Capitolo X

Contenuto

da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi" - Vol. I

di Michele Agresti (1852-1916)

Capo X

(anni 1560-1605)

Sommario:
— La Duchea di Andria sotto la reggenza della vedova Duchessa D. Adriana Carafa: ricorso della Università al Vicerè di Napoli contro il Vescovo Gian Francesco Fieschi, perchè non provvedeva ai restauri del Duomo; Rinunzia al Vescovado di Mons. Gian Francesco Fieschi, cui succede il nipote D. Luca Fieschi;
— istituzione delle monache benedettine e costruzione del monistero e della Chiesa omonima;
— Fabrizio II ha il dominio della duchea di Andria, sotto la regenza dello zio Vincenzo Carafa: Vincenzo Carafa e la battaglia di Lepanto contro i Turchi;
— Vincenzo Carafa e la introduzione dei Cappuccini in Andria: Fabrizio II Carafa sposa Maria Carafa e ne assume il governo della Duchea, indipendentemente dallo zio;
— invenzione dell'immagine della Madonna dei Miracoli, ed introduzione dei Benedettini Cassinesi in Andria;
— Mons. Luca Fieschi vien trasferito alla sede vescovile di Albenga: succede nella sede di Andria Mors. Luca Antonio Resta;
— nuove lotte fra il Capitolo della Cattedrale e quello di S. Nicola;
— lotte fra il Capitolo della Cattedrale e l'Università di Andria: il Duca Antonio Carafa e l'Università contro il Vescovo Franco ed il Clero;
— il Vescovo Bassi e la invenzione della Madonna d'Altomare;
— Mons. Franco e la carestia nel Regno di Napoli;
— preti della Cattedrale in questo tempo: Filippo II Re di Napoli;
— istituzione di due fiere per l'invenzione della Madonna dei Miracoli e consecrazione della omonima Chiesa.


Con la morte di Antonio Carafa, la Duchea di Andria restò nelle mani della Duchessa vedova D. Adriana Carafa, la quale, dopo pochi mesi dalla morte di suo marito, dié alla luce un figlio, cui fu dato il nome di Fabrizio II, tolto dall’avo. Era ancora Vescovo di Andria Mons. Gianfrancesco Fieschi.
In questo tempo la Chiesa Cattedrale minacciava rovina. Le sue soffitte erano cadenti mancavano di embrici, tanto che, quando pioveva, non poteasi celebrare messa, ed i fedeli non più intervenivano in Chiesa. Né il Capitolo, né il Vescovo si davano alcun pensiero di mettervi riparo; l’uno pretendendo che le riparazioni dovevano farsi dall’altro. Oltre a ciò, la Chiesa era sprovvista completamente di sacri arredi, e nessuno pensava a provvedervi. Il Vescovo, Mons. Giovan Francesco Fieschi, abitualmente domiciliava, nella città di Genova, dove aveva la famiglia. Il Capitolo, vedendo la non curanza del Vescovo, si appellava alla vecchia convenzione nella quale era stato stabilito, che, tutte le spese occorrenti per i restauri della Chiesa dovevano andar sostenute metà dal Vescovo e metà dal Capitolo [1].
Intanto l’Università, dietro i tanti reclami dei cittadini, visto che né il Capitolo e né il Vescovo si davano pensiero di restaurare la Chiesa, fece ricorso al Vicerè di Napoli, in allora il Duca d’Alcalà, con un memoriale, di cui conservasi copia nell’Archivio Capitolare. Il Vicerè, con ordinanza del 4 novembre 1561, dié incarico al Cappellano Maggiore d’informarsi e riferire cum voto, sull’esposto dell’Università.
Il Cappellano Maggiore si rivolse, per le informazioni, al Governatore della città, il quale riferì, che detta Chiesa minacciava rovina:
per essere stata aperta, lassata et ruinata per sua antiquità, così ancora lo copertizzo (la copertura) della Chiesa et tetto, atteso piove tutto. E per la informatione di fabricatori et altri maestri esperti, quali sono stati super loco, costa si non si provede presto a tale riparatione la Chiesa predetta andarà in colasso (in rovina) … Costa ancora in la Sacristia non essernoci paramenti atti al servitio del culto divino … Si mostra ancora per il dedutto il Rev.mo Giov. Franc. Fiesco Vescovo di detta città essere stato da anni et anni et più et de continuo haver fatta sua habitatione et domicilio in la città di Genova, né mai haverci fatta reparatione alcuna in detta Chiesa di fabrica né dispeso in ornamenti et paramenti per il culto, et ogni anno haversi perceputo dall’intrade di essa Chiesa docati ottocento et mille di continuo da suoi procuratori li sono stati remessi in la città di Genova,[2].
Dietro tali informazioni, il Regio Commissario ordinario, Uditore D. Giovanni Andrea De Curtis, in data 9 marzo 1565, udito il voto del Cappellano Maggiore Antonius Epus Castelliannis, ordinava, che, dalli frutti et entrade di quella Chiesa, pro nunc, il Vescovo avesse rilasciato quattrocento ducati, da consegnarsi a due persone idonee, scelte dalla Università, per impiegarli nelle riparazioni della Chiesa [3].
Corrucciato di ciò il Vescovo Gian Francesco Fieschi, in quel medesimo anno, rinunziò al Vescovado [4], carico di anni, dopo aver tenuta questa sede episcopale per 47 anni! … A lui successe un suo nipote, D, Luca Fieschi, a dì 33 gennaio del 1556. Così la Sede Vescovile di Andria ebbe tre Vescovi successivi della famiglia Fieschi di Genova. Luca Fieschi occupò la Sede di Andria per 16 anni, essendo stato poi trasferito, nel 1582, alla Sede di Albenga in Liguria.
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)
[1] Questa convenzione fu poi redatta in pubblico istrumento per notar Morselli il dì 29 Luglio 1599. L’originale, in pergamena, esisteva nel nostro Archivio prima dell’incendio del 1799. Ne fa fede un altro istrumento, erogato dal notar Sebastiano Cristiano a dì 12 marzo 1763, nel quale è detto pure che quella convenzione fu ratizzata dalla S. Sede (Archivio Capitolare: Libro delle cause 1763, pag, 177, lettera B.).
[2] Copia di questa relazione conservasi nell’Archivio Capitolare.
[3] Dal libro delle persecuzioni dei ducali contro il Vescovo Franco: pag. 889-890, Archivio Capitolare.

