La Gazzetta di Puglia, 24/12/1923

Contenuto

La Gazzetta di Puglia

Lunedì, 24 dicembre 1923 – pag. 6

Un convento di Benedettine ad Andria


Il prospetto della chiesa in un disegno di N. Vaccarella edito sul giornale "La Gazzetta di Puglia" del 24.12.1923

Il convento benedittino della Trinità e di S. Riccardo sorge isolato fra strette vie della città antica e la piccola piazza del Duomo.

A questo, verso la metà del secolo scorso, fu distrutta l’austera facciata medioevale, sostituendola con una nuova scolasticamente impressiva (somiglia stranamente a quella del teatro di Barletta, opera dello stesso architetto Federico Santacroce) e nascondendo in parte il basamento dell’imponente campanile costruito tra il XII e il XIII Secolo, cosicché a dar carattere a quest’angolo della città resta soltanto l’edificio delle Benedittine, integro nella sua costruzione e ornamentazione settecentesca.

La fondazione del Convento risale più indietro, alla metà del secolo XVI, ed è legata alla decadenza e all’abolizione di due antichi ospizi. Le claustrali occuparono le case ed ebbero una parte delle rendile già destinate ai poveri ed agli infermi. Autori di questa, diciamo così inversione furono i discendenti stessi dei fondatori di quelle istituzioni, gli amministratori della Università, il Vescovo. Se la cosa ci sembra ora strana coi nostri criteri, con quelli allora vigenti era giustificata.

Andria, aveva allora, pei molteplici servizi di beneficenza, e specialmente per l’assistenza, degli esposti, degli Infermi e dei pellegrini, quattro ospizi: S. Maria della Misericordia, S. Bartolomeo, S. Riccardo, la SS. Trinità. La loro origine, non determinabile con precisione per mancanza di documenti, era molto antica: l’amministrazione era devoluta per l’ospedale della Misericordia ad una Confraternita, e per gli altri tre, sotto la sorveglianza della Università, ai discendenti di cinque famiglie patrizie — De Gammarota, De Madio, Quarti, Fanelli e Superbo — che avevano fondato quei luoghi pii.

Alla metà del Cinquecento questi Ospizi erano in grande decadenza: il primo per insufficienza delle rendite e gli altri tre per cattiva amministrazione. Si era giunto al punto che i governatori convertivano in proprio uso i frutti del beni destinati dai loro antenati alla beneficenza!

L’accusa, ripetuta nella Bolla di Pio IV del 7 maggio 1563. non fu contradetta, che ci risulti, dai governatori. Deve anzi argomentarsi un’implicita loro confessione nel consenso che diedero nel parlamento universitario e negli istrumenti del 1, 8 e 10 febbraio 1563, con cui fu deciso il concentramento e la parziale trasformazione degli antichi ospizi.

Riuniti i patrimoni in una sola amministrazione vi furono messi a capo quattro deputati: due eletti dalla Confraternita della Misericordia e due dall’Università, coll’intervento dei rappresentanti delle cinque famiglie. Delle antiche case quella di S. Maria della Misericordia fu conservata per ospedale, e quella di San Bartolomeo per ricovero di pellegrini. Dove poi erano stati gli ospizi di S. Riccardo e della Trinità fu istituita la clausura delle Benedittine «per aumento del culto divino, per decoro ed ornamento della città, per consolazione del fedeli» e — la bolla di fondazione non dice, ma e facile sottintendere — per offrire alle famiglie signorili il modo di collocare le figliuole non destinate al matrimonio.

Per l’adattamento dell’edificio furono tolti mille ducati, una bella somma per quei tempi, al patrimonio ospedaliero e pel mantenimento delle claustrali fu imposto a quel povero patrimonio di contribuire per cento ducati all’anno. Altre somme diede l’Università, patrona del nuovo Monastero, come attestano lo stemma cittadino incastrato sulla porta maggiore e l’altro sospeso all’angolo orientale; altre si ricavarono dall’inversione di un legato che il Vescovo Angelo Florio (1477-1495) aveva lasciato all’ospedale dl S. Riccardo; altre da pie donazioni, fra le quali quella di Donna Porzia Carafa vedova del primo feudatario di Andria di questa famiglia.

Nel 1582, terminate le fabbriche, cominciò, con le «ordinazioni e constitutioni» promulgate dal Vescovo Luca Antonio Resta, e con l’entrata delle prime recluse, la vita del monastero della Trinità e di S. Riccardo. Per tre secoli e più, fino all’abolizione legale del 1866, fino a quella di fatto avvenuta nel 1914, si sono succedute, nella contemplazione, nella preghiera, nelle rinunzie e … anche nelle piccole gare e nel pettegolezzo, claustrali così ben sepolte in queste mura, che nessuna offrì mai al cronista indiscreto materia da racconto alcun poco interessante.

