sacre funzioni, così dopo aver lungamente orato, prese la corona dall’altare, e se la pose in capo, e s’incoronò Re con le proprie mani. Contro la predetta tregua strepitò fieramente Gregorio IX. mentre Federico non aveva fatto poco a salvare Gerusalemme, e da riportare la liberazione di tutti i prigionieri Cristiani. Quindi ritornò in Europa, e raccolto in fretta un esercito, ricuperò molti luoghi della Puglia, sorprese il Ducato di Benevento, si avanzò nella Romagna, e fece delle invasioni nella Marca di Ancona, nel Ducato di Spoleto. I soldati della crociata Papale si chiamavano Guelfi, e portavano il segno di due Chiavi sulla spalla; Ghibellini quei dell’Imperatore, e portavano il distintivo della Croce; essi furono sempre i vincitori. Il Pontefice dopo essersi inutilmente servito di tutte le armi, e censura, si riconciliò nel 1230 coll’Imperatore, mediante la promessa che questi fece di restituire i luoghi tolti alla S. Sede, e di pagare 130 mila marche di argento, che Federico non mai soddisfece. Per gli odii nella santa Sede prese origine la opinione di alcuni, che Federico fosse l’autore del tanto decantato Libro de Tribus Impostoribus; o almeno che lo facesse scrivere dal suo Cancelliere Pier delle Vigne. Intanto crebbero gli odii del Pontefice contro Federico, il quale avendo rimesso alla testa delle forze Enzo, suo figlio naturale, costui fece prodigi di valore, giunto fino sotto Roma, devastando, ed incendiando quei luoghi. Fu quindi che Gregorio non reggendo a tanti dissapori, nell’Agosto del 1241 morì di crepacuore.
Nel Dicembre dello stesso anno Federico trovandosi in Foggia, fu sorpreso da improvviso accidente la Imperatrice Isabella; di lui terza Moglie figlia del Re d’Inghilterra, ed avendo cessato di vivere, venne sepolta in Andria.
A Gregorio successe Innocenzo IV Genovese, che non fu men nemico di Federico. Questi irritato contro di lui, che come eretico dichiarava decaduto dall’Impero, rivolto ai suoi in Torino, disse: il Pontefice mi ha privato della croce imperiale, vediamo se così è, e fattesela mettere innanzi, se la pose in capo, dicendo: nè il Papa nè il Concilio hanno la podestà di togliermela. S. Luigi Re di Francia s’interpose per riconciliare l’Imperatore col Papa, ma non riuscendo ebbe a dire, che maravigliavasi di non aver potuto trovare nel servo dei servi quella docilità ed umiltà, che aveva trovato nell’Imperatore. Quindi gli affari di Federico andarono a prendere una piega ben diversa. I Principi, ed anche molti dei suoi sudditi non lo riguardavano più che come un empio nemico di Dio, e odiato dalla Chiesa.
Federico dopo la disfatta dei suoi in due giornate campali, con essersi fatto prigioniero Enzo, di lui figlio, ritirossi nelle Puglie. Fu allora assalito da una gagliarda dissenteria nel Castello di Ferentino in Capitanata nella Puglia, ed ivi diede fine al suoi giorni nel 13 Dicembre 1250 in eta di anni 57. La più comune opinione circa gli estremi di sua vita comprova, che riportò dall’Arcivescovo di Salerno l’assoluzione, e che fece una morte Cristiana, ed edificante. Nel suo testamento incaricò Corrado suo figlio e successore, che restituisse alla Chiesa Romana tutti i diritti da esso a lei tolti; e ritenuti ingiustamente, purché essa si portasse verso di lui da buona Madre. La sua politica, il valor militare, l’attività l’accortezza, la severità negl’ordini della Giustizia, unite alla lunghezza del Regno, poteano bastare a stabilire un Imperatore illustre. Ma sovente gli mancavano la prudenza e la fina politica. I Pontefici voleano essere essi i Padroni, e gli altri Stati d’Italia essere liberi. Ecco i due impedimenti, che non vi fosse in effetto un vero Imperatore Romano in mezzo alle continue turbolenze, che agitarono il suo Regno. Abbellì il suo Stato e segnatamente quello di Napoli e di Sicilia, ch’erano i suoi favoriti, e vi stabilì ottimi regolamenti. Decorò varie Città, ne fabbricò più altre. [6] Fondò diverse Università, richiamò le scienze nei suoi Regni, e favorì con distinta protezione i letterati e le belle arti. Coltivò anzi egli pure le lettere. Sapeva a perfezione molte lingue; era versato nella Filosofia, nella storia naturale, nella storia antica, e nella poesia. Che se a questi giovevoli studi aggiunge quello dell'Astrologia giudiziaria, di cui fu si cieco seguace, e credulo ammiratore, questo fu comune difetto dei più grandi uomini e dei più potenti signori di quella età. Compose un trattato de arte venandi cum Avibus, impresso con Alberto Magno, cum falconibus. Fece tradurre di greco in latino diversi libri e specialmente quello di Aristotile; ed avrebbe ancora fatto di più, se le traversie le quali tennero in continuo turbamento la sua vita, e che forse acceleravan la sua morte, non glielo avessero impedito.

[qui termina il cenno alla Storia di Federico II]

Non fia discaro fermar lo sguardo alla seguente altra lapide esistente dietro l’altare del Santo, che oggi conservasi nella nuova sagrestia. Dessa è del tenor seguente.
Ascanii Cassiani in Monte regali Sabbellorum editi,
Quod terrenum hic conditur, purior portio æthera
Petiit. Qui doctrina, eloquio, an prudentia, moribus
Major, incertum Urbani VIII a Segretis S. in Urbe
Congregationibus Visitationis Consultora Pont Max.