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Sotto il Vescovado di Monsignor Giov. Francesco Fieschi fu istituito qui in Andria il Convento delle Monache Benedettine, surto colla soppressione di due ospedali (dei quattro fondati dalle cinque famiglie patrizie andriesi, Marulli, Quarti, Fanelli - Madia, Superbo e Gammarrota), cioè l’ospedale della SS. Trinità e quello di S. Riccardo, restando in vita l’ospedale di S. Bartolomeo e quello di Santa Maria della Misericordia, invertendo le rendite dei due ospedali soppressi alla fondazione di detta casa di clausura per le Benedettine.
Il Vescovo Florio vi aggiunse poi altri ducati mille, già destinati al risarcimento dell’Ospedale di S. Riccardo [5]. Vi contribuì pure la Università di Andria [6]; e vi contribuirono ancora non pochi cittadini, i quali, con piacere, vedevano fondarsi un Monistero, che avesse potuto accogliere quelle donzelle, specialmente del ceto nobile, che avessero votata la lor vita allo stato religioso [7].
Con Bolla del dì 7 maggio 1563 il Papa Pio IV dava poi l’approvazione a questa nuova istituzione, che veniva a surrogare gli antichi Monasteri delle Benedettine in S. Maria delle Grazie e delle Chiariste, distrutte dalla peste del 1528. Questo nuovo Monistero fu intitolato anche alla SS. Trinità, in memoria dell’ospedale soppresso, che andava sotto tal titolo. Fu compilato quindi uno statuto, coll’intervento del Vescovo Mons. Fieschi, del Sindaco della città e di molti distinti personaggi, nel quale, fra l’altro, fu consecrato, che ogni persona, appartenente al ceto dei nobili e dei civili, nun fosse ammessa senza la dote dei ducati seicento, se forestiera, di ducati quattrocento, se cittadina, fino a che il Monistero non avesse assicurata una rendita certa e sufficiente in beni stabili [8]. Assicurata tale rendita, la dote sarebbe stata determinata, poi, in ducati quattrocento, per le forestiere, e, per le cittadine, in una sola offerta, al loro ingresso, a titolo di diritto del calpestio. Questo Monistero, però, non vide raccolte fra le sue mura le prime monache, se non nel 1582, epoca in cui ebbe termine la costruzione del Convento e della Chiesa, che è una delle migliori di Andria, per la bellezza dello stile e per la ricchezza dei marmi, che adornano i tre altari.
NOTE   
[5] A ricordare la generosa offerta del Vescovo Florio, dopo costruito quel monistero, fu fatto imprimere sulla facciata di esso, dal lato del campanile il suo stemma con le parole: Angeles Florio Episcopus Andriae.
[6] A ricordare anche la contribuzione della Università, fu fatto pure incidere lo stemma del comune di Andria col motto: Andria non minus fidelis quam benigna.
[7] Con pubblico istrumento di Notar Nicolangelo Facinio del dì 8 Febbraio 1563 gli eredi delle cinque famiglie Patrizie Marulli, Quarti, Fanelli-Madia, Superbo e Gammarrota si obbligavano corrispondere al detto Monastero la somma annua di ducati cento dalle rendite assegnate all’ospedale di S. Maria della Misericordia.
[8] ln prosieguo di tempo varii acquisti di terreni furono fatti dal Monastero delle Benedettine. Nel 1695 comperò dal Sig, Giliberto carri 2 di terreni in contrada Palese, pel prezzo di ducati 900, in confine di altri due carri, che detto Monastero aveva acquistato nel 1692 dal chierico Giuseppe Tedesco di Bisceglie, per soli ducati 240. Nel 1694 la Confraternita della Concezione, installata in S. Maria Vetere, cedette al Monastero delle Benedettine altre versure 12 sul medesimo territorio, per ducati 205.25. Sul medesimo territorio, nel 1688, detto Monistero aveva acquistato altre versure 11 da Ascanio Paglia. Nel 1694 il Capitolo Cattedrale, con istrumento del Notar Girolamo di Micco, cedette a beneficio di detto Monastero versure 17, sul medesimo territorio di Palese, per ducati 279.80, La mattina di Ciminiera territorio messo nelle vicinanze di Acquatella e Savignano, dell’estensione di carri 24 e versure 15, fu acquistata in solidum dal Capitolo Cattedrale e dal Monistero delle Benedettine, pagando ciascuno ducati 2500 al Duca Fabrizio Carafa, come risulta dall’istrumento del Notar Menduti, del 5 Maggio 1704. Oggi la tenuta Palese si appartiene ai Signori Marchio di Andria, e le poche superstiti Benedettine vivono nella più squallida miseria, essendo stato quel Monistero soppresso, ed i beni incamerati dal Governo, per le leggi eversive dell’asse ecclesiastico, emanato nel 1866, corrispondendo il Governo a quelle poche monache superstiti, una meschina pensione, che cessa col venire a mancare ciascuna di esse! Il Monistero e la Chiesa, in forza delle medesime leggi eversive, si appartengono al Municipio di Andria, il quale tollera, che quelle poche vecchie monache superstiti (ve ne sono al presente tre sole appena) restino in quel vasto locale, finché Dio non le chiami al cielo, per convertire, poi, quel sacro luogo in pubblici ufficii, od in carcere penale!

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In questo frattempo era Duca di Andria Fabrizio II Carafa, sotto la tutela dello zio, Vincenzo Carafa, quel prode Cavaliere, che tanta parte fu nella famosa battaglia contro i Turchi, nelle acque di Lepanto.
Non sarà certamente discaro ai nostri lettori, se qui facciamo un’altra digressione, fermandoci un tantino a considerare, la parte, che questo nostro Duca Vincenzo Carafa (secondo genito di Fabrizio I) ebbe in quella famosa battaglia contro i Turchi, i quali, profittando delle discordie dei Principi d’Italia, facevano di quando in quando, delle scorrerie, assaltando la nostra Penisola.
Nel 1566, dopo aver tolta ai Genovesi l’Isola di Scio, con numerosa armata, i Turchi penetrarono nell’Adriatico, mettendo a sacco e fuoco molte città d’Italia. Il Duca D’Alcalà, allora Vicerè di Napoli, rafforzò i presidii delle principali città del Reame, per difendersi dai Turchi. Ma venuto al governo della Chiesa Universale il Santo Ponfice Pio V (1566-1572), suo primo pensiero fu quello di formare una santa lega tra i Veneziani ed i Principi Italiani, a danno dei Turchi, i quali già, nel 1570, avevano soggiogata la bellissima isola di Cipro, e, qualche anno prima, la città di Malta.
Allestita quindi un’armata di dugento galee, trenta delle quali del Vicereame di Napoli, ne affidò il supremo comando a D. Giovanni D’Austria, fratello naturale del Re Filippo II di Spagna, col quale, a dì 20 maggio 1571, strinse una lega. Da ogni parte d’Italia accorrevano persone d’ogni ceto, non esclusi personaggi d’alto rango, per arruolarsi a quella santa lega. Fra questi, Vincenzo Carata (secondo genito del nostro Duca Fabrizio I) che già unito ad altri Principi, ed a quattro nostri concittadini (Giammarco Quarti, Cesare Marulli, Federico Leopardi e Marino Filangieri, tutti quattro Cavalieri di Malta, ed appartenenti alle principali famiglie di Andria), dopo aver fatto accolta, a proprie spese, di gran gente armata, era venuto a giornata contro i Turchi, discacciandoli dall’Isola di Malta. Il valore del nostro Vincenzo Carafa si distinse allora tanto, che venne quindi decorato della Gran Croce di Malta, indi nominato Priore d’Ungheria; e, di lì a poco Capitano Generale delle Galee dell’Ordine di Malta [9].
Con questi precedenti, il nostro Vincenzo Carafa volenteroso si uni alla santa lega, promossa da Pio V. Accorrendo a Messina, dove, unitosi agli altri Crociati, mosse pel Levante. Presso le coste di Epiro i Crociati s’incontrarono con l’armata Ottomana, forte di dugento quarantasette navi da guerra. A dì 7 Ottobre del 1571, giorno di Domenica [10], l’armata Ottomana usciva dal Golfo di Lepanto e, presso le isole Curzolari (dagli antichi dette Echinadi) s’incaggiò battaglia. Grande fu il volore e l’entusiasmo delle armi cristiane, tra le cui fila combatteva il nostro valoroso Vincenzo Carafa, in unione all’Ammiraglio Doria ed a Marco Colonna. Terribile fu lo scontro fra turchi e cristiani. Ma la vittoria arrise ai secondi, benché inferiori assai di numero. I Turchi ne andarono sgominati, al veder su di una pica delle navi cristiane il capo del loro generale Ali. Sul cadere del sole di quella memoranda giornata, già venticinque navi Ottomane affondavano e prendevano fuoco, mentre altre centonovanta cadevano nelle mani dei cristiani vincitori. Dei Turchi ne perirono 15 mila; dei cristiani appena 5 mila, fra i quali Agostino Barbarigo, Veneziano eminente. Tornato in Napoli il nostro valoroso Priore Vincenzo Caraffa, fu dal Re Filippo decorato dell’altra onoreficenza di Consigliere di Stato di Maestro Generale di Campo delle truppe italiane [11].
NOTE   
[9] Gli altri quattro cavalieri andriesi (Quarti, Marulli, Leopardi e Filancieri), oltre alla croce di Malta, ebbero dal Re Filippo II alcuni poderi nei tenimenti di Andria. Di quei poderi, uno solo resta ancora nel dominio della stessa famiglia, ed è la masseria del Duca di Belgioioso (ossia Quarti). Ancor oggi quel territorio va sotto il nome del Cav. Quarti.
[10] In memoria di quella vittoria, dovuta alla intercessione della Vergine, invocata con la recita del Rosario, fu istituita la festività della Madonna, sotto il titolo del Rosario, nella prima Domenica di ottobre di ciascun anno.
[11] D’Urso, Storia della Città di Andria, pag. 135.

