S. Riccardo nella Storia, di R.Zagaria

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“San Riccardo nella leggenda, nella storia,
nella poesia popolare e nella letteraria”

di Riccardo Zagaria


La Storia

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Andria non ebbe la sua esistenza come paese se non dopo il Mille. In tre pergamene, l’una del 1000, la seconda del 1011, la terza del 1032, edite dal Trinchera [41], si legge: «et in civitate tranensi et in villa, quae est de civitate opsa, quae cognominatur Andre, vinee deserte et olibetalie viginti septem» (perg. del 1000 e del 1011); e poi «sub Trane in loco Andre» (perg. del 1032): era dunque un locus o villaggio, e nel territorio di Trani e appartenente a Trani. La prima menzione che se ne trovi fatta, in un documento dell’Archivio cattedrale di Trani, è del 911 [42].

Incominciando a scindersi dopo i primi successi, i normanni di Puglia, intorno al 1046 - 1047, riconoscono per capi, gli uni Umfredo e Drogone; gli altri, Pietro figlio di Amico, che non riesce ancora a sottomettere la città di Trani, rocca forte devota ai bizantini; ma per avvicinarvisi sempre più e bloccarla, le crea tutt’intorno una cerchia di borghi fortificati: Andria, Corato, Barletta e Bisceglie [43].

Avvenuta poi la ribellione dei capi normanni contro l’egemonia di Roberto Guiscardo, circa il 1058, Pietro d’Amico, riuscito in qualche settimana ad occupare Melfi, ne venne scacciato da quello; il quale, già nel 1071 padrone, a sud - est della penisola, di Otranto, di Brindisi, di Bari, si vedeva tuttavia sfuggire le città del litorale nord da Bari al Gargano. Trani fino al gennaio 1073 non riconosce altro sovrano che il basilio, e soltanto allora il conte Pietro o Petrone riesce ad entrare nella città ch’egli invano rivendica come sua da non pochi anni. [44] Qualche settimana dopo, la cede a Roberto Guiscardo che sottomette di poi Andria, Corato e Bisceglie [45].

Solamente allora Bisceglie, e forse Andria pure, divenute feudi per se stanti, potrebbero avere avuto i loro vescovi; i quali, in tale ipotesi, non potrebbero però essere stati altro che vescovi suffraganei di Trani, ormai elevata. ad archidiocesi. Ciò, tanto più verosimilmente, in quanto che Pietro Il, erede del sopradetto Pietro I, essendo scacciato da Trani, ebbe a ritirarsi e fortificarsi in Andria, elevandola a contea. [46] Raccogliendo egli molti casali andriesi sparsi intorno ad Andria, che probabilmente ne era il più popoloso, si trovarono a coincidere da una parte la necessità sua di formarvisi un vasto feudo e afforzarvisi; dall’altra la tendenza, che a quei tempi veniva determinandosi nelle nostre popolazioni, di abbandonare le campagne per raccogliersi in centri urbani.

Un indizio dello sviluppo delle città in Puglia, nel periodo che va dal primo terzo del sec. X alla metà del XI, è — osserva il Gay — [47] lo smembramento delle antiche diocesi, troppo vaste per essere amministrate da un solo vescovo. I centri episcopali si moltiplicano in ragione stessa dei bisogni della crescente popolazione.

I vescovi stabiliti in città antiche resistono a questo movimento, e non trovano altro modo per mantenere la loro autorità che prendere il titolo di arcivescovi e farsi conferire i diritti di metropolitani. Così Benevento, la cui diocesi primitiva, al tempo della conquista longobarda si estendeva fino all’Adriatico, diventa centro di una provincia ecclesiastica, dove sorgono numerosi suffraganei; allo stesso modo, nei limiti dell’antica diocesi di Canosa - Bari, compaiono, nel sec. XI, una dozzina di nuovi vescovadi.

Uno dei primi risultati dell’invasione normanna è quello di affrettare la concentrazione degli abitanti nelle città o borgate meglio fortificate, che sole possono servir loro di rifugio. I capi normanni s’impadroniscono dapprima delle località secondarie — è il caso di Andria — dove la resistenza è impossibile; poi, a lor volta, cominciano a circondarle di mura e le trasformano in città nuove. Il conte Pietro, che si intitola «conte di Trani» senza essere riuscito ad entrare nella città, costruisce all’intorno, nei villaggi circostanti, un quadrato di fortezze: due sul mare Barletta e Bisceglie; e due nell’interno Andria e Corato, che ben presto divengono nuovi centri di popolazione.

Così sorgeva, o almen s’allargava, Bisceglie, proprio intorno al 1074; [48] così accrescevasi Barletta, dando ricetto ai miseri abitanti della distrutta Canne (1083) e dei relativi casali; [49] così faceva Andria in conseguenza del trasferirsi in essa degli abitanti, col relativo capitolo, di Santa Maria di Trimoggia [50].

In quanto alla diocesi biscegliese, infatti, sappiamo che, anche nel 1074, Dummellus ne era il secondo vescovo, [51] la qual cosa importa che soltanto pochi anni prima era stata istituita la diocesi in quella città. Il San Mauro che quel tale Ughelli assevera primo vescovo di Bisceglie, anzi discepolo degli apostoli — scusate se è poco — da uno storico vero, l’Hergenröther [52], vien detto invece vescovo di Bari. … La controprova di questo fatto ce la offrono Barletta e Corato, le quali come non ebbero mai, almeno stabilmente, un signore feudale, così non divennero mai, a tutt’oggi, sedi vescovili. Forse non erra il compianto e dotto Arcangelo Prologo nell’affermare che Andria fu eretta in diocesi, sempre in dipendenza da Trani, nel Concilio di Melfi, già menzionato, del 1089. Certo è però che il primo documento ufficiale della diocesi andriese, suffraganea dell’arcivescovato di Trani, si legge soltanto nel Liber Pontificalis che fu pubblicato nel 1192 ma il cui contenuto risale al 1136.