Eodem moderandis, plurium Urbium populis
Totius Umbriæ, lustrandis Sanctimonialium
Cœtibus, magnis aliis rebus adhibitus. Andriam
Tandem antistes missus, posquam templi hujus
Pavimentum stravit, atrium refecit, odæum
Struxit, utrumqne pictis imaginibus decoravit,
Hostia ampliora, fenestras lucidiores vitreasque
Baptisterium magnificentius reposuit, et quod
Potius viva templa virtutibus illustravit, templum
Cœleste jam meritis ornat, E terris abiit
Anno Domini MDCLVII die XII Iulii
Abbas Ludovicus Fratri dilecto lacrimans posuit.

Prima di passar oltre fia pregio dell’opera far rilevare ciocchè offre la leggenda del nostro Protettore, da noi volta nel sermon patrio.
Riccardo nacque di nobile schiatta in Inghilterra, da’ teneri anni sottoposto ai genitori, coltivò la pietà e la religione. Nell’adolescenza fu esente da quei vizii, nei quali quell’età esser suole inchinevole, e tutto si diede alle discipline liberali, e alle sacre lettere. Quindi da chierico divenuto sacerdote, ed investito Teologo, attese ad interpretrare i libri santi affinché poi adempisse coll’opera i suoi insegnamenti, sforzossi coi digiuni, con le veglie e con altre afflizioni della carne, ridusse il di lui corpo in servitù dello spirito. Era assiduo nell’orazione e con profusione di lagrime. Ad ogni atto di pietà e di misericordia propenso, esibivasi in aiuto di tutte le altrui necessità, e più che zelante della salute delle anime, per la sincera carità verso Dio ed il Prossimo, dava a tutti ricordi di salute. E avendo acquistato la perfezione cristiana, onde questo lume di santità non esistesse occulto sotto il moggio, ma risplendesse nella casa del Signore sul candelabro, per divino volere venne chiamato all’onore del Pontificato. In quel tempo appunto, in cui veniva l’Italia devastata da Attila, Re degli Unni. Laonde i popoli della Puglia eran sozzati da varii errori de’ Gentili. Fu allora che il beato Apostolo Pietro, che prima in Taranto, e quindi in Andria da Roma spargea i semi della fede, apparve in sogno al Santo, onde venendo in Italia, si conferisse al popolo di Andria, il quale aveva bisogno di essere ricondotto nella fede essendosene allontanato. Chepperò ubbidiente all’Apostolico comando condussesi in Roma onde protestare la sua ubbidienza ed ossequio a Gelasio sommo Gerarca da cui benignamente accolto, venne eletto Vescovo di Andria, per Divina disposizione, e per istrada non desisteva dal predicare ovunque, secondo gli autorevoli ordini ricevuti. Chepperò dall’Illirio approdato in Puglia, subito cominciò a rendersi chiaro coi prodigi. E giunto in Andria nella porta della città, restituì la vista ad un cieco, e sanò una paralitica, oltre tanti altri, cui donò la salute. Entrato in città, mondò la Chiesa polluta dagl’Idoli, e vi eresse la fonte battesimale, in cui battezzò non pochi dopo averli ridotti a credere in Gesù Cristo. Di poi ordinò il clero, e restituì il culto divino. Egli non desisteva di frequentemente imbevere la sua plebe, di salutari dottrine, e dei misteri divini; facendosi egli esempio di buone opere nella castità, nell’astinenza, nella carità in dispensare limosine, e accordare ospitalità. Non intermetteva i digiuni, e le orazioni. Le sue suppellettili erano umili al pari del vestire, e del letto, perchè fosse modello non solo alla sua, ma a tutta la Chiesa di Dio. Per lo che molti popoli finitimi e lontani commossi dalla fama della di lui Santità gli spedivano dei messi onde visitargli e dar loro precetti Cristiani. In quel tempo avvenne l’apparizione di S. Michele Arcangelo nel monte Gargano. Per comandamento di Gelasio Papa venne il nostro Santo chiamato dal vescovo di Siponto onde insieme cogli altri Vescovi, Savino di Canosa e Ruggiero di Canne per consacrare gli altari di quella Chiesa. Tornato in Andria, mentre con sollecitudine maggiore incombe all’Ufficio di Pastore, e niente tralascia in sua vece delle consuete asprezze, per divina rivelazione, fu fatto consapevole che già era imminente il giorno del suo passaggio da questa mortal vita. Laonde aggravandosi il suo male, chiamato a sè il clero, il popolo suo, esortogli a tenersi fermi nella fede Cattolica, nei precetti Apostolici e della Santa Madre chiesa, con perseverare ad amarsi. Avendo quindi raccomandato al Clero il culto Divino, e i beni della Chiesa, dopo essersi munito dei Santi Sacramenti, alzando gli occhi al cielo con quelle parole In manus tuas domine commendo Spiritum meum, spirò. Il di lui santo corpo con gran folla di uomini venne onorificamente tumulato, nel di cui sepolcro spessissimi miracoli rifulsero. Locchè nel tempo di Giovanna I. venne la santa spoglia smossa dal pristino sito onde non fosse fugata dai soldati Ungheresi, che saccheggiavano la Città, si pensò a nasconderla in luogo sicuro, per sottrarla da qualunque disgrazia, luogo che non si conobbe fuorché da pochi. Nell’anno 1438 Eugenio IV sommo Pontefice, e Alfonso re di Aragona; essendo Duca di Andria Francesco del Balzo, che scrisse la storia della invenzione, venne trovato spargendo soavissimo odore, con essere riposto dentro l’altare della sua Cappella fra la comune letizia. Responsorio che si recita a di lui laude è quel che segue
Sancte Richarde Christi Confessor
Audi rogantes servulos;
Et impetratam cœlitus
Tu defer indulgentiam
O sancte Richarde præsul Andriæ,
Preces devotas suscipe,
Et a nobis averte
Pestem famem et bellum
Et impetratam cœlitus etc,
Sancte Richarde fulgidum situs
Gratia Dei servorum tuorum gemitus
Solita suscipe dementia
Et impetratam cœlitus etc.