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Vincenzo Carafa fu grande benefattore della nostra città, nella reggenza che tenne della Duchea, per parte del minorenne nipote Fabrizio II.
A Vincenzo Carafa devesi l’introduzione in Andria dei Francescani Cappuccini, e la costruzione del loro Convento e Chiesa relativa, sulla di cui porta si scorge lo stemma di casa Carafa, e si leggeva la seguente iscrizione: Vincentius Carafa Magnus Hungaræ Prior: Anno Domini 1573 [12].
Tornato in Andria, il valoroso Vincenzo Carafa, fu colpito da grave infermità, dalla quale fu liberato per l’intercessione della nostra Madonna dei Miracoli. Ed è perciò che, nel soccorpo di S. Maria dei Miracoli, a destra dell’altare maggiore, sulla tela dell’Annunziata, si vede, da un lato, il Cavaliere Vincenzo Carafa, Gran Priore di Ungheria, con la divisa militare del secolo XVI. Sotto quell’altare, pochi anni or sono, fu scoperta una lapide, che fu fatta poi collocare a lato dell’altare medesimo.
Intanto, giunto all’età matura Fabrizio II, lo Zio Vincenzo Carafa cedeva a lui il governo della Duchea di Andria, senza cessare di essere il suo buon consigliere.
Nel 1579, nell’età di 19 anni, il Duchino Fabrizio II impalmava la gentile signorina D. Maria Carafa, sorella del Principe di Stillano.
NOTE   
[12] Nel 1843 la Chiesa dei Cappuccini fu restaurata, e, sulla facciata, apposta la seguente iscrizione, che rimpiazzò la primitiva: Sacra aides Vincenti Carafa aere fundata A. D. 1573, ope fidelum restaurata 1843. Discacciati i Cappuccini, nel 1866, quel Convento fu adibito ad asilo d’infanzia. Ora è adibito a quartiere militare. La Chiesa fu affidata alla custodia del Canonico D. Sabino Troja di S. Nicola, e poscia, alla morte di costui, al Sacerdote D. Vincenzo Chicco, oggi Mansionario della Cattedrale.

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affresco della Madonna dei Miracoli (foto 1930)
Sotto il governo del Duca Fabrizio II furono introdotti in Andria i benemeriti Padri Benedettini Cassinesi, ai quali la nostra città deve la costruzione di quel grandioso Monistero, e della impareggiabile Chiesa di S. Maria dei Miracoli. Messosi il Duca Fabrizio II di accordo col Vescovo, in allora Mons. Luca Fieschi (o de Flisco), si conferì in Napoli dal P. Abate D. Pietro Paolo De Senisio, che governava allora il Monistero di S. Severino, ed ottenne, che buon numero di quei frati benedettini fosse venuto a stabilirsi in Andria, dove di recente, erasi rinvenuta nella Grotta, messa nella valle di S. Margherita in Lamis, una portentosa Immagine della Vergine, che, dalla pietà dei fedeli cittadini e forestieri, raccoglieva infiniti tesori [13]. Pria, però, di recarsi in Andria i Benedettini Cassinesi, spedirono da Napoli il famoso Architetto Cosmo, a dirigere la costruzione del Monistero, che dovevano abitare, ed a dare miglior forma alla Chiesa, che già erasi incominciata ad edificare. Devesi a questo insigne Architetto quella impareggiabile Chiesa e quel magnifico soccorpo, pieno di tanta luce, che forma l’ammirazione di quanti forestieri si recano a visitarlo. Compita la Chiesa ed il Monistero, Papa Gregorio XIII, con Bolla: Cathedram præeminentiæ del 13 gennaio 1580, approvava la istallazione in Andria della Congregazione Cassinese, dandole il titolo di Badia di S. Maria dei Miracoli, delegando il Vescovo d’allora, Mons. Luca Fieschi, a darne il possesso, col Breve Nuper Ecclesiam del dì 30 marzo 1581.
Nel dare quel possesso della Badia, della Chiesa, e di tutti i tesori accumulati dalle oblazioni dei fedeli, fu redatto un pubblico istrumento per notar Giambattista Petusi, in data 20 aprile 1581, nel quale intervennero, come testimoni, l’Arciprete D. Fabio Quarti, il cantore D. Giorgio Filomarino ed il teologo D. Aurelio Vitaliano, tutti tre appartenenti al Capitolo della Cattedrale. L’Università di Andria, a dimostrare la sua piena soddisfazione, per quella istituzione, che avrebbe nel contempo custodito il Santuario, e promossa sempre la devozione alla Madonna dei miracoli, concesse a quell’Abazia alcuni territorii limitrofi.
La generosità poi degli Andriesi, devotissimi di quella Madonna, l’arricchì poscia di vaste tenute, fra cui quelle della Buzzacchera, di Lama di Muccio, di Monte Guaragnone, di S. Nicola della Guardia, di Lama Paola, della Spineta, di Pianapadula, di S. Tommaso ecc. ...; oltre poi a molte case urbane e ad una infinità di censi e canoni perpetui.
Istallatisi i PP. Benedettini Cassinesi nella Badia di S. Maria dei Miracoli in Andria, nell’anno consecutivo 1582, il Vescovo D. Luca Fieschi veniva traslocato alla sede di Albenga in Liguria [14], succedendo a Lui, nella sede vescovile di Andria, a dì 30 Aprile del medesimo anno, Mons. D. Luca Antonio Resta della diocesi di Zara, traslato dalla sede vescovile di Nicotera, da Papa Gregorio XIII (1572 - 1585).
NOTE   
[13] Chi volesse conoscer e minutamente la storia della invenzione di quella portentosa Immagine, consulti l’opera del Rev. D. Giovanni di Franco di Catania, intitolata: Libri tre di S. Maria dei Miracoli di Andria, Napoli 1606.
[14] Di questi tre successivi vescovi Nicola, Giovan Francesco, e Luca, della medesima famiglia Fieschi, si veggono i tre relativi stemmi, a ridosso del muro, dove trovasi il trono episcopale, sul presbiterio.