Ora, i paesi che non avevano esistenza civile indipendente neppur godevano l’indipendenza ecclesiastica: le loro chiese erano suffraganee, erano, tutt’al più, vicariati in soggezione delle diocesi principali, fino alla conquista normanna che si trovò a costituire — nell’infuriare della lotta politica fra normanni e bizantini, delle gare giurisdizionali tra Santa sede e Patriarcato greco — una delle cause del moltiplicarsi quaggiù delle diocesi. Ed eccone le cause. Anteriormente alla dominazione bizantina, quale si stabilì nel Mezzogiorno continentale dall’avvento al trono di Basilio I (867), i vescovi erano stati suffraganei della Santa Sede, o Suburbicarii come allora dicevasi; il che non poteva gradire né all’impero né al patriarcato di Bisanzio; onde, stabilitosi quel dominio tra noi, i patriarchi incominciarono, per attrarli alla loro dipendenza, ad allettarli con titoli onorifici, come quello di Arcivescovo; e, in prosieguo, quel Patriarca Poliuto, il quale aveva vietato il Rituale Romano nell’Italia meridionale ancor prima che il Cerulario facesse definitiva rottura col Pontefice romano (anno 1043), mise in opera un secondo mezzo di adescamento, più efficace del primo, la concessione cioè dei vescovati, e, innalzato a dignità d’Arcivescovato uno dei più vasti fra essi, quello di Otranto, ne divise la grande estensione in cinque vescovati suffraganei [53].

Questo fenomeno storico veniva mettendo radici profonde per il fatto che lusingava contemporaneamente l’ambizione e gl’interessi materiali del clero da una parte, l’amor proprio delle popolazioni dall’altra, quando gli si venne ad aggiungere l’invasione normanna (1017 e 1040 - 1043) che scacciava i bizantini. I normanni, accorti politici quanto valorosi guerrieri, si resero subito ben chiaro quale partito si potesse ricavare da quel fenomeno, ai fini del loro consolidamento ed espansione: onde, via via che, insignorendosi, erigevansi a signori feudali indipendenti, vollero non dipendere da altri anche ecclesiasticamente, e ogni feudatario volle il suo vescovo. Allora il caso di Otranto viene imitato nel resto delle più vaste diocesi pugliesi: il capoluogo fu eretto ad arcivescovato, e le diocesi di formazione più recente divennero suffraganee di quello. Roma tacitamente consentì, vedendo non solo il coincidere degli interessi e dei sentimenti nel clero, nei signori, nel popolo; ma anche la possibilità di mantenersi con tal mezzo tutti affezionati, e mediante il loro ausilio mettersi in grado di combattere con buon successo lo scisma greco.

Un esempio pratico di tutto questo ci viene presentato dalla diocesi di Trani. Essa, infino al tempo di Martino V (11 nov. 1417 — 20 febbr. 1431), dal quale venne ingrandita mediante l’aggregazione del territorio di Salpi, corrispose esattamente ai limiti della contea tranese, la quale comprendeva Barletta, Bisceglie, Andria e Corato. [54] Per chiarire la qual cosa non sarà inopportuno risalire molto indietro.

Al principio del sec. VII, anteriormente alla conquista longobarda, troviamo a sud dell’Ofanto, vescovi a Bari, Canosa, Acheruntia, Egnatia, Venosa, [55] che sono tutti antichi castelli romani, e anche a Trani e a Cupersanum, località allora meno importanti: ciò significa che il numero delle diocesi si presenta inferiore a quello delle antiche civitates romane. Dopo la conquista longobarda, parecchie di quelle città, come Egnatia, Salapia, Arpi, Herdoniae, sono in rovina o addirittura abbandonate. I vescovati di Venosa e Conversano che ricompaiono nel sec. XI sono, in questo momento, di recente istituzione. Si pensi, ad esempio, che, in tutta la Terra d’Otranto, nel tempo che va dal regno di Leone VI all’avvento di Niceforo Foca (886 - 963) non si contano che le due sole diocesi di Gallipoli e di Otranto, e che al concilio radunato da Fozio a Costantinopoli (879), i soli Marco di Otranto e Leone di Reggio rappresentano l’episcopato dell’Italia meridionale. Prima di Canosa, prima di Canne che ne assunse l’importanza dopo la distruzione, e forse prima ancora della stessa antichissima Siponto, esistette la diocesi, poi scomparsa, di Arpi, presso Foggia, un cui vescovo Pardus e il diacono Crescens intervennero e firmarono al Concilio Arelatense nel 312, [56] e che, nel tempo di S. Gregorio Magno (+ 604), esistevano anche le diocesi di Taranto e di Gallipoli [57].

I vescovi erano in numero assai piccolo, e molte chiese, distrutte o abbandonate al principio della invasione longobarda, non erano state restaurate durante le incursioni saracene; anzi qualche diocesi, che era stata ripristinata [58], torna a rimanere deserta. Invece, durante l’occupazione saracena di Bari e di Canosa (840 - 870) si torna a non veder più vescovi in quelle sedi: fuggono e si rifugiano; e poiché l’occupazione saracena si prolunga, massime in Puglia, per altri 20 anni, bisogna dire che soltanto dopo scacciati i musulmani la gerarchia si ristabilisce nei centri principali. Allora il seggio episcopale viene trasferito da Canosa a Bari divenuta ormai sede d’uno stratega bizantino e il principal seggio episcopale di Puglia. Basti ricordare che ancor nella metà del sec. X Termoli e Tricento non avevano diocesi; e che solo nel maggio del 969 la ottengono, dopo insistenze di lunghi tempi e come suffraganea di Benevento, paesi d’una certa importanza e popolazioni quali Ascoli, Bovino, Larino e Volturara. «Al principio del secolo undecimo — scrive il Gay [59] — prima dell’occupazione saracena, le sole diocesi di cui si possa affermare l’esistenza in Puglia sono quelle di Lucera e di Canosa; fors’anche c’è un vescovo a Trani, se si può accettare come esatta la firma ad un concilio del 761. Ma, trovandosi la borgata di Trani, poco importante a quell’epoca, assai vicino a Canosa, questa menzione isolata resta sospetta. E lo stesso è per il seggio di Bari; giacche non è certo che la menzione “Sebastianus bariensis” d’un sinodo romano dell’826 si riferisca a Bari di Puglia».