Le principali vicende della storia cittadina, osservate dalle gelosie delle terrazze e del belvedere o apprese attraverso le solite grate del parlatorio, non toccarono quasi mai le nostre Benedittine, tranne nell’assalto di Andria del 23 marzo 1799, quando esse protette dal legionari di Ettore Carata cercarono rifugio nel palazzo ducale, mentre il convento era saccheggiato dai soldati francesi.

*   *   *

Il portale del convento in un disegno di N. Vaccarella edito sul giornale "La Gazzetta di Puglia" del 24.12.1923

Più delle silenziose abitatrici interessa la loro dimora. Niente ora avanza dell’architettura dei due ospedali, le cui fabbriche, come quelle aggiunte nel rifacimento della fine del secolo XVI, furono in parte demolite in parte incastrate nella nuova generale riedificazione del secolo XVIII.

Questa, ideata secondo un unico ed organico disegno, fu iniziata nel 1723 dall’angolo tra oriente e settentrione, su cui poggia il belvedere; aveva raggiunto nel 1741 gli altri tre angoli; e fu completata nel 1774 con la decorazione della chiesa. La cronologia di questi periodi costruttivi è segnata sulle spezzature del basamento di ciascun angolo e sulla porta della chiesa.

L'edificio si svolge intorno al chiostro, solamente poggiato su pilastri quadrati: è chiuso all’esterno da pareti che hanno finestre soltanto nel prospetto e in parte del lato orientale; è ornato da una ben proporzionata cornice; ed è coronato da occidente ad oriente da un terrazzo a pilastrini e da un belvedere. Sale più in alto il frontone della svelta chiesa, e più in alto ancora il campanile a due piani coverto da una cuspide. Prevale come motivo di decorazione la linea curva applicata dovunque era possibile, fin nella stessa pianta e nella facciata della chiesa, ma senza gonfiezza, con sobrietà elegante.

Nella varietà delle forme (delle finestre del prospetto, per esempio, alcune sono ad arco ribassato, altre mistilinee, altre ovali, altre ad anfora) si serba una intonazione unica che raggiunge l’armonia d’insieme.

Caratteristico è il belvedere, sebbene la sua decorazione sia meno delicata per la difficoltà che opponeva agli artefici il tufo, nel quale sono ricavati capitelli, cornici, volute e fino i trafori dei parapetti.

Il belvedere in un disegno di N. Vaccarella edito sul giornale "La Gazzetta di Puglia" del 24.12.1923

Chi fu l’architetto? Secondo Giacinto Borsella, che scrisse verso il 1850 la sua «Andria Sacra» (pubblicata recentemente da Raffaele Sgarra) la intera riedificazione del monastero e della chiesa delle Benedittine fu diretta dall’andriese Saverio Raimondo, un ingegnere non noto per altre opere. Ma questi era nato nel 1729, sei anni dopo da che si era iniziata la costruzione, e aveva appena dodici anni nel 1741 quando l’intero basamento dell’edificio era stato completato. Avrà forse dato l’opera sua alla chiesa, che almeno nella parte decorativa fu terminata per ultimo; ma è curioso che non curasse di segnare il suo nome, mentre poi l’artefice degli stucchi Domenico Cocatride da Monopoli scrisse il suo nel punto più in vista della parete interna del prospetto! Un simile onore insolito può far argomentare nel Cocatride non il semplice esecutore ma addirittura l’autore del disegno della decorazione in stucco, che sale dalle pareti alla volta coll’abbondanza e le fioriture dello stile settecentesco.

Ad essa s’intonano le perle graziosamente dipinte su fondo dorato, le gelosie dei coretti, l’altare maggiore, nel quale lo stemma del De Anellis ricorda la donazione che il Vescovo Domenico fece al monastero, i panneggi marmorei del due altari laterali, i quadri. La maggior parte di questi, rappresentanti fatti della vita di S. Benedetto e del suoi discepoli, furono opera del pittore molfettese Vito Calò [*1744-+1817], che segnò il suo nome, coll’anno 1774 [1], nello scompartimento centrale della volta. Di altra mano sono la «Deposizione dalla Croce» dell’altare a sinistra, la «Trinità adorata da S. Riccardo e S. Nicola» sull’altare maggiore, e l’altra immagine della Trinità nel primo scompartimento della volta. Gli uni e gli altri lavori mediocri ma che pure attirano per una certa ingenuità di espressione. Ad un andriese, Nunzio Morano, si deve l’elegante pulpito in legno (1793); e ad un altro andriese, Nicolantonio Brudaglio, capostipite dl una famiglia di modesti scultori, l’ornamento in pietra della porta maggiore del monastero, alla quale sovrasta in una nicchia la statua di S. Benedetto.