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Mons. Resta fu uomo d’alta mente, di singolare santità e di straordinaria erudizione. Venuto appena in Andria, pubblicò quel famoso libro, che va sotto il titolo - Costitutiones [Editae in] Diocesana Synodo Andriensi [quam Reverendissimus P. D. Luca Antonius Resta Episcopus Andriensis habuit]. Anno Domini 1582.
Questo libro fu ispirato, dall’aver egli appreso che, nel partire da Andria il suo predecessore Mons. Luca Fieschi, il duca Fabrizio II Carafa aveva fatto sottrarre e sequestrare tutti i processi pendenti in Curia contro alcuni preti, uno specialmente contro il Primicerio di S. Nicola (del quale non è riportato il nome) ed il Diacono Colavecchia, accusati di gravi delitti! … Dopo ogni possibile tentativo, per riavere quei processi e quelle carte, il Vescovo Resta dové ricorrere alle pene canoniche, scomunicando tutti i responsabili di quel trafugamento.
Ma tutto fu inutile, poiché, i processi si trovavano nelle mani del Duca. Fu allora che Mons. Resta, fatte più minute ricerche negli archivii delle varie Chiese di Andria, e raccolto ogni notizia sul conto dei delinquenti, venne nella determinazione di pubblicare quelle costituzioni sinodali, per attuare una riforma dei costumi, troppo allora depravati … Quel lavoro gli costò circa otto mesi di fatica, ordinando, che ciascun Ecclesiastico ne avesse una copia, e ciascuna Chiesa di Andria ne conservasse tre nel proprio Archivio [15]. Quel libro divenne molto celebre nella Storia della Chiesa, e fu anche stampato ed emendato dalla S. Cong. del Concilio, ed inserito nell’ultima edizione dei Concilii, secondo rilevasi dal libro delle persecuzioui di Mons. Franco, che conservasi nell’archivio Capitolare, e secondo narra il Moreni.
Questa costituzione di Mons. Resta, che dava la scure a tutti i vizi ed abusi del Clero, non che ai mali abiti della città ed ai soprusi dei Baroni, dette troppo sui nervi al giovane e prepotente Duca Fabrizio II, e suoi seguaci. Di qui la terribile lotta contro il Santo e dottissimo Vescovo Resta, lotta poi continuata dai successivi Duchi contro i Vescovi successori, come a suo tempo narreremo.
Fra i tanti atti di prepotenza del Duca Fabrizio II, vanno segnalati quelli di voler la precedenza sul Vescovo nelle sacre processioni ed in ogni altro incontro con lui, sian in chiesa, che fuori; di pretendere che gli si desse a baciare il libro dell’Evangelo nella Messa solenne Pontificale, con tutti gli onori, riservati ai soli Ecclesiastici e Sovrani cattolici; di pretendere che il Vescovo non potesse condannare Preti e laici nelle cause spirituali, senza il suo intervento; d’ingerirsi negli affari dei Monasteri e degli Ospedali. Pretendeva, inoltre, che due o tre preti fossero a sua disposizione, per la celebrazione della messa nel suo palazzo ducale, dove, vestiti dai sacri paramenti, li faceva attendere per lunghe ore; finché non fosse comoda la Signora Duchessa, e non avesse egli sbrigato ogni altro affare, obbligando anche quei poveri preti a portar seco le candele, il vino, ostia, e perfino l’acqua per la messa! … Pretendeva di conferire benefici ecclesiastici, anche della Mensa Vescovile, a preti suoi amici ed adulatori, che soleano mettere brighe fra il Vescovo ed il Duca, fra i quali si distinse un tal D. Giovanni Mancino, che dette tanto filo a torcere al Santo Vescovo Resta. Si facea poi protettore dei preti e dei frati delinquenti, che, in quel tempo, non erano pochi, giacché molti si consacravano al Sacerdozio, non per spirito di vocazione, ma per spirito d’interesse, andando esenti da ogni gabella, e godendo delle immunità d’ogni genere! … Tutte le volte che il Duca si allontanava dalla città pretendeva pure che quei preti, che possedessero cavalli, dovesse metterli a sua disposizione pel viaggio; e guai a chi si rifiutasse! …
Insomma si credeva l’arbitrio, il padrone assoluto; il dispotico d’ogni persona e d’ogni cosa della città! …
Per aver fatto seppellire fuori Chiesa alcuni pubblici concubinarii, morti impenitenti, fra i quali il patrizio Bartolomeo Tesoriere, il povero Vescovo Resta dové subire una feroce persecuzione da parte del Duca e dalla Università, che gli teneva bordone.
Per tutti questi soprusi, Mons. Resta si rivolse al Papa, allora Clemente VIII, il quale fece al Duca severi rimproveri, minacciandolo delle pene canoniche, se non smettesse dal suo scorretto operare [16]. Ma la mano di Dio non tardò a punire il presunzioso Duca. Di lì a qualche anno, nel 1594. il Duca Fabrizio II, nella verde età di 33 anni, da mano ignota fu tolto alla vita con una pugnalata pugionis ictu dira morte peremptus; come raccontano di lui gli storici. Così quel santo Vescovo si liberò dalla persecuzione di quel perfido Duca.
Mons. Luca Resta fu autore pure di una pregevolissima opera, dal titolo Directorium visitatorum ac visitandorum, pubblicata a Venezia; opera che serve tuttora di guida ai Vescovi, nelle loro visite pastorali. In quest’opera sono pure inseriti le regole, da lui dettate, per le monache Benedettine di Andria.
Nel 1586 dava pure per le stampe la Messa e l’intiero Ufficio, per tutta l’ottava, del nostro Protettore S. Riccardo, e vi aggiungeva, in quel libro, elenco di tutte le numerose reliquie, delle quali una parte, allora, conservavasi nell’abside dell’antico altare maggiore, e una parte nella Segrestia del Duomo. Queste poi furono trasportate nella Cappella di S. Riccardo, e conservate negli armadii, messi a ridosso dell’altare maggiore di detta Cappella.
Precede questo libro una lettera pastorale (data da Roma, ove il Vescovo Resta allora risiedeva), diretta al Clero ed al popolo di Andria; lettera, che qui ci piace riportare, per ribadire, anche una volta, quel che abbiamo scritto innanzi, in contraddizione dei Bollandisti, i quali prendono argomento, da questa lettera di Mons. Resta, per sostenere che la leggenda di S. Riccardo fosse stata scritta posteriormente alla Invenzione delle sue ossa, e non già prima, come abbiamo noi detto innanzi, dimostrando, come il Duca del Balzo non creò la leggenda, nella sua storia della Invenzione del Corpo di S. Riccardo, ma, in questa istoria, riportò per intiero la leggenda, quale erasi scritta nei vecchi breviarii, rinvenuti nei paesi vicini [17].
Ecco intanto la lettera pastorale di Mons. Resta, che precede il summenzionato libro:
«Lucas Antonius Resta Messapiensis Episcopus Andrien Clero et populo Andriensi suo dilectissimo salutem in Domino sempiternam.
Cum multis, et his quidem insignibus Deus Opt. Max. Andriensem Civitatem locupletaverit beneficiis, et illud tamen, longe majus, ac illustrius semper esse judicavimus; quod vobis beatissimum fidei suæ confessorem, ac præconem Richardum primum hujus Civitatis Episcopum, Cujus Nos (licet immeriti) locum sustinemus, incredibilis sue benignitatis dispensatione, Evangelii, morum, et vitæ parentem, Ducem atque doctorem dederit: qui vitæ sanctitate, et magnorum, ac illustrium miraculorum copia vos Christo Domino genuit, aluit, ac in viros perfectos eduxit. Cum itaque; ante hæc tempora, proprium illi dicatum officium tvpis excussum, ejusque diebus festis recitandum circumferetur; Nos, ut tali Patrono cultum, ac pietatem, quam possumus, exhiberemus, et nostrum in vos studium, voluntatem et promptissimam animi benevolentiam ostenderemus; multis laboribus, vigiliis ac diligentia nostra, et non modicis etiam impensis tum nostro, tum communi Civium aere subministratis, id ad Breviarii novi formam reductum formavimus, ac propriis sacris exornatum, et gratiis, privilegiisque S. D N. Sixti V. Summi Pontificis benignissimi ditatum in lucem edi curavimus [18]; eique sanctarum reliquiarum, quibus nostra hæc Ecclesia Cattedralis decorata est, notam adiungi fecimus: puo vos incredibile id Thesaurum ante oculos semper habendo, eorum, quorum sunt, vestigia imitari, atque alacriter sequi, et ad eos religiosius venerandos majori in dies devotione accendamini; nostramque in vos propensissimam charitatem mutuis, atque paribus officiis prosequamini; ita enim uberrimum salutis fructum a Domino reportabitis; a quo vobis omnem cœlestis gratiæ cumulum perpetuo deprecamur, ac tandem id a vobis studiose contendimus, ut quando supplices ad Deum, et S. Richardum nostrum orationes habebitis nostri memoriam retineatis; quod cum feceritis vos nobis cumulate satisfecisse, ac parem gratiam retulisse judicabimus.
Valete in Domino, Romæ XI Kalen. Aprilis MDLXXXVI.»
A questa lettera siegue l’ufficio di S. Riccardo (ridotta dal Vescovo Resta alla forma del nuovo Breviario: id ad Breviarii novi formam decretum formavimus), ed indi la Messa propria di detto Santo. A piè di quella pagina sono poi scritte queste parole:
«Nos Vincentius Tit. sanctæ Mariæ in Via Presbyter Cardinalis Montisregalis nuncapatus, testatum facimus nuper Sanctissimum D. N. D. Xistum V, vivæ vocis oraculo concessisse, ut in Ecclesia Andriensi, eiusque Diœcesi Officium S. Richardi ad formam Breviarii Romani redactum, atque emendatum, sicuti in superiori libello continetur, [19] celebrari possit in Choro et extra; quin etiam omnibus, qui hujusmodi Officium dixerint ac psallerint, toties viginti dies de injuncta ipsi pænitentia ex omnipotentis Dei misericordia relaxare. In cujus rei fidem has litteras manu nostra subscriptas ac sigilli nostri appensione munitas fieri mandavimus. Romæ XV Martii MDLXXXVI.»
I Bollandisti, fermandosi a quelle parole della sopradetta lettera, dove è detto che, innanzi a quel tempo, l'Officio proprio di S, Riccardo fosse stato tanto discusso, prima di essere dato alle stampe, e che al Vescovo Resta fosse costato gran fatica, veglie e diligenza, per ridurlo alla forma del nuovo Breviario, argomentano così
«quell’ufficio, secondo afferma il Vescovo Resta, nella sua prefazione, fu tanto discusso a Roma nel 1586, e costò a lui molto lavoro, vigilie, diligenza ed anche molta spesa, per ridurlo alla forma del nuovo Breviario, cui Papa Sisto V. vi aggiunse grazie e privilegi; dunque (dicono i Bollandisti) la leggenda era di dubbia fede; tanto più che l’antica pergamena di quella Leggenda, non era più ritornata da Roma in Andria, o per negligenza, o per altro motivo del mandatario: Dippiù, dal medesimo libro del Vescovo Resta risultò, che il Cardinal di Montereale, attestava d’aver Papa Sisto vitae vocis oraculo, concesso che, nella Chiesa e diocesi di Andria si potesse recitare l’ufficio di S. Riccardo, ridotto alla forma del nuovo Breviario ed emandato; non che dì assolvere dalla ingiunta penitenza di venti giorni tutti quelli che lo reciteranno in prosieguo».
Ora, dicono i Bollandisti, quella postuma concessione, e quell’assoluzione non provano l’incertezza del culto al Santo, e l’attendibilità di quella leggenda, che veniva abusivamente letta nell’ufficio di S. Riccardo?
Senza tornare a polemizzare coi Bollandisti, sulla quistione della leggenda, di cui abbiamo abbastanza parlato nel Capo II, presentataci ora l’occasione, dal libro di Mons. Resta, rispondiamo solamente che, l’aver tanto discusso in Roma, e l’aver tanto lavorato nella compilazione dell’ufficio di S. Riccardo (per ridurlo alla forma del nuovo Breviario) a noi sembra, che provi a favore della leggenda medesima anziché, no. Difatti, quella leggenda non sarebbe stata approvata da Papa Sisto V se, dopo tanta discussione, non fosse risultata verace ed autentica, e né vi avrebbe il Papa stesso annesso anche le grazie e l’indulgenza a quell’ufficio, se fosse stata mendace la narrativa.
Quanto all’assoluzione, poi, della penitenza dei venti giorni, ciò prova che non era una colpa l’aver prestato il culto a S. Riccardo, ma solamente una colpa l’aver recitato l’ufficio senza la dovuta approvazione della Santa Sede. Ma, l’assoluzione stessa e l’approvazione dell’ufficio (ridotto alla forma del nuovo breviario, sicuti in superiori libello continetur) non dimostrano l’autenticità della leggenda, tanto discussa, ed approvata?
Del resto quella leggenda, tanto discussa ed approvata dalla S. Sede, deve ritenersi per autentica, sino a che pruove positive contrarie non verranno a demolirla, se non vogliamo sottrarci all’autorità del Romano Pontefice!
Se così non fosse, quante leggende di santi non dovrebbero scomparire dal Breviario! … E ciò par che basti su tale quistione. Sat prata bibere!
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Ed ora torniamo al Vescovo D. Luca Antonio Resta. Nel 1590, Egli istituì nella Chiesa Cattedrale la Congregazione sotto il titolo degli Agonizzanti, allo scopo di raccogliere tutti i sacerdoti della Cattedrale, per istruirsi nell’esercizio pratico dell’assistenza ai moribondi, essendo allora la cura delle anime presso il solo Capitolo della Cattedrale.
Fu adibita a tale scopo la seconda Cappella, a mano manca di chi entra nel Duomo [20].
Mons. Resta dopo una vita tanto laboriosa, e dopo quindici anni di savio governo di questa diocesi, nel 1597, passava agli eterni riposi.
L’Ughelli dice di Lui - mortuus est bonæ famæ [21].