Gloria Padri etc.

Gli ornati, e le aggiunzioni ultimamente fatte in questa Cappella, vengono dettagliati nelle seguenti due iscrizioni in lapidi marmoree, composto da noi, le quali manifestano a spese di chi siensi eseguiti.
Hæctor Carafa Andriæ Dux
Quo in Divinum Richardum
Cultus usque augeretur
Atque perenne in eum pietatis suæ
Extaret monumentum
Anno MDCCXXXIX
Peculium XXXIV Vaccarum
Instituit
Quod a Canonico Sacelli eiusdem Priore
Aliisque tribus spectatæ fidei Gubernatoribus
Procurari velut sub ea conditione
Ut usque eo prolem fructusque cumularent
Unde cumuli mons dictus
Dum sexcentos aureos afferent centuples
Quo tempore cessarent acumulando
Atque exinde ad Sancti ornatum
Atque pia opera redditus impenderentur
Speciatim ut præter consuetas
Coram eodem divo noctuque diuque
Tres lampades conlucerent
Et quotannis sorte elegerentur
Duæ Virginis pauperiores
Quarum unicuique
Quinquaginta nummorum aureorum dos constitueretur
Præteria in quolibet Sabbato
Atque IX Iunii et XXIII Aprilis
Celebrentur Missæ ab eodem Priore in pro tempore
Cum annua stipe ducatorum triginta sex
Ut ex testamenti tabulis luculenter constat
II.
Vincentius Canonicus Latilla
Divi Richardi Sacelli emeritus Prior
Felix Margiotta Tabellio Regius
Ioseph Bolognese, et Vincentius D’Urso
Spectatissimi Viri
Mantis Cumuli administratores
Hectoris Carafæ Andriæ Ducis
Testamento curando
Ex ipsius Montis redditibus
Parietibus sacelli
Versiculoribus selectisque marmoribus
Circa convestitis
Duabus pariter hinc, et illinc in Sacello aris
Ex marmore pariter instructis
Die XI Iunii rite dedicatis
Interius vero
Sacrario et in eo adibjto
Ferrei secluso cancellis
Divi Richardi thesaurum dicunt
Asservandis vasis, et statuis, Argenteis
Pretiosaque alia suppellectili
Ejusdem Sacelli
Peculiaribus a fundamentis excitato
Locum Divi Patroni lipsanis augustum
Tot reddidere ornatibus augustiorem
Anno MDCCCXLIX
XVIII Præsulatus Iosephi Cosenza Andriæ Episcopi
Quot totum montis administratores
Testatum hoc lapide voluerunt
Ad posteritatis memoriam

Non offrendo altro questa Cappella, ognuno vede come anderà crescendo la dovizia in essa per la più giusta e devota riconoscenza e venerazione che merita per parte del popolo suo, avendolo un tempo sottratto dalla cecità dell’Idolatria, in cui miseramente giacea avvolto, riconducendolo in grembo dell’Evangelica legge. Intanto siccome dapprima ci proponemmo di nulla preferire, che interessar potesse l’attenzione del lettore, facciam qui notare, che in fuori delle due fonti dell’acqua benedetta, stabilite negli apposti pilastri della navata di mezzo, àvvene altra nell’uscire della Sagrestia, posta a comodo dei Sacerdoti. Di marmo è pur questa, in forma orbiculare a mezzo cerchio, striata di fuori, contiene nel centro tre pesci guizzanti. Del che renderem ragione in discorrere della Chiesa di Porta Santa mentre nei pesci si chiude un senso mistico [7] questa fonte sostiensi sopra colonnetta di marmo, inanellata nel mezzo e poggia sopra antico capitello di pietra viva, il di cui gocciolatore tiene giacenti otto leoncini, collocati nei quattro angoli a due due a foggia di Cariatidi [8] delle foglie di acanto abbelliscono intorno intorno lo stesso con varie modanature. L’intaglio dimostra la raffinatezza del lavoro svariatamente traforato con belle cornici; che se il tempo non l’avesse logorato sarebbe un monumento pregevole dell’arte per istudiarsi. Donde rilevasi, che lo stile del capitello in esame sia misto di Corinto, Longobardo, o Gotico. D’ordine misto è parimenti l’altro capitello di marmo cipollino, ornato anche di foglie di acanto frammisto di nastri vergati a linee parallele con bizzarre scanalature. Questo capitello col fusto dello stesso marmo conservasi dal Capitolo con quattro altri fusti simili, privi di capitelli e zoccoli. Tali pezzi smembrati formano dell’Intercolunnio dell’antico soccorpo. [9] L’abbondanza degli ornati come sanno i dotti è carattere speciale del Gotico, che son presi gran parte dal regno vegetabile. Foglie, ghirlande con fiori, frutti, con grappoli d’uva, pinnacoli con colonnette intorno, a cui si attorce l’edera e la vite, baldacchini acuminati su degli spigoli, l’acanto, ed altre erbe spinose s’avvolgono i sostegni delle mensole; capitelli che ricordano in meno elegante maniera la forma del capitello Corinto. Ora questo lusso di decorazione qual merito ha per la bellezza? La paziente industria dello scalpello, che con lento lavoro trafora in difficile maniera la pietra, non deve essere punto un motivo, acciò si applichi più facilmente il titolo di bella. La bellezza procede da più alta e nobil cagione. Anzi questa profusione di ornati è un difetto di cui tutti convengono, Esso abbaglia la vista; produce prima un senso di stupore; ma alla lunga stanca, perchè l’occhio e la mente trovano un luogo dove posare. Laonde Quintiliano nelle sue istituzioni parlando dell’Ornato sentenziava: Che ipsa illa Afeleia ( parsimonia, temperanza) implex et inaffectata habet quemdam purum, qualis etiam in fœminis amatur ornatum, et sunt quedam velut tenui diligentia circa proprietatem significationemque munditiæ.