*   *   *

Questo buon esemplare dell’architettura claustrale settecentesca meritava che si conservasse integralmente anche dopo l’abolizione del monasteri di clausura. Occorreva evitare che fosse destinato ad uffici che, richiedessero radicali trasformazioni dell’edificio e importassero una soverchia frequenza di persone rumorose ed ineducate. Con giusto criterio, dunque, il Comune di Andria, dopo che ebbe nel 1914 riottenuto il possesso dell’abolito convento scartando altre inconsulte proposte, lo destinò ad una delle più sante opere di assistenza sociale: ad asilo d’infanzia.

Istituita, con felice improvvisazione di privati cittadini all’inizio della guerra per accogliere i figli dei combattenti, l’opera, con non meno felice ponderazione, è sopravvissuta, dopo la vittoria, ottenendo l’elevazione ad ente morale ed estendendo l’assistenza, oltreché agli orfani di guerra, ad ogni sorta di fanciulli indigenti. All’asilo si sono aggiunte recentemente alcune scuole. L’opportuna destinazione non sarà mai mutata, con vantaggio di quanto l’edificio contiene di particolarmente interessante per la tradizione artistica locale e con vantaggio soprattutto della pubblica beneficenza alla quale i nostri concittadini del Medioevo avevano voluto destinare questo luogo.

GIUSEPPE CECI (1863-1938)

NOTE   (note del redattore di questa pagina, non presenti quindi nel testo originale!)
[1] Angelo Pantaleo, ispettore della Sopraintendenza ai Monumenti, dopo che il 6 dicembre 1909 ebbe visitato il Monastero, redige un dettagliato e rigoroso rapporto su quella visita con data 22 dicembre 1909, nel quale, a proposito dei dipinti della volta scrive:
"Sull’asse della volta vi sono numero quattro pitture riguardanti la vita di S.° Benedetto. Quella centrale porta l’iscrizione: Calò 1822 pittore Molfettese ch’ebbe grido di buon artefice ed infatti i dipinti hanno eccellenti qualità pittoriche, di disegno e di composizione, e mostrano tutte le qualità ed i caratteri di quella schiera di pittori pugliesi, che con il Nicola Porta, il Giaquinto ecc, si accostarono alla pittura spagnola, divenuta italiana in Napoli, a cagione di quelle tinte a contrasto, di forti chiari, e di forti scuri, ossia luce ed ombre tangenti, che conferiscono ai dipinti energia e mistero che tanto predilessero il Ribera, il Fracanzano, il Caravaggio, Paolo de Matteis, Mattia Prete ed il Finoglia."
È evidente che la data vista e trascritta dall'ispettore Pantaleo è in netto contrasto con quella riferita da Giuseppe Ceci in questo giornale: "opera del pittore molfettese Vito Calò, che segnò il suo nome, coll’anno 1774", nonché ribadita nel suo opuscolo "Un Monastero di Benedettine in Andria" del 1935 "un pittore pugliese che segnò il suo nome a piedi della tela centrale della volta: Vitus Calò inv. ct pinr. 1774"

Il sottoscritto, pur ritenendo la data scritta dal Ceci più coerente con gli altri eventi occorsi in quel tempo alla Chiesa, ne resta comunque dubbioso sulla sua precisione. in quanto leggermente disallineata con quella dell'epigrafe incisa sulla porta, che (di norma) indica quando la costruzione della Chiesa fu terminata (e non quando fu successivamente rifinita negli arredi); nonché anche con l'epigrafe posta sopra la (stessa) porta sulla controfacciata "Io Domenico Catedra della / Città Monopolite˜ / A.D. 1775", in quanto quest'ultima dimostra che nel 1774 non erano stati ancora eseguiti gli stucchi (contrattati con lo stuccatore napoletano Domenico Catedra con atto del 15/03/1774) nei quali successivamente sarebbero state realizzate, nelle forme polilobate ivi disegnate, le tele.
Comunque anche la data affermata dall'ispettore Pantaleo viene posta in dubbio dalla epigrafe, affissa su un'acquasantiera dell'ingresso, che commemorava la consacrazione della Chiesa, nella quale era scritto "Templum hoc ... Ad hoc fastigium erectum ... testudine picturis exornata ... IV nonas iunias MDCCLXXVI", cioè "Questo tempio ... così magnificamente eretto ... ornato nella volta con dipinti ... 2 giugno 1776"; questa indicazione, per contro, potrebbe riferirsi alle due tele della Trinità poste nel presbiterio, sul dossale e calotta superiore, provenienti dalla precedente chiesa demolita ed ivi immediatamente adattate.