Fu tumulato nella Cappella di S. Giuseppe, dove eravi una lapide, che ricordava ai posteri un tanto prelato, che forma la gloria dell’Episcopato andriese. Su quella lapide era incisa la seguente iscrizione:

Lucas Antonius Resta Messapiensis Episcopus
Primum Castrea, deinde Nicoteren, postremo Andrien
Quorum primum in Religione Ecclesiastica disciplina
Bonis moribus universalibusque Cathedralis
Tum Ecclesiæ tum ipsius Palatii rebus instaurandis
Ampliandis et obnixe tuendis acerrime
Imitatur exemplum. Hic igitur immemor
Æque ac benemeritus successor resuscitans
Perpetuæ, ut par erat, memoriæ addici jussit
Anno salutis Umanæ MDLXXXIV, Præsulatus
In iisdem Ecclesiis XIX, in hac vero Andrien
III Mensis Augusti feliciter Amen.

A piè dello stemma di Mons. Resta si leggevano, su quella medesima lapide, questi due altri versi.

Præsul Resta, Patres imitando, resuscitat ipsos;
Sculpta, ne iterum pereant, sua stemmata jussit.
Questi due versi ci fanno ben comprendere, come Mons. Resta fosse stato il primo a far effigiare, coi relativi stemmi, tutti i vescovi di Andria, nella gran sala del palazzo vescovile, cominciando dal primo vescovo S. Riccardo, fino al suo predecessore Mons. Luca Fieschi; continuati, poi, ad esser effigiati gli altri per cura dei loro successori [22].
Intanto questa lapide, che ricordava l’ottimo vescovo Resta, scomparve dalla Cappella di S. Giuseppe; e, dopo lungo tempo, fu rinvenuta fra le pareti del pozzo, messo nel Lavamani! E là ritrovasi ancora, a nostra vergogna! … [23].
NOTE   
[15] Tutto ciò l’abbiamo rilevato dal libro della Persecuzione di Mons. Franco, che conservasi nell’Archivio Capitolare della Cattedrale. Fino al 1761, quando si agitò la causa fra il Capitolo Cattedrale ed il Vescovo Ferrante (della quale, a suo tempo, ne parleremo), una copia di quelle costituzioni sinodali di Mons. Resta, conservavasi nell’Archivio della Collegiata di S. Nicola, come attestò il Notar Francesco De Antolino nel 1761 alla S. Congregazione del Concilio.
[16] Tutto ciò rilevasi dal citato libro delle persecuzioni di Mons. Franco, che conservasi nell’Archivio Capitolare della Cattedrale.
[17] Quella leggenda fu scritta dall’anonimo dall’ottavo secolo, secondo ne assicura lo storico Duca Del Balzo.
[18] Le parole, da noi sottolineate, in questa lettera, ha dato argomento ai Bollandisti, per ingenerare il sospetto sull’autenticità della leggenda di S. Riccardo; per cui il Vescovo Resta (dicono essi) dové spendere tanta fatica per ridurla alla forma del nuovo Breviario.
[19] Queste parole dimostrano ad evidenza, che la emendazione operata dal vescovo Resta, e in conformità del precedente libello: sicuti in superiori libello continetur.
[20] Quella Cappella era intitolata a S. Sebastiano. Quando fu poi stabilita la Congregazione degli agonizzanti, quella Cappella venne dedicata alla Vergine del Carmelo, speciale Protettrice dei moribondi. Detta Cappella poscia fu sfondata e prolungata nell’attuale Oratorio, il di cui sito, in origine, faceva parte del giardino vescovile, ceduto dal vescovo Egitti nel 1663.
[21] Italia Sacra, vol. VII.
[22] Queste effigi in pittura di forma ovale, sono tuttora visibili nella prima sala del Palazzo vescovile. Esse cominciano da S. Riccardo e vanno sino ai Vescovo Galdi (1872 - 1899).
[23] Sarebbe desiderabile che quella lapide, che ricorda così insigne Prelato, venisse estratta da quel pozzo, e collocata in sito più conveniente!