Come, dunque, Andria avrebbe potuto costituire una diocesi dipendente da Trani se la stessa diocesi di Trani o era dipendente da Canosa o non esisteva per nulla? Diciamo questo come per l’ipotesi meno inverosimile; giacché sarebbe enorme pensare che Andria, mai nominata in questi secoli, potesse avere una diocesi indipendente. Si noti ancora. Tra il 980 e il 981 la diocesi di Canosa - Bari raggiunge la sua maggiore estensione; onde le viene aggregata la diocesi di Trani, la quale, se realmente esisteva, prima era stata sede d’un vescovato distinto. Uno o due anni dopo, rivoltatesi le città pugliesi ed entrate in esse le truppe germaniche, Benedetto VII (ott. 974 - ott. 983) nomina a Trani il vescovo Rhodostano, concedendogli anche la giurisdizione su Giovinazzo, Ruvo, Minervino e Montemilone, forse per reagire all’arcivescovo di Bari troppo devoto all’impero bizantino, quantunque Rhodostano gli faccia poi defezione. Alla morte di questo, la diocesi tranese venne di bel nuovo aggregata alla sede di Bari, al cui presule Crisostomo, «arcivescovo di Bari e di Trani» il catepano Gregorio Tracaniota confermava solennemente, con un atto del 999, i diritti e i privilegi non che le immunità speciali riconosciute ai preti delle due cattedrali. [60] E ancora nel 1025 l’arcivescovo barese Bisanzio, ricevendo da papa Giovanni XIX la conferma del titolo e dei sopradetti privilegi, viene investito pure della facoltà di consacrare dodici vescovi nelle diocesi di tutto il territorio, dalle rive dell’Ofanto sino ai confini della diocesi di Taranto e di Brindisi; diocesi, tra le quali non figura quella di Andria [61].

Nel 1053 si vede novellamente un vescovo o arcivescovo a Trani, il famoso Giovanni «syncella imperiale», il cui lusso insolente offende l’austerità di S. Pier Damiano; ambizioso, pel favore bizantino, di estendere la sua giurisdizione sulla Chiesa di Siponto, malgrado la Santa Sede e l’arcivescovo di Benevento, deposto nel concilio di Melfi (23 agosto 1059) [62]. Egli è, allora, in Puglia il primo rivale dell’arcivescovo barese, ufficialmente riconosciuto dalla Santa Sede, e perciò a lui si appoggia il patriarca bizantino Michele Cerulario rivolgendogli nel 1053 la famosa lettera che diede origine allo scisma orientale [63]. Nel 1063 la diocesi di Trani è ancora suffraganea di Canosa - Bari; mentre nel 1067 vi ricompare un vescovo, al quale Alessandro II (1 ott. 1061 - 21 apr. 1073) restituisce la chiesa di Biccari, giù sottrattale da Stefano II (mar. 752 - mar 752) papa per un giorno per annetterla all’arcivescovato di Benevento. Si tratta, come si vede, sempre di una sede episcopale, giacché, assunti al pontificato i papi riformatori, Leone IX (dic. 1048 - 19 apr. 1054) non volle riconoscere, a Trani come a Bari, se non dei semplici vescovi.

Soltanto qualche anno dopo si nota riconosciuto dalla Santa Sede il titolo di arcivescovo al pastore tranese; ed è in occasione della consacrazione della chiesa di Monte Cassino (1.° ottobre 1071) che Alessandro II volle rendere solennissima convocandovi tutti i vescovi «della Campania, del Principato, della Puglia e della Calabria». Orbene, Leone Ostiense, il quale enumera, dando solamente il nome della loro sede episcopale, i 10 arcivescovi e i 44 vescovi intervenuti alla splendida cerimonia [64], non nomina Andria; e l’anonimo autore — forse lo stesso Leone — d’un altro testo, più antico, di quel Cronicon, che ci fa conoscere i nomi dei titolari, non nomina nessun vescovo Riccardo [65]; giacchè i vescovi pugliesi latini menzionati in quell’elenco sono né più né meno che quelli di Giovinazzo, Ruvo, Minervino, Bisceglie e Canne, e si nota l’assenza dell’arcivescovo di Bari.

Si comprende bene, tuttavia, come il nostro popolo, nel fervore della prima crociata, nello slancio mistico dei pellegrini di S. Michele e di S. Nicola, nel divampare di quella fede che trascinava a furti d’ogni genere di reliquie, ai rapimenti delle intere salme di S. Marco e di S. Nicola da contrade remotissime, si sentisse anch’esso acceso dalla pia ambizione non solo di avere il suo santo elevato a Patrono della città, ma anche di averlo antico, e per giustificare tale antichità a far rimontare a secoli vetusti anche l’origine del proprio paese. Altrettanto facevano le popolazioni dei paesi circostanti. Con assai probabilità, invece, il nostro S. Riccardo non è altri se non quel Richardus del quale fa menzione l’Ughelli [66] sotto gli anni 1179 e 1196. In tal caso, egli sarebbe e contemporaneo e connazionale del pontefice Adriano IV (3 dic. 1154 - 1.° sett. 1159) inglese anche lui; e si noti che in quel tempo si trovano altri vescovi col nome di Riccardo in sedi episcopali dell’Italia Meridionale.

Appunto in un lavoro recentissimo [67] vien menzionato un vescovo inglese Riccardo, già consigliere e ministro di Guglielmo quale autore di importanti restauri apportati al grandioso duomo di Siracusa danneggiato dai due gravi terremoti del 1140 e del 1169. In una corrispondenza privata, l’autore d.r Agnello mi aggiunge che il Riccardo siracusano «finì alla sede vescovile di Messina, dove si conserva ancora un prezioso braccio reliquario». E deve aggiungersi un indizio assai importante, cioè che i normanni, per l’evangelizzazione della Sicilia, si servirono largamente di religiosi, chiamati dalle laure calabre e pugliesi. Questo valga implicitamente a comprovare la vecchia e sempre giusta osservazione che il nome Riccardo è normanno e che non compare in Italia anteriormente alla venuta dei suoi connazionali.