Passiam quindi a spendere, qualche parola sul lavamano di questa Chiesa Matrice. Esso nella spalliera ci presenta un putto nudo, il quale con una mano tiene aperta la bocca d’un Delfino, da cui spicca l’acqua e che con la ritorta coda il ricinge. Ai fianchi in buon rilievo sono le teste di due satiri camosci, con lunghe orecchie portando in testa canestra ricolma di varie frutta. Sottoposta avvi la mensa. Lavoro ben eseguito di marmo statuario.
Il fin qui detto aggiunger debbasi la gran sfera dell’ostia Santa, con pietre preziose ed un pesante ostensorio fatto a getto in cui si venera benanco l’immacolato Agnello, ornato di serafini portando in mano i simboli della passione, oltre gli emblemi dell’incruento sacrificio, che si offre sugli altari e convertenti in spighe di grano, grappoli d’uva con ghirlanda in fronde di altri preziosi lapilli, di figura cilindrica con cristallo. L’ostia di propiziazione s’immette in lunette d’oro, che sorge d’immezzo a certe nuvolette contornate da teste di Angioletti. In punta elevasi una crocetta. Questo si prezioso arredo, e per la forma e per i fini ornamenti, che il fregiano eccita lo stupore a chiunque. Ma quel che più vi luce, è un calice d’oro largito al capitolo dalla destra generosa di Monsignor Bolognese, intorno la di cui coppa spicca artificiosamente ricamata, e rabescata con spighe di grano e grappoli d’uva pendenti vagamenti dai pampinosi strati, con altri finissimi lavori. Il piè è formato a tripode, e nella base osservasi di getto un mansueto Agnello giacente sul libro dei sette suggelli. Costò circa ducati settecento, anche a causa dei lavori piucchè fini. Senza tener conto di due candelabri magnifici, di tre incensieri, dei pastorali e degli altri argenti di minor rilievo. Tranne una croce costosa in cui è riposto un pezzo del Santo legno su cui spirò il nostro Redentore. Preferendo gli altri argenti, che si adoperano nei Ponteficali e un crocifisso dell’altare con borchie d’argento e piedistallo di ebano.
E prima di chiudere l’elenco delle cose ragguardevoli del nostro Duomo sarebbe un’onta allo scrittore mettere in non cale le altre insigne sculture che lo nobilitano.
Cominceremo dalla Vergine degli agonizzanti, lavoro eseguito in Lucca, degno d’ogni lode per beltà della Madre e del Pargolo che sostiene, ambo fregiato di diademi d’argento. Effigie questa più che miracolosa che tiensi ab antiquo per protettrice specialissima di nostra Patria sotto i titoli che raccolgonsi dal seguente distico, di allontanare il flagello devastatore della gragnuola, di assistere i moribondi e di sovvenire la anime purganti. I versi sono ben degna parte della mente sublime del sullodato Canonico Brunetti.
Grandine tu fruges, tu nos in mortis agone
Defunctos, Virgo tangier, igne veta.
Passiam quindi alle altre statue che espongonsi nei dì festivi.
Ti aggradirà non poco del capo degli Apostoli, che strigne nella destra delle chiavi, dorata l’una, inargentata l’altra, nella sinistra il nuovo Testamento. Opera questa di Giuseppe Santoniccolo, nostro concittadino. Oh quanta espressione e naturalezza lo anima. Rivolgiti poscia all’Apostolo delle Indie S. Francesco Saverio, che ti empirà nel contemplarlo dello più devoto ossequio. È lavoro poi questo di un compaesano Francesco Paolo Antolini. Questo medesimo artista effigiò S. Filippo Neri, che non sarà ammeno di soddisfarti a pari dell’altro. Spirano entrambi maestà divina, come in considerarli sperimenterà il tuo cuore. Eccoti quindi S. Alfonso, dello scultore Michele Brudaglio di Andria, cui dirai che manca la parola, si al vivo effigiarlo seppe l’industre scalpello, dal dì cui volto sembra che sfavilli raggi di Santità. Che dirai in iscorgere l’Eroe da Paola, che t’imprime più santa unzione? Non fia ammeno di rimanerne ammirato e che non prenda tu a lodare la scuola Andriese, che talmente fioriva nello scorso secolo. Alle su descritte unisce l’altra di S. Vincenzo da Paola, lavorata nella capitale da Artefice di grido. Si venera inoltre S. Luigi Conzaga, quel giglio di purità, statua che appalesa dal volto la innocenza dei costumi. A questo caro celeste sta in cima l’Assunta simulacro pieno di vita, e di fine espressione per le mosse soavi del volto dei lumi, e delle braccia verso il cielo, mosse le quali eccitano nei petti la più santa tenerezza. Onde ben dell’augusta fu detto «Asumpta est Maria in cœlum; gaudent angeli, lætantes benedicunt Domino.» E non son questi tanti altri monumenti, che rendono pregevole la Cattedrale? Senza preterire una nicchia chiusa a cristalli dorata nelle cornici in cui è risposto in mezzo busto l’Ecce Uomo opera anche pregievole dei valenti nostri Artisti paesani. Laonde a maggior onore di sua splendidezza aggiungeremo altro prestante ricordo.