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Sotto il vescovado di Mons. Resta, memorabili furono le lotte, agitatesi fra il Capitolo Cattedrale e la Collegiata di S. Nicola, circa l’obbligo, che avevano i Preti di S. Nicola, d’intervenire alla Chiesa Cattedrale, per assistere alla confezione degli olii Santi, nel Giovedì dell’eddomada maggiore, ed ai primi vesperi e Messa solenne nella festività di Maria Assunta in Cielo, (titolare di nostra Chiesa), ed in quelle del Protettore S. Riccardo (23 Aprile, festa della Invezione, e 9 Giugno, festività del suo transito in Cielo), non che a tutte le processioni, quando interveniva il Capitolo della Cattedrale [24].
Nel 1592, essendo ancor vescovo Mons. Resta, il Capitolo di S. Nicola si rifiutò d’intervenire in Cattedrale, per assistere alle sacre funzioni nei su indicati giorni, come aveva sempre usato par lo passato, sin dalla sua istallazione da Trimoggia in Andria. Perché non si ripetesse quell’astensione, nell’anno successivo, il Capitolo Cattedrale, tenace difensore dei suoi diritti e preeminenze, provocò dalla S. Congregazione del Concilio un Rescritto, emanato a dì 22 Luglio del 1593, e diretto al Vicario Generale D. Giulio Pastorino (in assenza del Vescovo Resta), al quale s’ingiungeva che, approssimandosi la festività dell’Assunzione, obbligasse li Preti della Collegiata di S. Nicola ad assistere, conforme al solito, agli ufficii divini nella Cattedrale, ingiungendo che se si mostrassero renitenti procedesse contro loro con pene pecuniarie et censure. Firmato il Cardinal Paleotti.
Ad onta di quel Rescritto, nell’Agosto di quel medesimo anno, col pretesto che il vescovo Resta era assente da Andria [25], quei Preti neppur intervennero in Cattedrale, per la festività dell’Assunta, sostenendo, che il Rescritto Pontificio obbligava il loro intervento in Cattedrale, solamente quando funzionasse il Vescovo, e non quando questo fosse assente.
Il Capitolo della Cattedrale tornò allora a reclamare il suo diritto, e la S. Congregazione, a di 4 Ottobre del 1595, emanò un altro Rescritto, col quale obbligava quei Preti d’intervenire in Cattedrale negl’indicati giorni, anche quando il Vescovo fosse assente. Ciò per riguardo alla festività dell’Assunta e del Protettore S. Riccardo.
Quanto poi all’assistenza nella confezione degli olii Santi, ed all’adempimento del Precetto Pasquale, nel Giovedì Santo, i Niccolini fecero istanza alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, per esser dispensati dall’intervenire nella Chiesa Cattedrale, non potendo, in quel giorno solenne, sospendere le sacre funzioni nella propria Chiesa. Ma, la S. Congregazione, conciliando l’una e l’altra cosa, ordinava, con Rescritto del di 8 Novembre 1593, che, pel solo Giovedì Santo, invece dell’intero Capitolo, intervenissero nella Cattedrale solamente 8 persone, cioè due Dignità, due Preti, due Diaconi e due Suddiaconi preceduti dalla Croce, secondo l’antica consuetudine, restando fermo l’intervento dell’intero Capitolo nelle altre festività sopradette.
I Niccolini, ossequenti a quel Rescritto, nell’anno seguente, intervennero nella Cattedrale, il Giovedì Santo, in numero di otto, ma senza della Croce, e senza voler ricevere la sacra Eucaristia, per l’adempimento del precetto pasquale, e senza voler accompagnare il SS. Sacramento al Sepolcro, come erasi usato per lo passato.
Il Vicario D. Giulio Pastorino, a nome del Vescovo assente, condannò quei Preti di S. Nicola a pagare ducati cento alla Cattedrale, e carcerò, nella prigione dell’Episcopio, i Procuratori di quel Capitolo Collegiale.
I Niccolini si appellarono al Metropolitano, mentre il Vicario ed il Capitolo della Cattedrale producevano ricorso alla S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, la quale ordinava, che gli otto preti di S. Nicola dovessero recarsi processionalmente alla Cattedrale con la Croce inalberata con le loro cotte decenti [26] et ivi assistere alli divini officii della mattina, communicarsi, et accompagnare la processione, e che all’hora i Canonici della Cattedrale debbono con carità e cortesia invitarli a sedere nel Choro con loro, conforme alla transazione fatta nell’anno 1534 … e, per esser stati condannati alla pena di 1oo scudi, per il mancamento che fecero l’anno passato, per gratia si riduce a 25, da spendersi in quell’uso e servitio, o ornamento della Cattedrale … [27].
Nel 1596, approssimandosi la festività dell’Assunta, il Capitolo della Cattedrale, prevedendo che i Niccolini non sarebbero intervenuti all’assistenza dei divini ufficii nel Duomo, ad evitare scandali, domandò alla medesima S. Congregazione, che richiamasse preventivamente i Preti di quella Collegiata all’adempimento del loro obbligo. La S. Congregazione, a dì 22 Luglio di quel medesimo anno, scrisse al Vicario Pastorino che, se i Preti di S. Nicola avessero mancato, anche in quell’anno, d’intervenire ai divini ufficii, per la festività dell’Assunta, era facultato ad emanare quelle pene, che avesse Egli creduto più espedienti al caso. Ed il Vicario Pastorino, autorizzato dalla S. Congregazione, minacciò i Preti di quella Collegiata al pagamento di ducati 200, da impiegarsi nella costruzione delle prigioni nel Palazzo Vescovile, e ad altre pene riservate al suo arbitrio; ed, in sussidio, anche la scommunica. Ecco le testuali parole, sotto la data 9 augusti 1596: sub pœna ducatorum ducentorum applicandorum carceribus Episcopalibus construendis, et aliis pœnis nostro arbitrio reservatis, et in subsidium sub pœna excommunicationis.
Dietro così rigorose minacce, il Capitolo di S. Nicola fedelmente si portò nella Cattedrale, per assistere ai primi Vespri ed alla Messa solenne nella festività dell’Assunta di quell’anno. Così ebbe termine, per allora, tale controversia. Però, nel 1602, sembrandogli poco decente ed incomodo il luogo destinatogli nel Coro; e, volendo anche evitare il contatto coi cattedralisti, il Capitolo di S. Nicola, fece domanda alla S. Congregazione di poter far costruire, a proprie spese, dei banchi con i relativi inginocchiatoi. La S. Congregazione, udito il parere del Vescovo (in quel tempo era Mons. Bassi, successo al Resta), rispose: nil innovetur. Andarono su tutte le furie i Preti di S. Nicola, e si protestarono con atto pubblico. Ma poi, consenziente il Capitolo della Cattedrale, fu accordato il permesso di poter costruire quei banchi, soprapponendovi anche il proprio stemma Capitolare, con le parole: Collegiatæ Ecclesiæ divi Nicolai [28].
Cosi parvero quietati gli animi, ed il Capitolo di S. Nicola, per qualche tempo, continuò ad intervenire nella Chiesa Cattedrale, nei su indicati giorni, per assistere ai divini ufficii, tanto più che il Vescovo Bassi aveva stabilita una multa di carlini cinque (pari a L. 2,12), per chi, senza sua licenza, mancasse a quell’intervento.
Però la pace non fu duratura, e nuove liti, assai più acerbe delle prime, furono suscitate fra i due rivali Capitoli, cui si aggiunse anche quello della Collegiata della SS. Annunziata, come, a suo tempo, diremo.
Difatti, se attutite furono le lotte, per riguardo ai diritti di Parrocchialità, e per riguardo all’assistenza, dovuta alla Cattedrale, nei su indicati giorni, ridestaronsi quelle per riguardo all’obbligo d’intervenire nelle Processioni, che facevansi dal Capitolo della Cattedrale, obbligo dai Niccolini assunto fin dal loro stanziamento in Andria, convalidato da varii decreti Vescovili e Pontificii, riconosciuti e riconfermati con speciali convenzioni, stipulate fra i due Capitoli, e specialmente con quella rogata da Notar Francesco Giacomo Petusi nel 1609 [29].
Nel 1604, la Collegiata di S. Nicola intervenne alla processione del Corpus Domini, ma pretendeva, non solamente di essere arrollata alla rinfusa fra i Capitolari della Cattedrale, ma ben anche di erigere una insegna propria, a guisa di Gonfalone. Il Capitolo della Cattedrale fe’ ricorso alla S. Congregazione dei Riti, e questa, a dì 21 agosto di quel medesimo anno, rescrisse quanto segue:
S. Congr. a solito non esse recedendum censuit, et declaræ; et ut Canonici Collegiatæ in primo loco post crucem Chatedralis Ecclesiæ incedere debeant, ordinavit, et post eos in ultimo et dignori loco Clerici, et Canonici Ecclesiæ Cathedralis, inter quos nec Clerici, nec Canonici aliarum Ecclesiarum debeant se miscere: neque Canonicis Collegiatæ licere contra solitum erigere insigna: Alex. Cardinalis Florens. V. B. Mucantius Secret. Congregationis.
NOTE   
[24] Nel parlare delle lotte fra questi due Capitoli rivali, quello della Cattedrale e quello della Collegiata di S. Nicola, non intendiamo affatto di voler, in alcun modo, menomare la stima che profondamente sentiamo verso quel illustre Capitolo Collegiale, che va ora fregiato dal titolo di COLLEGIATA INSIGNE, e verso il quale siamo legati, personalmente, da tanti ricordi carissimi. che richiamano alla nostra mente la memoria dell’ottimo nostro zio D. Nicola Agresti, che fu Prevosto per circa un trentennio (1859-1887), di quella Collegiata. La nostra narrazione sarà tutta oggettiva, e poggiata sovra documenti, senza il minimo pensiero di suscitare rancori, oramai assopiti, e di voler mettere scredito, con apprezzamenti, che potrebbero significare offesa a quei benemeriti Canonici, che compongono ora quell’illustre Capitolo. Così pure dichiariamo di sentire eguale stima pel Capitolo Collegiale dell’Annunziata, che pur dette tanto filo da torcere al Capitolo della Cattedrale, come, in seguito, narreremo. Al Capitolo della SS. Annunziata appartenne pure un nostro parente, D. Giacomo Agresti, uomo di santa vita, morto nel 1799.
[25] Mons. Resta risiedeva per lo più in Roma, dove era consultato dai Cardinali e Prelati delle Congregazioni Romane, per la sua alta dottrina e scienza canonica.
Quanto qui asseriamo è ricavato dal Libro delle cause, e dall’altro Assistenza alla Cattedrale, che conservarsi nell’Archivio Capitolare.
[26] Non avevano allora i Preti di S. Nicola, e neppur quelli della Cattedrale, le insegne canonicali.
[27] Archivio Capitolare, Libro dell’Assistenza alla Cattedrale.
[28] Quei BANCHI furono situati, allora, tra l’atrio e l’arco, che metteva nella Sacrestia, del quale si vedono ancora le vestigia. Ad evitare pero gl’inconvenienti e le irriverenze, che accadevano in prossimità dell’altare Maggiore, Mons. Franco, succeduto al Bassi, fe’ murare poscia lo spazio compreso in quell’arco, facendo poggiare su quel muro i BANCHI della Collegiata di S. Nicola, facendo aprire invece una nuova porta, che mettesse nella Sacrestia.
[29] Da una relazione del Vescovo de Anellis, fatta alla S. Cong. dei Riti nel 1747, rileviamo quali obblighi avevano le due Collegiate di Andria circa l’intervento nelle processioni, indette dal Capitolo Cattedrale. Riproduciamo testualmente tale relazione, per quel che riguarda le processioni:
«Quod autem ad sacras attinet processiones strictam habent obligationem relatæ dignitates, sacerdotes chorales et reliqui omnes utriusque Ecclesiæ Clerici (S. Nicola e l’Annunziata). Et non modo duobus intervenire processionibus pro Divo Richardo uniquolibet die 23 Mensis Aprilis de mane, alteri post Vesperas qualibet die nona Iunii; processioni S. Marci e quolibet die 25 Aprilis; tribus processionibus rogationum, ac solemnitatis SS.mi Corporis Christi. Verum et processionibus duabus, quæ Vesperas pro eodem Sanctissimo Corpore Christi in Dominica fiunt infra octavam, et octava eiusdem, cum cœteris consimilibus per Episcopum infra annum secundum temporum necessitates indicendis, absque eo quod eorum ullus valeat et ab hujusmodì onere temere se eximere ob pœnas quæ per Episcopum infliguntur, ac exequuntur etiam ab ipso adversus minime interessentes, et contumaces. Processionibus dixi, quæ solummodo peraguntur per Ecclesiam Cathedralem, et in ea finem semper accipiunt, quoniam nulla in hac Civitate instrui potest Processio, cum juris esse credatur solius Ecclesiae Cathedralis. De facto unica, quam se facere valet Ecclesia S. Nicolai est de Sanctissimo Christi Corpore, die Luna infra Octavam, post Vesperas (concessa da Gregorio XIII), quæ tantum extenditur per sui ambitum, per solos Ecctesiasticos suos ducenda, oc Confratres Confraternitatum laicalium in ea erectas, reliquias vero alias per totam civitatem circuendos, sola et semper Cathedralis Ecclesia explet cum interessentia et interventu prædictorum S. Nicolai et SS. Annunciationis Dignitatum, suorumque omninm Ecclesiasticorum, singuli tamen sub propriis Crucibus, suis erectis et munitis solito Pannetto pendente»
(dall’Archivio capitolare).