Forse la leggenda presentò S. Riccardo quale compagno di S. Ruggiero perché il primo vescovo di Andria, che non sappiamo chi fosse, fu contemporaneo del vescovo di Canne; laonde, allorché nel sec. XV il Del Balzo e il popolo andriese ritennero che il loro primo vescovo fosse stato Riccardo, lo accompagnarono agevolmente a S. Ruggiero, e pel tramite di questo, nel racconto leggendario, a S. Sabino, a Gelasio I e alla consacrazione garganica, immaginata e ritenuta vera dalle fantasie popolari per dare maggior lustro ai loro primi pastori spirituali.

Forse, il primo nucleo della leggenda era già formato avanti il Del Balzo, onde costui non l’avrebbe inventata bensì raccolta dalla fama popolare. Ciò viene reso verosimile dal fatto che nell’Anonimo cannense sono menzionati S. Sabino, Palladio e Gelasio I pur senza esservi né cenno di consacrazione garganica né ricordo di S. Riccardo. Questa leggenda delle nostre Puglie si presenta alquanto strana per causa dei suoi personaggi, che sono
a) parte storici, parte favolosi;
b) quale appartenente a un tempo, quale ad un altro (Gelasio I, del sec. V; Sabino, del sec. VI; Ruggiero dei XII principio; Riccardo, del sec. XII fine);
c) dapprima è un vescovo, anonimo, alla fine sono otto, e tutti ben determinati;
d) incomincia con un «grande uccello» e termina con quattro aquile.

Ancora un piccolo particolare comico.

L’agostiniano Padre Antonino Maria Di Iorio, il quale scrisse nel 1870 una Vita di S. Riccardo, già citata da noi, oltre a Lorenzo, Sabino, Riccardo e Ruggiero, fa santi anche Asterio, Eutichio, Giovanni e Palladio, e abbozza, e abbozza persino una biografia di ciascun d’essi. [68] Né si contenta di così poco! Arriva persino a tratteggiare il ritratto fisico del santo. — Questi — scrive lui — fu «di statura vantaggiosa membra robuste, … di temperamento nervoso, … secco ma forte … Egli conservò tutt’i sensi fino alla decrepitezza. … la vista, abbenchè i suoi occhi fossero impiccioliti e fatti rubicondi dal piangere continuo. L’udito, la soavità della voce, la forza di locomozione … ».

Dunque, nessun dubbio che se un vescovo Riccardo anticamente ci fu, dovette essere intorno al 1196, giusta un istrumento dal quale risulta che «Dominus Richardus, venerandus episcopus andriensis, mente hilari et devoto genu suscepit» le reliquie dei SS. martiri Ponziano ed Erasmo, trasferite da Civitella Sannita per opera del sacerdote Manerio e dell’Abate Giovanni, e le depose nella chiesetta andriese di S. Bartolomeo [69]. E il Riccardo del sec. VI? Lo storico, che voglia fare onore alla lunghezza delle proprie orecchie, deve supporre che nel sec. VI ce ne fosse uno perché piace a lui, e nel sec. XII un altro perché vuole il documento. Proprio così fece il can. Morgigno [70]. E così da ora innanzi il giudizio di Salomone non sarà più uno solo: ci sarà anche quello di Menico.

In prosieguo, alle ingenue e fedeli popolazioni piacque, anche per un certo che di estetico, che città sorelle, come Andria, Barletta, Canosa, avessero a loro patroni tre vescovi e contemporanei e amici e taumaturghi; se ne scambiarono anzi le reliquie e, nei tempi andati, a Barletta si costumò di portare in processione, in una con S. Ruggiero, le reliquie di S. Riccardo e di S. Sabino, quasi a commemorazione e ad imitazione del loro viaggio al Gargano [71].

Ancora. Voler dedurre l’antichità grande del Santo dalla cripta della cattedrale di Andria, senza prima dimostrare che è una vera e propria cripta, senza dimostrare in qual tempo fu formata, a quali usi venne destinata, è un altro gravissimo errore col quale si complica la questione, giacché si verrebbe a fare un santo martire di un santo che può essere stato un santo semplice, un vescovo perfetto vissuto e morto in odore di santità. E poiché ritengo utile chiarire questo punto, riferirò le sennatissime osservazioni di un bollandista già più volte citato e da citare, il P. Delehaye. Egli scrive: «É più che dubbio che la cosa (cioè una parità della Depositio martirum e della Depositio episcoporum) si sia presentata nello stesso modo agli antichi; e tutto ci dà motivo di ritenere che le due categorie di commemorazioni non eran del medesimo rito, e che i martiri godevano, a questo riguardo, di un vero e proprio privilegio. I martiri avevano il primo posto nella venerazione e nell’amore dei fedeli; erano la gloria più pura della Chiesa, gli imitatori di Cristo, i cristiani perfetti per eccellenza; e, poiché si sapevano passati senz’altro dalla terra alla contemplazione beatifica di Dio, perciò, a differenza degli altri santi, si ritenevano meritevoli di onori proporzionati alla loro prerogativa. Le particolari onoranze tributate a tutti i martiri non sembra che venissero estese se non in casi eccezionali, quando si fossero resi singolarmente illustri nelle lotte per la fede. Sulla tomba del martire s’innalzava una basilica, il popolo si riuniva per festeggiare il giorno dell’ingresso di lui nella gloria celeste. Tale riguardo speciale non si aveva per tutti i vescovi per quanto tutti di regola generale venissero iscritti nei fasti, essendo tale iscrizione negata soltanto a coloro che non erano stati riconosciuti dalla comunità, e, per venire concessa, essendo basante solo il fatto di non aver demeritato … Il tempo … cancellò inesorabilmente tutti i segni distintivi, e la confusione dell’obituario o registro dei morti, col martirologio divenne quasi inevitabile. Il caso verificatosi in buon numero di chiese pel catalogo dei primi vescovi si rinnovò riguardo ad altre indicazioni della stessa specie; e si può affermare che certe pie persone, le quali ebbero la buona sorte di aver l’anniversario segnato nel catalogo della loro Chiesa, hanno ottenuto dalla prossimità dei nomi dei martiri una canonizzazione sommaria» [72].

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Non esistendo il vescovo Riccardo del 445 - 537, si presenta spontanea la domanda: — allora, sarà forse quello del 1196 ?