Radunati insieme i tredici Cavalieri Italiani in Andria e con esso loro Prospero Colonna, e duca di Termoli; ed altri cavalieri Italiani, e Spagnuoli la Domenica sera XII del mese di Febbraio, fu conchiuso che senz’altro il lunedì seguente, ch’era la giornata deputata, col nome del Signore Iddio si dovesse presentare al campo....
Il Lunedì mattino li XIII Cavalieri uniti insieme andarono alla messa devotissimamente, volendo procedere in una cosa di tanta importanza e fama cristianamente, e con solennità di Religione. Lui, Ettore Fieramosca, si inginocchiò davanti l’altare (ora sacro al nostro Protettore) dove il prete ancor dicea la messa e poste le mani giunte sopra l’evangelo, giurò ad alta voce voler prima morire, che uscire dal campo, per sua volontà altro che vincitore; e prima eleggersi la morte che mai rendersi cinto per la bocca sua. E poi vedendo alcuni dei suoi compagni, ancor che sapessero di perder la vita, così nella storia del combattimento dei 13 Italiani coi 13 Francesi per li tipo di Felice Mosca 1723. Giuramento veramente Italiano, ripetuto dagli altri XII Eroi vincitori della Disfida di Quarata. Né vogliamo trasandare che gli Italiani tornando già vittoriosi, furon accolti con grande festa dai Signori Spagnoli che gli attedevan in Andria, dove accolti, rendute vennero per la memoranda vittoria solenni grazie a Dio e ciò nel nostro Tempio certamente.
Or per chi gl’ingnorasse, gli piacerà sentire qui riportata la Iscrizione della lapide posto nel monumento eretto tra Andria e Corato, luogo ove avvenne il combattimento.
Quisquis es egregiis animi si tangeris ausis,
Perlege magnorum maxima facta Ducum.
tres, atque decem forte concurrere Campo
Ausonio Gallis nobilis egit amor.
Certantes utros bello Mars claret, et utros
Viribus atque animis auctet alatque magis,
Par numerus paria arma, pares ætatibus, et quos
Pro Patria pariter laude perisse iuvet.
Fortuna, et Virtus litem generosa diremit,
Et quæ pars Victrix debuit esse fecit.
Hic stravere Itali iusto in certamine Gallos;
Hic dedit Italiæ Gallia victa manus.
Ottant’anni dopo essendo venuto qua Ferdinando Caracciolo, Duca d’Airola, destinato Prefetto nelle Provincie d’Otranto e Bari da Filippo II. Questi rifece il monumento vi attaccò la seguente iscrizione.
Optimo maximo exercitum Deo
Ferdinandus Caracciolus Andriæ Dux
Cum a Filippo Regum Maximo Novi Orbis Monarca
Salentinis Iapygibus
Prefectus imperaret
Virtutis ac memoriæ causa
Octoginta post annos poni curavit
Anno a Christo Deo nato
MDLXXIV
Questo monumento nella venuta dei Francesi nel nostro regno fu demolito, ma esistono non pertanto i ruderi; e la lapide smussata fu affissa nella Masseria chiamata S. Elia, fra Andria Trani e Corato. Tal famosa pugna accadde a 13 Febbraio 1503, correndo una specie d’interregno tra Federico II. e Ferdinando il cattolico. Monarchi di Francia e di Spagna, ch’eran tra loro convenuti dividersi le provincie del Regno di Napoli.
Tra gli altri patti del famoso combattimento era stabilito, che ciascun vincitore guadagnerebbe cento scudi d’oro, oltre le armi e il cavallo vinto. I Francesi avendo voluto cancellare quella memoria denigrante esso loro, i nostri a ragione furon solleciti a conservarla a futur ricordo.
Or qui si noti, che questo Duomo e forse la seconda Cattedrale Andriese, comecche la primissima fu la vetustissima Chiesa di S. Andrea, esistente tuttavia in uno scoscendimento di umili antichi tuguri appellati le Grotti. In essa venerasi ancora l’ara in cui celebrò l’apostolo, la di cui rude statua di argilla vedesi stabilita in cornu Evangelii, adorna di pesci, sull’altare ci è un quadro della Concezione bastantemente logoro dal tempo soggiacendo alla eroina, S. Andrea coi pesci in mano e S. Riccardo mitrato col suo pastorale. Alla sinistra dell’ingresso e di¬pinta l’Addolorata ai di cui piedi giace Gesù Cristo chiodato, e dirimpetto la donna di Maddalo scarmigliata e lagrimante. Vi è un confessionario nel di cui frontespizio ricorre una fascetta, o nastro a guscio di conchiglia, sporgenti e progressivi, che ben mostra nel tutto insieme la sua vetustà. Veggonsi tuttavia quattro finestre chiuse, che la illuminavano, due a destra, e due a sinistra, formate a pietre di taglio con archi a sesto acuto secondo le antiche forme di costruzione gotica. Non fia poi chi dubiti, che la suddetta statua di S. Andrea sia lavoro congegnato da nostri antichi vasellai.

Uscendo dal Tempio vedesi elevata una guglia, che attacca al muro laterale del medesimo, nella cui cima e allogata la statua lapidea di S. Riccardo, in atto di benedire, ornato Pontificalmente. Questo obelisco di pietra vennegli eretto per avere liberato le campagne dal flagello dei bruchi, che le devastavano secondo indica la iscrizione.