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Mentre si agitavano queste liti fra il Capitolo della Cattedrale e la Collegiata di S. Nicola, altre liti venivano suscitate, in quel tempo medesimo, dalla Università di Andria, contro il Capitolo ed il Clero della Città, circa l’esenzione dai dazi, e circa l’assegno del vino, per quelli ecclesiastici, che non possedevano vigneti, giusta quanto erasi innanzi convenuto e stabilito.
Quella convenzione erasi fedelmente mantenuta sino al 1595, quando l’Università, vedendo che molti ecclesiastici non possedevano più vigneti, (se li vendevano, perché tornava loro più conto avere il vino gratuitamente dalla Università, anziché menare a proprie spese i vigneti), tolse allora la gabella sul vino mosto, e la impose sulla proprietà dei vigneti, posseduti dai soli laici; in modo che quegli Ecclesiastici, che avevano venduti i loro vigneti, restarono senza avere più la quantità di vino, stabilita per quelli che non possedevano vigneti.
Di questo arbitrio dell’Università altamente se ne dolse il Vescovo Bassi, dichiarando nulla la deliberazione Comunale, che ledeva i diritti del Clero, (diritti stabiliti nella precedente Convenzione), sciogliendo egualmente gli Ecclesiastici dall’obbligo di mantenere la Convenzione stabilita. Fu allora che tutti gli Ecclesiastici si dettero a far acquisto di terreni, che mettevano a vigneti per conto proprio e dei loro congiunti; in modo che, in breve tempo, gran parte del territorio Andriese si vide in mano del Clero (che andava esente da ogni gabella), con grave scapito della Università.
Di qui gravi lotte fra il Clero e l’Università.
Morto, però, Mons. Bassi, e successo a lui Mons. Franco, questi, pro bono pacis, indusse l’Università a ritirare la sua deliberazione, e richiamare in vita la convenzione stabilita col Clero; a condizione, però, che l’Università mantenesse sempre in vigore la convenzione delle franchigie, e dell’assegno, fatto ai Preti non possessori di vigneti, (cioè delle some 8, 6 e 4 annue di vino, come è detto innanzi).
Intanto l’Università, dopo aver accettato tale proposta, dietro insinuazioni del Duca Antonio Carafa, acerrimo nemico del Vescovo Franco (come a suo tempo diremo), venne meno ai patti stabiliti e, non solamente riscosse, a viva forza, dagli Ecclesiastici, la gabella sul vino mosto di quell’anno 1605, ma anche pretese tutte le annualità precedenti. Di che il Clero ed il Vescovo, indignati, fecero ricorso alla S. Sede, la quale, con lettera di Mons. Sauli, Segretario del S. Concilio, inflisse le censure canoniche ai Gabellieri dell’Università. Fu allora che il Duca e la Università ordirono una congiura contro il Vescovo e il Clero, calunniandoli in mille modi presso la S. Sede, chiedendo, che la vertenza venisse decisa in Plenaria Congregazione dei Cardinali. Prodotte da una parte e dall’altra le rispettive deduzioni, dal Cardinal Pallavicino (Commissario delle cause) fu dato ordine al Vescovo ed al Clero di non procedere oltre, sino a che non fosse venuta la decisione della S. Congregazione.
Intanto il Duca e l’Università facevano a gara ad infarcire calunnie contro il Clero e il Vescovo, accusandoli anche presso il Re di Napoli, quali ribelli alle leggi dello Stato, e disturbatori dell’ordine pubblico! … Quanto al Vescovo, lo accusavano di aver imposto ai confessori di non assolvere gli esattori delle gabelle, il Sindaco, gli eletti e tutti i loro appartenenti, ad onta che la S. Sede avesse ingiunto di non procedere oltre sino a che non fosse venuta la decisione della S. Congregazione! Lo accusavano pure di aver comminato pene canoniche contro i negozianti di commestibili, che vendevano i loro generi nei dì festivi, con l’aggiunta che qualora non soddisfacesse la pena il figlio, condannava a soddisfarla il padre, il maestro pel discepolo, il padrone pel servo! …
Dietro tali calunniosi ricorsi, la S. Sede, a dì 3 giugno 1603, a mezzo del Cardinal Santi, facea pervenire al Vescovo una lettera, nella quale s’ingiungeva che, se fossero vere le accuse esposte dal Duca e dalla Università, non facesse negare l’assoluzione ai laici, quando questi non avessero altro ostacolo, fuor che l’aver esatto le gabelle dei Preti sul vino mosto! … Un altro monitorio veniva anche al Vescovo dal Reggente Costanzo di Napoli (zio carnale del Duca Antonio Carafa), perché smettesse da quelle persecuzioni contro i poveri gabellierini e contro tanti laici, ingiustamente colpiti da pene canoniche! …
Il povero Vescovo, accettando pazientemente gl’ingiusti rimproveri, che gli venivano da Roma e da Napoli, giustificandosi delle inique accuse, rispondeva ai monitorii con lettere degne dei veri seguaci di Cristo e degli Apostoli. Fra l’altre, ci piace citare un brano di una di quelle lettere: mihi vindictam, et ego retribuam soffrendo con pazienza e scusando quelli che mi offendono ed ingiustamente mi calunniano a Roma ed a Napoli [30].
Di questo santo vescovo, tanto perseguitato dal Duca Antonio Carafa, parleremo a lungo nel prossimo Capo, mettendo in rilievo le sue singolari virtù e l’opera iniqua dei suoi persecutori.
Intanto la S. Congregazione, esaminate le deduzioni dei contendenti, ordinava, che si attenessero alla Convenzione, precedentemente stabilita. Cosi ebbe termine quella controversia.
Ed ora riprendiamo la cronologia dei Vescovi di quel tempo.
NOTE   
[30] Dal libro delle persecuzioni di Mons. Franco — Archivio capitolare.