Anche se fu questo, che cosa avvenne della sua salma? Prima di tutto, dove la riposero? Don Giovanni di Franco, nelle osservazioni — come esattamente sa citare il buon teologo D’Urso — sulle nostre antichità che nessuno sa dove siano andate a finire, opina che «gli andriesi diedero sepoltura con decente pompa — sapeva anche questo, il nostro informatissimo Don Giovanni! — al sacro corpo di S. Riccardo nella chiesa, qual egli in vita dedicato avea sotto il titolo dell’Assunzione di Maria ed è oggi la cattedrale» [73]. Il D’Urso invece opina che la chiesa fosse quella di S. Andrea [74]; il canonico Borsella par propendere pel Duomo [75]; Mons. Merra è anche lui della medesima opinione [76]; il P. Di Iorio pensa lo stesso; e finalmente lo storico - senza - dubbi asserisce lo stesso, ma è molto più preciso: il sepolcro — egli scrive — «non altrove se non a lato della Basilica di S. Pietro dové essere collocato; verso oriente, siccome era costume di quei tempi» [77]; e riferisce alcune parole del Del Balzo nelle quali non c’è quello che scrive lui. In appresso sarebbe avvenuta l’invasione dei longobardi, poi quella dei bizantini, poi quella dei normanni; e, mentre si afferma che nel tempo della conversione longobarda al cristianesimo «si costruì un tempio superiore», e il vescovo fu anche canonizzato, e vi fa eretto un altare simile a quello di S. Pietro in Roma, «adorno di quattro colonne e cinto da una graticola (!!!) [78] — capite quante belle cose sa Menico Morgigno? e voi non le sapete, e la storia non le sa! vergognatevi! — e gli fu concessa la Messa, e ne fu formato l’uffizio, mentre, diciamo, sarebbe stato così profondamente istituito il culto di questo santo vescovo e protettore, egli poi, nei secoli VIII, IX e X, sarebbe caduto in dimenticanza; anzi, anche nei secoli XI e XII, perché Menico sa che il culto di S. Riccardo venne ridestato dal seppellimento che Federico II avrebbe fatto fare di due delle sue mogli proprio lì «quasi a piè della tomba del Santo, per illustrare la memoria come di un conterraneo perché «pari — notate i bei fori di grammatica: sarebbe peccato lasciarli passare inosservati — a lui si appartenne alla stirpe anglo - sassone» [79].

Vennero istituite persino feste sontuose annue in onore del Patrono; ma, che è che non è, il poveretto nel 1345 [80] era bell’e dimenticato un’altra volta. Era l’invasione ungara, e non si trovò neppure la salma di Riccardo. Era stata nascosta, e il sito era a notizia soltanto di quelli che per circa un secolo si passavano la parola d’ordine. Una seconda edizione del secreto del sepolcro di Dante, dunque. E badate: questa volta la dimenticanza e del Santo e della sua sepoltura fu così grave e totale che non si seppe più l’anniversario della morte cadere il 9 giugno e se ne andarono in disuso e culto e uffizio e feste, tanto che la cella dove si trovavano le ossa era «fatta servire dai preti, inconsapevoli del prezioso deposito, a mo’ di sacrario» [81], il quale sacrario, almeno in Italia, significa il luogo dove si buttano le lavature di vasi e panni chiesastici. Non c’è male davvero!

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Qui, precisamente a questo punto, intervenne il fatto nuovo. Il lettore in parte lo conosce dalla Legenda inventionis; per tanto ce ne sbrigheremo in pochi cenni. — Era il 23 aprile 1438. — scrive li Merra, — [82] verso l’ora del mezzodì, quando gran parte degli andriesi dormivano, (io, andriese, non sapevo che gli andriesi, al mezzogiorno, dormono in cambio di desinare!) e il Del Balzo, accompagnato dal vescovo Giov. Dondei, da un tale Tasso suo famigliare, da un prete di nome Giovanni e da un servo, si chiusero nella cattedrale, innalzarono una preghiera al Signore e vennero a sapere in qual parte si trovassero le ossa di S. Riccardo. Fuori, dietro la porta della chiesa la folla gridava perché aveva intuito che in quel momento si scopriva il corpo del Protettore e voleva entrare a venerarlo. Era una divina ispirazione anche questa, ovvero non aveva potuto conciliar sonno senza aver preso cibo, ovvero era stata preavvertita dai servi del duca? Passiamo oltre.

Volendo però egli restaurare il culto del Santo, si trovò di fronte a una vivissima opposizione mossagli e da preti e da cittadini — rammentiamo i nomi del sac. Tommaso di Sant’Angelo, il notaio Francesco Caputo, e un tal Gionata De Melle — per la ragione che insieme col corpo non evasi rinvenuto nessuno scritto che ne attestasse l’autenticità e perché se ne era perduta la memoria. Non solo ricusavano di ritenerlo e di venerarlo come santo ma tacciavano d’idolatri coloro ch’erano stati lesti a fare l’una cosa e l’altra. Allora il duca mise mano ai documenti. Nell’archivio della cattedrale furono rinvenuti tre calendari, nei quali si vedeva segnato soltanto il giorno della morte, 9 giugno, e in uno solo di essi erano le parole: «il nostro santissimo e beatissimo [83] padre Riccardo, inglese, vescovo di questa città di Andria, che da beato pontefice compì cento miracoli avanti di morire, e il cui corpo fu collocato nella confessione di questa chiesa».

Cosa veniva fornita una specie di documento alla buona che il sepolcro doveva esistere nella cattedrale. Ma gli oppositori non disarmarono; e allora il duca fece in Andria nuove ricerche trovando un foglio di messale — un foglio solo! — con le tre orazioni proprie della messa; ne fece nelle città vicine, non riuscendo a scoprirvi altro se non qualche vecchio calendario indicante il solo giorno della festa del santo. Ma l’opposizione tenne duro ancora, sempre esigendo un documento scritto conservato nella tomba del santo, e allora il duca trovò la chierica del vescovo con una chartula che portava scritto: — questa è la chierica di S. Riccardo. —

Qualche nostro storico ripete il ritrovamento dei sandali, di pelle nera, e sopra di essi la chierica e il cuore del Patrono. Alludiamo al Merra [84]; il quale, in altra parte del suo libro, precisa meglio le cose [85] e riferisce che il prete compagno del duca nella scoperta delle sacre ossa, che esso Merra prima ha chiamato Giovanni e ora chiama Giovanni De Leone rinvenne nella tomba una scatolina, e in essa mescolato ad altre reliquie, il pellicranio, o pelle chiericale, ravvolta in una carta impressa di caratteri longobardi che dicevano ecc. ecc.