D. O. M.
Divo Riccardo Britanno
Qui postquam populum
In antiqua errorum tenebras relapsum
Ad Christi sacra traduxit
Primus delatam sibi
Andriensis Ecclesiam curam accepit
Quod
Urbem semper validissimo tutatus præsidio
Et gravi locustarum incursione adeflictam [10]
Anno CIƆCCXXVII
Circumagente mirum in modum succurrerit
Cives Andrienses Patrono præsentissimo
Grati animi monumentum
P. P.
In faccia al muro istesso, vicino un orologio solare su piccola base poggia un Leoncino di pietra sporgente sopra una gran lapide che offre la effige d’un Vescovo col pastorale avendo le mani incrocicchiate al petto, di gusto gotico ignorandosene il nome. Accanto al Leoncino sopra altra lastra lapidea infissa nel muro si scorge una stella raggiante stemmi degli Svevi, e dei Bauci o Balzi.
[integralmente tratto dal libro di Giacinto Borsella, "Andria Sacra", edito a cura di Raffaele Sgarra, Tip. Francesco Rosignoli, 1818, pagg. 93-124]

[1] Per dir qualche cosa intorno alle tabelle votive, nelle quali ordinatamente sono scritte le iniziali V. F. G. A. votum fecit gratia accepit, convien sapere, che la ricuperata sanità die motivo d’apprima ai voti e per giusta riconoscenza sospendeansi nei tempii le figure delle membra risanate, per opera della Divinità. Onde il Tasso Gerus. C. 7. stanza 5. Pendono intorno in lung’ordine i voti che vi portano i creduli devoti. E Dante: nel 31 del Parad. E quasi peregrin, che si ricrea nel tempio del suo, voto riguardando e spera già ridir come ella stea. E qui cade in taglio osservare con Seneca nel Ep: 10 a Lucio, la empietà di taluni che si avvanzano a concepir voti indegni d’essere presentati alla Maestà Divina Quidam turpissima vota Diis insusurrant, si quis admoverit aerem conticescent, et quod scire hominem nolunt Deo narrant. Sic vive cum hominibus, tanquam Deus videat sic loquere cum Deo tamquam homines audiant. Troppo memorabili parole in quanto allo scalpello che rilevò i quadretti di cui s’è parlato, sebbene rozzi pure nella loro rozzezza e semplicità, mostrano l’adolescenza dell’arte la quale vennesi perfezionando colla scuola della statuaria, che fiori in Andria come appare da tumuli scelti nelle diverse schede e da frontespizii, ed imprese per la città di che in varii luoghi si andrà narrando.
[2] Non sembrerà estraneo alla circostanza il passo seguente di Macrobio tolto da I dei saturnali c. 2 che ha per titolo: de quibus libentcr quisque interrogetur. Religiosus si adest de illi referendi copiam quibus observationibus meruerit auxilia Deorum; quantus illi ceremoniarum fructus, quia et hoc genus Religionis existimant. Numinum beneficio non tacere. Ac de quia volunt et Amicos se Numinibus..... Dal che raccogliesi la non lieve imperfezione di natura, la leggerezza della mente, che appalesan coloro, che pregiansi stoltamente della propria empietà.
[3] Ci si condoni, questa nota, come uno sfogo contro gli irreligiosi, che si burlano di tutte le verità che la fede c’insegna, nonchè l’antico e nuovo testamento. Quindi avea ben ragione di così vilipenderli l’Alfieri, nella 5 satira la Irreligioneria, Chiesa e Papa schernir Cristo e Maria è picciol arte; ma inventarsi nuovi. E tali ch’abbian vita, altr’arte fia. Ci vuol altro a cacciar Cristo dal nido, che dir ch’ella è una favola, fa d’uopo favola ordire di non minor grido. Sani precetti ed a sublime scopo dà norma la Evangelica morale, nè meglio mai fu detto anzi, nè dopo. Ecco, o Volter microscopico il bel frutto, che dal tuo predicar ne uscia finora. Ai ribaldi trionfi, ai buoni lutto. Ma qual pro ne ottenesti? Tel dice lo stesso Astigiano; dei frizzi tuoi religion tentenna; ma i frizzi tuoi non dan base a virtude: L’ancora morde il lido, e non l’antenna. Si sa dalla storia che le lettere filosofiche di questo miscredente, pieni di tratti arrischiati e di scherzi contro la religione vennero bruciate per sentenza del Parlamento di Parigi e decretato l’arresto personale dell’autore. Il suo sistema era di presentare la religione come il flagello dei popoli impegnandosi troppo a mostrare la virtù sventurata ed il vizio trionfante. Il furore anticristiano era divenuto presso lui una vera mania. Egli prende ora il tuono di Pasquino, ed ora quello di Pascal, ma ritorna più sovente al primo, perché gli è più naturale. I suoi libri anticristiani non sono che una perpetua derisione di Preti, e delle loro funzioni, dei misteri, e della loro profondità, dei concilii e delle loro decisioni.
Egli volse in ridicolo i costumi dei Patriarchi, le visioni dei Profeti, la fisica di Mosè, le storie, lo stile, l’espressione della scrittura, finalmente tutta la religione. Non solo attacca il cristianesimo distrugge di più tutti i fondamenti della morale, insinuando i principii del materialismo. Ciocchè vi à di più odioso, s’è che egli altera soventi i fatti, tronca i passi, suppone errori, immagina contraddizioni per dare più di sale alle sue facezie e più di forza ai suoi raziocinii. Ma qual mai, fu la fine dei giorni di quest’empio? Una repentina emottisi troncò la vita impenitente di costui. (Squarcio ricavato dal nuovo dizionario storico degli uomini illustri). Dopo lui volgiamoci ad un altro non men pericoloso miscridente Rousseau. La esistenza di Dio per esso si attacca con sofismi, e gli atei sono confusi con argomenti invincibili.