Il fatto è che l’opposizione non ne volle sapere, sfortunatamente per lei, perché, se in quegli anni si fosse trovato a vivere Menico nostro, avrebbe ascoltato da lui qual era la prova storica che quelle erano precisamente le ossa del santo Protettore andriese. La volete sapere quella prova storica? Eccovi le parole sue: [86] «Era mestieri però di autenticare la verità di quelle ossa: ebbene, ci pensò il cielo stesso. Le prove sono queste:
a) scoperte appena le ossa del beato Riccardo, si effuse da quelle per il Duomo un odore soavissimo, il quale odore fu così vivo da meravigliare tutti per lo stupore;
b) la loro stessa incolumità ed incorruzione, dopo esser giaciute per lungo tempo nell’umidità della cella;
c) quantunque secreta la invenzione, un fremito misterioso scosse in quell’ora gli animi dei cittadini e li spinse verso la chiesa, le cui porte erano ancor ben chiuse».

Ora, francamente, per quanto il profumo delle ossa risalga all’Ughelli che ad ogni modo era un agiografo del Seicento e non aveva davanti a sé tanta luce di storia e di critica quanta ne ha uno del Novecento, bisogna proprio dire che il sacerdote che confonde così bestialmente la storia e la fede, se mostra di non capire che cosa sia la storia, mostra anche di non sapere che cosa sia la fede.

Gli oppositori del gesto del duca Francesco ebbero bisogno di ben tredici anni per incominciare a placarsi. Allora, l’accorto scopritore vide il momento propizio per fare altri passi; e, reso incerto anche lui da quella lotta, ricorse a papa Eugenio IV (3 mar. 1431 - 23 febbr. 1447) il quale, su la fede de’ calendari, concesse alcune indulgenze e affidò l’esame della cosa al cardinal di Taranto, il quale permise il culto. Nel 1518 poi venne composto, approvato da Roma e stampato [87] l’uffizio del Santo, le cui lezioni furono prese non già dalla tradizione antica che abbiamo veduto non esistere, bensì dalla stessa Vita del Duca, ed è una delle solite asinità far valere l’uffizio come documento storico per la ragione pura e semplice che l’approvazione di Roma ha valore tutto teologico e non storico, significa, cioè, soltanto che non vi è nulla contro la fede. Queste sono le parole di uno che sa da una parte che cosa è la storia, dall’altra parte che cosa è la fede, l’arcivescovo Nicola Monterisi [88].

Indi Francesco II pose mano a comporre la vita di S. Riccardo. Era possibile, con una mancanza così assoluta di documenti, scrivere una storia, a dieci secoli di distanza? Egli però volle narrarla forse non per mera esercitazione retorica, come avevano praticato gli agiografi del medio - evo, ma piuttosto per fornire una lettura morale e religiosa intorno al nostro Santo, ricavandola, in parte, dalle leggende che allora correvano in bocca al popolo, e in parte, in una parte assai maggiore, da quanto l’Anonimo Cannense aveva raccontato intorno a S. Ruggiero, dalla vita di S. Lorenzo, donde son presi l’accenno all’imperatore Zenone e alle condizioni dell’Italia; forse anche dalla vita di S. Sabino, e in grande abbondanza dalla Vita di S. Cataldo.

Il lettore saprà che questo santo vien ritenuto anche lui inglese, anche lui vescovo in Puglia, anche lui vivente in tempo non lontano da quello leggendario di Riccardo, ed era naturale che il Duca dalla vita di lui desumesse molti particolari: lo stato della città, prima cristiana e poi ridivenuta pagana; la visione al Santo perché vada a restaurare la fede già predicata da S. Pietro; il viaggio pel mare illirico, il cieco davanti alla porta della città, l’interrogatorio, la guarigione, l’affluire del popolo, l’eloquenza delle prediche, l’elogio delle fatiche episcopali, la vita penitente, la restaurazione della gerarchia ecclesiastica, l’esortazione alla fede rivolta al clero prima di morire e simili [89]. Atteggiò in maniera differente da come lo trovava nella tradizione di S. Ruggiero il miracolo dell’aquila ed ebbe per primo la geniale idea di unire S. Ruggiero a S. Riccardo e tutt’ e due a S. Sabino, e di conseguenza, a presentare i primi due come intervenuti alla consacrazione garganica. Ma la narrazione riuscì tanto piena di anacronismi e d’inverosimiglianze che i Padri Bollandisti si astennero dal ristamparla. Pur tuttavia convien riconoscere che, data la sua autorità di duca, di uomo pio, di letterato, date le condizioni del tempo suo e l’approvazione pontificia del culto, le sue iniziative attecchirono e che i suoi racconti ebbero credito. Anzi egli, preso baldanzosamente l’aire, non si fermò a S. Riccardo; la legenda dell’Uffizio benedettino di S. Ruggiero, per confessione dello stesso Ughelli, fu anch’essa redatta da lui; [90] e noi di Andria sappiamo l’azione sua principalissima nello scoprimento della Madonna dei Miracoli [91].

In quanto, finalmente, alla storia dei miracoli di S. Riccardo che egli redasse, sarà opportuno rilevarvi il tono acrimonioso da lui assunto contro gli oppositori, e più opportuno ancora illustrare tal disposizione di animo con alcune osservazioni fatte in proposito del Delehaye, che conosce assai bene i suoi polli. «L’agiografo del medio evo — egli scrive — conosce due sorta di libri: gli uni, che si è tenuti a credere, e sono quelli della S. Scrittura in tutte le sue parti; gli altri, quelli ai quali si può prestar fede. É perfettamente sicuro in coscienza che i suoi scritti appartengono a quest’ultima categoria, e il pubblico n’è persuasissimo. Gli uni sostengono per lui la verità assoluta, gli altri qualche volta errano; e questa persuasione non lo lascia tranquillo riguardo alla verità storica. Da ciò quell’indignazione autoritaria, si frequente fra gli agiografi, contro coloro che non credono ai loro racconti; indignazione, che tradisce una coscienza non troppo sicura» [92]. Sempre meglio, dunque, ci si rivela nel Del Balzo la perfetta figura dell’agiografo di tipo medievale.

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Conclusione - Per non uscire, dunque, fuori del seminato nelle indagini relative alla leggenda e alla realtà di S. Riccardo, bisogna tenere ben distinto il campo della storia da quello della fede: nell’uno, allo studioso spassionato e colto, le conclusioni s’impongono con tanta evidenza da rendere impossibile il loro disconoscimento; nel campo della fede, la credenza assoluta e profonda nel santo non può rimanere scossa dallo spostamento dell’epoca e dall’annullamento di particolari, passabili soltanto nelle prediche volgari ed ignoranti che si ammanniscono all’umile volgo e che anche presso il volgo lasciano il tempo che trovano senza educare, senza istruire, senza edificare.

Sopra tutto, non bisogna lasciarsi vincere dalla preoccupazione che San Riccardo, non risultando dalle indagini critiche quale avevalo presentato la leggenda, venga ad essere menomato e a meritar di scadere nella venerazione dei suoi fedeli. Non sarà Lui il solo a trovarsi in simili condizioni e a rimanere incrollabile nel culto degli andriesi. «La letteratura agiografica — ripeterò col dotto e candido P. Delehaye — [93] si riferisce … a una quantità molto varia d’individui, che non hanno gli stessi diritti alla pubblica venerazione. Vi sono, prima di tutti, quelli di cui il culto fu stabilito legittimamente nella chiesa e ricevette la sanzione dei secoli. S. Lorenzo nella Chiesa di Roma, S. Cipriano in quella di Africa, S. Martino in quella di Gallia, appartengono senza contestazione a questa classe, e di ciascuno di loro possediamo gli atti. Dopo di essi vengono i personaggi reali, il culto dei quali, quantunque possa essere stato consacrato dall’uso, fu in origine stabilito irregolarmente. Si è detto altrove che la parola sanctus non ha avuto sempre il significato ben determinato che ha oggidì, e ciò ha conferito a più di un vescovo semplicemente ortodosso gli onori di una tardiva canonizzazione. É noto che le pie persone ricordate per le loro virtù nei dialoghi di S. Gregorio Magno hanno trovato posto fra i Santi della chiesa latina, come pure solitari, dei quali Teodoreto scrisse la biografia, mentre erano ancora viventi, furono compresi nei fasti della Chiesa greca per il capriccio degli agiografi. È accaduto altresì che uomini rispettabili, ai quali i contemporanei non avevano punto decretata l’aureola di santità, furono posti tra i martiri o i beati in circostanze singolari, come Cassiodoro che, senza sapersene il perché, diventò un martire dei primi secoli. E quante volte la scoperta di una sepoltura o di più cadaveri, dei quali era tutt’altro che certa l’identità, non dette luogo allo stabilirsi di un culto locale, che ebbe spesso molta fortuna? La maggior parte di questi santi non autentici trovò anche degli agiografi per celebrarli ed accreditarli».

NOTE    (Nell’originale la numerazione è di pagina, non di argomento)

[41] F. TRINCHERA, Syllabus graecarum membranarum quae partim in maiori tabutario et primaria bibliotheca, partim in casinensi coenobio ac cavensi et episcopali Tabulario neritino iamdiu delitescentes et a doctis frustra expeditae, Neapoli, Cataneo, 1865.

[42] Arcangelo PROLOGO, Le carte che si conservano nell’Archivio del Capitolo metropolitano della città di Trani, Barletta, 1977.

[43] GUILELMUS APULIENSIS, Gesta Roberti Wiscardi, in Monumenta Germaniae Historica, IX, 239, L. II, 20 - 32; ALESS. DI ATEO, Annali critico diplomatici del Regno di Napoli della mezzana età, Napoli, 1795 - 1819, vol. VII, 267.

[44] LUPUS PROTOSPADA, in Monumenta Germaniae Historica, V. 51, scrive sotto la data di quell’anno: «intraverunt primo Normanni in Tranum»; ved. anche G. BELTRANI, Documenti longobardi e greci per la storia dell’Italia Meridionale nel medio evo, Roma, 1877, num. 18 e 19.

[45] LUPUS PROTOSPATARIUS, loco Cit., e GUILELMUS APUL., III. 380 e sgg.

[46] Ved. Sabino LOFFREDO, Storia della Città di Barletta, Vol. I, cap. V, p. 136.

[47] Giulio GAY, L’Italia Meridionale e l’Impero bizantino. ecc., p. 528.

[48] Ved. il documento di quell’anno in Arcangelo PROLOGO, I primi tempi della città di Trani e l’origine probabile del nome della stessa, ecc, p. 17.

[49] S. LOFFREDO, Storia della Città di Barletta, Vol. I, cap. V, p. 134, 140, 148.

[50] La pergamena è del 1104, e non va esente da gravi obiezioni sulla sua autenticità. Fu pubblicata tutta mutila dal DURSO, guastamestieri emerito, che vi crede a occhi chiusi, nella sua Storia della Città di Andria, p. 40; e dal MERRA, bene e intera, in Monografie andriesi cit., vol. I, pp. 290. a 293.

[51] A. PROLOGO, I primi tempi della città di Trani e l’origine probabile del nome della stessa, ecc„ p. 145.

[52] G. HERGENRÖTHER, Storia universale della Chiesa, vol, I, p. 297.

[53] G. HERGENRÖTHER, Storia universale della Chiesa. vol. III., p. 437, trad. francese.

[54] GUILELMUS APULIENSIS, Gesta Roberti Wiscardi, in Monumenta Germaniae Historica, L. II, vv. 31 - 32.

[55] Al nord dell’Ofanto c’erano le diocesi di Aecae, Arpi, Herdoniae, Larino, Luceria, Salapia, Siponto.

[56] Spicilegium Casinense, vol. I., P. III, p. 361; e N. MONTERISI, Leggenda e realtà intorno a san Ruggero, Vescovo di Canne e Patrono di Barletta, p. 13. Le antiche indagini poco divergono dagli ultimi risultati della critica: ved. ARCANGELO PROLOGO, in Arch. Storico Pugliese, fasc. del dic. 1904 e sgg.