È notabile che la religione Cristiana combattuta con obbiezioni speciose, è celebrata coi più sublimi elogi. Se non è stato sempre virtuoso, niuno almeno ha meglio di lui fatto sentire il pregio della virtù. Egli fa un elogio sublime dell’Evangelo ed un ritratto toccante del divino autore del medesimo, simile all’antico Diogene, accoppiava la semplicità dci costumi con tutto l’orgoglio dell’ingegno. Le virtù di Volterra erano nella sua testa e quelle di G. Giacomo nel suo cuore. Sulla sua tomba si leggono i seguenti epitaffi. Qui riposa l’uomo della natura e della vanità. Vitam impendere vere. Hic iacent ossa I. I. Rousseau. Anche questo filosofo della natura morì come il primo di apoplessia. Daremo qui uno schizzo sui sentimenti del Bayle sullo stesso soggetto, egli fra l’altro nella sua opera la cometa, sostiene esser men pericoloso il non aver punto di religione, che l’averne una cattiva. Essere l’ateismo un male minore dell’idolatria e della superstizione. Si giudicò fin d’allora Bayle. Era un eloquente sofista ed un Pirronista pieno di spirito. Dopo aver rovesciato in quel libro tutti i fondamenti delle altre religioni, passa ad attacar la Cristiana, ed osa avanzare, che veri Cristiani non formerebbero stato, il quale potesse sussistere. Qual egli era in materia di credenza, tale anche fu in genere di letteratura, e di qualità di scrittore come avvenne il … vale a dire un tessuto di contradizioni per un pirronismo portato all’eccesso. A pié del suo ritratto leggonsi i seguenti versi : «Baylias hic ille est cujus dum scripta vigebant lis erat oblectent, proficiasque magis.» O come altri scrisse: Lis erat plectent, officiantique magis. Circa gli errori di costoro anteriormente, e posteriormente riprodotti da altri sotto altre forme, consultisi la somma di S. Tomm… L’altra contro gentiles, S. Agost. (De civitate Dei) altri PP. e teol. onde ravvisarsi con quanto poco senno gl’empi cercano insultare la dignità del cristianesimo.
[4] Intus binas arcas anzi tre, la prima delle quali è di creta cotta, tutta dorata come apparisce ancora. Questa terza, che serviva di coperchio alle altre due, formossi senz’altro nelle antiche nostre ufficine, le quali eseguivano lavori di ogni specie, di cui ancora se ne veggono gli avanzi tanto in uso di tavola, che di farmacia, di cui ci resta qualche reliquia. Senza parlare delle teste dei fiori, mezzo busti per giardini, mattoni verniciati con fiori, animali, campagnuole, lune, stelle, chiesette ed altro, e delle sotto coppe e tazze finamente smaltate con fino azzurro. Gli storici quindi che han parlato dei prodotti di Andria convengono che quivi era in voga l’arte figulina per ogni specie di vasellame.
E qui notiamo ciocchè scrive il padre Gian Paulo Grimaldi della compagnia di Gesù nell’opera sua stampata in Napoli nel 1607 intitolata, Vita di S. Ruggiero, vescovo e Patrono di Barletta, in cui parlando della invenzione del corpo di S. Riccardo così dice «nel tempo di Francesco Secondo del Balzo Duca di Andria, ritrovatosi dal 1438 nella Cattedrale di Andria il corpo di S. Riccardo, di lei primo vescovo, egli stesso il Duca Francesco ne scrisse di propria mano la storia degli anni del Signore 1451, dove narrò di avere anni addietro mandato persona al Pontefice Eugenio IV con un calendario ritrovato dentro la cassa, nella quale si faceva menzione di S. Riccardo ed un foglio di messale antico, dov’era l’orazione propria, la segreta, et post communio di S. Riccardo. Il resto della carta era guasta per antichità; parte anche dei miracoli e testimoni autentici in istrumento, e per fama pubblica. Dopo questa invenzione si compiacque Iddio onorare di bel nuovo il suo Santo col dono dei miracoli e vi concorrono molti storpii raddrizzati e molti dal regno della morte richiamati in vita. Fu cura del Duca far scolpire in lapide un numero di questi miracoli autenticati, che furono collocati nei due intercolunnii che guardano i lati dell'altare nella sua Cappella. Sottoposto all’armadio delle reliquie eravi un porticino ben costrutto, chiuso con portella di legno, avendo in cima la testa d’un angioletto con leoni rampanti a fianco gli stemmi della città. Costruzione questa tutta di pietra viva. In fondo gran conca di creta contenente l’acqua benedetta del Santo, che con secchietto attingevasi, e dispensavasi ai fedeli per la guarigione dei loro mali. Ed a proposito notiamo pure Nyuphaeum la conca dell’acqua, che stava nelle porte delle chiese ove lavansi le mani i cristiani prima di entrarvi. Così il Macri.
[5] Affinché taluno a tutta prima non rimanga formalizzato in vedere premesso alla presente opera il cenno sulla vita di Federico e dica, che ha che fare la luna coi granchi? Noi gli rispondiamo che sospenda per poco il suo giudizio prima di azzardarlo. Imperocchè siccome spesso nel corso dell’opera accaderà farsi parola di questa illustre famiglia, di cui tante tenere memorie conservansi della nostra Patria, così ci è paruto di far questo cenno per la più facile e spedita intelligenza di quei luoghi, ove ne sarà fatta parola. Altronde facciamo notare al buon lettore, che lungi di tener egli per non vero il ditterio, lo abbia anzi per vero, mentre i crustacei, come costa dal fatto, crescono all’incremento della Luna.