[57] Epistole di S. Gregorio Magno, in Monumenta Germaniae Historica, T. I, P. I, L. III., 45.

[58] Per es., tra il 689 e il 706 la duchessa Teoderada di Benevento ristabilisce il seggio episcopale a Canosa, abbandonato forse dal tempo di S. Gregorio Magno e innalza una chiesa a S. Sabino; nel 743 si rivede il vescovo a Lucera.

[59] Giulio GAY, L’Italia Meridionale e l’Impero bizantino. ecc. già cit., pp. 182 - 183.

[60] Vedasi: G. BELTRANI, Documenti longobardi e greci per la storia dell’Italia meridionale nel medio evo, già cit., n. 9; e GAY, L’Italia Meridionale ecc. cit., pp. 338 - 339.

[61] Ved. Codice diplomatico barese, vol. I (Pergamene del Duomo di Bari). Trani, 1896, n. 13; JAFFE, Regesta pontificum romanorum, 2. ediz. riveduta dal LOWENFELD, KALTENBRUNNER, EWALD, Leipzig, 1885, 4068; conclusioni accolte dal GAY, op. cit. p. 339.

[62] Jacques-Paul MIGNE, Patrologia latina, Tomo CXLV, col. 538.

[63] Giulio GAY, L’Italia Meridionale e l’Impero bizantino. ecc., pp. 464 - 465, 483 - 486, 511 - 516.

[64] Ved. il Cronicon Monasterii Casinensis, in Monumenta Germaniae Historica, III, 29.

[65] Ved. Ludovico Antonio MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, X, 76 e le note di Wilhelm WATTEMBACH all’ediz. del Cronicon di Leone Ostiense, in Monumenta Germaniae Historica, VII, p. 555.

[66] Jean BOLLAND, Acta Sanctorum, in Vita S. Riccardo, 9 giugno.

[67] GIUSEPPE AGNELLO, Il duomo di Siracusa ed i suoi restauri, Milano, La Rivista «Per l’Arte Sacra», s. a., p. 10.
Un altro esempio di prelato normanno consacrato dal pontefice ci viene fornito da Drogone vescovo di Taranto, il quale figura nella solenne consacrazione della chiesa di Monte Cassino fatta da papa Alessandro II il dì 1. ott. 1071: Gay, op. ,cit., p. 515.

[68] Vedere per credere a pp. 156 - 157.

[69] Edito dall’UGHELLI, Italia Sacra, e ripubblicato da Menico MORGIGNI, in Pagine sparse nella Storia Civile e Religiosa di Andria, cit., pp. 7 - 8.

[70] Menico MORGIGNI, Pagine sparse nella Storia Civile e Religiosa di Andria, cit., pp. 6 sgg.

[71] Jean BOLLAND, Acta Sanctorum, Vita S. Sabini, 9 febbr. n.

[72] Hippolyte DELEHAYE, Le leggende agiografiche, p. 349.

[73] Parole riferite dal D’Urso, Storia della Città di Andria, p. 28.

[74] Storia della Città di Andria, p. 28.

[75] Giacinto BORSELLA, Andria Sacra, cit., p. 86, n. 2.

[76] Emanuele MERRA, Monografie andriesi, cit., vol. I. p. 55.

[77] Antonino Maria DI JORIO, Vita di S. Riccardo, cit., p. 112.

[78] Vita di S. Riccardo, cit., pp. 121 - 122.

[79] Sempre quel tesoro di Vita di S. Riccardo, cit., p. 126.

[80] Questa data sbagliata è sempre di Menico: l’invasione e la guerra ungara va dal 1347 al 1352: ved. la Vila di S. Riccardo, p. 227.

[81] Il MERRA, Monografie andriesi, cit., vol. I., p, 56 racconta così. Un ecclesiastico trafugò le sacre ossa; poi morì senza comunicare il suo secreto a nessuno. Poi lo vennero a conoscere il vescovo Melillo e il duca Guglielmo Del Balzo, ma non ne fecero nulla. Poi una divina ispirazione mosse il duca Francesco II.

[82] Monografie andriesi, cit., vol. I., p, 57.

[83] Orazio MARUCCHI, illustrando il Cimitero di Priscilla dal punto di vista delle tracce rimaste in Roma di Pietro e di Paolo, nota e avverte che «il titolo di beatus … indica probabilmente o il martirio o la confessione della fede»: ved. Le Memorie dei SS. Apostoli Pietro e Paolo nella Città di Roma, già cit., p. 87. In che rapporto con questo concetto è il caso di Riccardo? E aggiungo alcune parole del P. Delehaye, che rincarano la dose. «La parola sanctus egli scrive — una volta [era] semplice titolo onorifico come sarebbe «Sua Santità» o, come si dice al presente, «Sua Eccellenza»: Le leggende agiografiche, p. 121.

[84] Il MERRA, Monografie Andriesi, cit., vol. I., p. 58, che si riferisce all’UGHELLI.

[85] Pag. 69.

[86] a pag. 129 della cit. Vita

[87] DI IORIO, Vita di S. Ricccardo, cit., p. 361.

[88] Leggenda e realtà intorno a san Ruggero, Vescovo di Canne e Patrono di Barletta, p. 54.

[89] Vedansi i PP. Bollandisti, Acta Sanctorum., 10 maggio, Vita di S. Cataldo; e anche N. Monterisi, Leggenda e realtà intorno a san Ruggero, Vescovo di Canne e Patrono di Barletta, pp. 52 – 53 e s.

[90] Italia Sacra, vol. VIII., Episcopi Cannenses.

[91] ANTONINO. M. DI IORIO, Relazione storica sull’imagine, invenzione, santuario e prodigi di M. SS. de’ Miracoli d’Andria, Napoli. Stab. Tip. del Dante, 1853.

[92] Le leggende agiografiche, p. 101.

[93] Le leggende agiografiche, p. 156 - 158.

(tratto da "San Riccardo nella leggenda, nella storia, nella poesia popolare e nella letteraria", di Riccardo Zagaria, tip. F. Rossignoli, Andria, 1929, pp. 120-144)