[6] Non omettiamo che nell’entrata dell’antica porta di questa Città detta della Barra sonovi ben rilevate due imprese, l’una ad onore della casa dei Balzi esprimente la stella raggiante, e l’altra, che mostra lo stemma del Comune, cioè il leone coronato, che si rampica ad una quercia, vi si vede l’epoca del 1544. Notiamo pure, che abolito il Feudalismo, venne tolta una lapide, che accordava al Barone il dritto d’esigere un dazio sui cereali chiamato giumella, ed anche pei liquidi.
[7] Conca sorta di vaso da tener l’acqua per uso delle cose sacre: Fecit lacum prophiraticum cum conca ascila in medio, aquam fundentem Anastas: in Hilario la voce propriamente è greca: coghe, conchiglia. Dinota anche il vaso da fare il bucato Conca Alveus, e per similitudine cosi appellansi i vasi di legno. Prendesi anche per tomba in greco thaphos pure.
[8] Conca est in similitudinem speluncæ, que fuit in Bethlem in qua natus est Christus in similitudinem speluncæ in qua sepultus est, Anastas: Nel qual senso Orl: Fur: 322:
In quella stanza ove la bella conca in se chiudea del gran Profeta l’ossa.
Onde Dante Inf : 9.16
In questo fondo della trista conca
Discende mai alcun del primo grado?
Della trista conca cioè dell’Inferno. Come per nicchio, e conchiglia, e conca marina conchylium.
Cariatide in Architettura è figura di donna vestita all’orientale, ed impiegata in luogo di colonna, o di pilastri. L’uso delle Cariatidi è antichissimo e numerosi esempi ne offrono i monumenti dell’Egitto, della Persia, della Grecia e di Roma. Lepine attribuisce l’origine alle giovani Lacedemoni, che recavansi ogni anno a Casia per danzare innanzi a Diana Cariatide. Le loro immagini furon imitate dagli scultori Greci a farne sostegni (fulcra) che impiegano nei templi. Secondo Vitruvio L. I. C. I. che anche egli dà origine greca, tal nome deriva da una vittoria riportata dagli Elleni contro gli abitanti di Casia, Città del Peloponneso che erasi alleata coi Persi. Tutti gli uomini furon passati a fil di spada, e le donne primarie dopo aver seguito il carro dei vincitori, vennero ridotte in ischiavitù e costretto a conservare i loro abiti sfarzosi. Questa vendetta fu tanto più terribile, che gli architetti, ed i Pittori ne vollero perpetuare, la memoria, impiegando le figure scolpite di quelle donne nei loro vestimenti per sostegno dei cornicioni. Lo che ci ricorda le maniere gotiche del medio evo. Alla cui contemplazione riesce non estranea la parola del Padre della Poesia Italiana, quando ispirandosi nei Sepolcri di Firenze paragonava alle Cariatidi la posizione dei superbi incurvati sotto il peso dei sassi nel Purgatorio, ed esclamava:
Come, per sostentar solaio o tetto,
Per mensola talvolta una figura
Si vede giunger le ginocchia al petto,
La qual fa del non vero rancura
Nascere in chi la vede; così fatti
Vid’io color, quando posi ben cura.
Ver è che fini e meno eran contratti
Secondo che avean più o meno addosso;
E qual più pazienza avean negli atti
Piangendo parea dicer: Più non posso
Oh troppo mirabile squarcio portato si alla evidenza egli atti delle figure!
[9] Precisamente i fusti suddetti appartengono ai primo Mausoleo di Beatrice d’Angiò, di cui già parlammo. Esisteva esso nel soccorpo quanto i tempi e quel tale vandalismo comune ai popoli della nostra bassa Italia ebbero con disdoro disfatto. Ed ora questi pochi avanzi appena ce lo rammentano. Non saprei se al primo Mausoleo della Beatrice ne avessero sostituito altro di cui scorgonsi le tracce nel nuovo che fiancheggia l’interno della gradinata dell’organo. Ivi perché è vago di meditare le antiche forme dell’antica architettura, non riuscirà disgradevole lo sfigurato monumento. Triviale ne è la esecuzione; ma esprimente il disegno della sua bizzarria. Composto di pietra viva offre due bassi porticati con archi a sesto acuto, sorretto da capitelli con figure accosciate sotto gli archi ossia Cariatidi. Locchè rammenta le maniere gotiche del medio evo.
[10] Brucus voce greca bruscos bruco, locusta, una sorta di verme, che rode l’erbe, le cortecce dei rami degli alberi, e addenta le viti, i cereali, e tutte le altre specie di vegetazione. Di questo insetto alato, o verme si fa spesso menzione nelle sacre carte venit locusta, e brucus: Psalm. 104. Questi animaletti a stretto senso sono gli stessi, poicchè la locusta genera il bruco, il quale poi mettendo l’ali diventa simile alla Madre, come nota S. Agostino. Una plaga est locusta et brucus, quoniam altera est Pareus et altera est foctus. «Del medesimo sentimento fu Ugo Cardinale.» Quindi raccogliesi quanto nocquero agli Egizii le locuste, che Mosé ivi eccitò. Inter locustas plures mundæ sunt et hisce plerique populi in oriente etiam nunc temporis vescuntur. Ergo Ioanni non fucit peculiare, quod locustis et agresti melle sed quod his solum cibis uteretur, iisque forte oblatii. Così il P. Lomx nel suo apparato Biblico. Ma volgiamoci al tesoriere della natura, dir voglio Plin: secondo C. 29 L. 2 che tra l’altro dice. «Vernis aquis intereunt ova sino vere major proventas ecc.»