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affresco venerato come Madonna dell'Alto mare

Alla morte di Mons. Resta, successe nella Sede Vescovile di Andria Mons Vincenzo Bassi, nobile cremasco, trasferito da Seberico in Andria, da Papa Clemente VIII (1592-1605) a dì 25 Maggio 1598. L’Ughelli lo riporta invece nel 1597, in quel medesimo anno, in cui morì Mons. Resta. Mons. Bassi fu uomo di santa vita, e seguì in tutto gli esempi del suo predecessore Mons. Resta. Nel 1603, poco prima di sua morte, rese solenni funebri, nella nostra Cattedrale, ad un suo fratello per nome Giovan Francesco, patrizio romano, il quale, venuto in Andria per visitarlo, fu incolto dalla morte. Fu tumulato nel nostro Duomo, e propriamente, nel mezzo della Cappella di S. Riccardo, ove il Vescovo, suo fratello, fece scolpire il seguente epitafio:

D. O. M.
Ioannes Franciscus Bassus Cremensis
Patricius Romanus, vir mire probus, qui
Vixit ann. XLVI, mens. III di : X. flagrans
Desiderio post aliquot lustra videndi
Vincentium Bassum Episcopum Andriensem
Fratrem, Andriam venit, fratrem vidit,
Et ad Deum iit V Id. Decem. anno a partu
Virginis gloriosae MDCIII.
Vincentius dilecto fratri posuit [31].
Sotto il Vescovado di Mons. Bassi avvenne l’invenzione della miracolosa Immagine della Madonna d’Altomare, scoperta per un prodigio operato dalla Vergine a favore di una bambina, precipitata in un pozzo ricolmo di acqua [32]. Questa immagine, al pari dell’altra, scoperta nella valle di S. Margherita in lamis, (come pure quella della Madonna delle Grazie), par che sia della medesima epoca dei basiliani, venuti dall’oriente a stabilirsi nella nostra regione, per sfuggire alla ferocia degl’Iconoclasti. Quel dipinto, come gli altri suindicati, si appartiene all’arte bizantina, come lo stile ci apprende.
Quel pozzo, anticamente, doveva essere una delle caverne, che i Basiliani incavavano nel muro, formando le loro celle o laure; e quella immagine, forse, faceva parte dell’antica Chiesa di S. Sofia, che trovavasi in quei pressi.
Mons. Bassi morì a dì 11 Novembre 1603, dopo aver occupata la Sede Vescovile di Andria per 5 anni e 6 mesi circa.
Alla morte di Mons. Bassi fu eletto Vicario Capitolare, il Canonico della Cattedrale, D. Marino Ciappetta, uomo assai colto e pio, dottore in legge, il quale fu poi Vicario Generale del Vescovo Franco nel 1607, quando il Vicario Mariscotti di Bologna dovè andar via da Andria, per le insidie del Duca Antonio Carafa, di che parleremo nel Capo seguente.
NOTE   
[31] Questo epitaffio, come tanti altri, non più si vede in detta Cappella. Forse andò rimosso nel rifacimento di essa.
[32] Essendosi recato un tal Pietro Circiello ad attingere acqua, udì una voce che veniva da quel pozzo, Datone avviso ai vicini fu un grande accorrere di persone, fra le quali i genitori, che da tre giorni piangevano la scomparsa di una loro amata piccina. Approntate tosto le funi ed altri ordegni, la piccina, che aveva appena quattro anni, venne su a salvamento, senza riportarne bagnato neppure un capello! Interrogata, come mai non fosse stata toccata dall’acqua e come avesse potuto mantenersi in vita senza aver preso cibo per tre giorni, la bimba, col sorriso sulle labbra rispose, che una Signora, dipinta sul muro di quella cisterna, l’avea nutrita in tutto quel tempo, e l’aveva sostenuta sulle acque, perché non affondasse. Sparsasi la voce dell’accaduto, tutta la città si riversò in quel luogo e, fatta estrarre l’acqua che riempiva la cisterna, si vide infatti una Immagine di Maria, di stile greco, dipinta sul muro. Per ordine del Vescovo Mons. Bassi quella cisterna fu prosciugata e quindi ridotta a forma di Cappella costruendovi un altare, dedicato alla Vergine di Alto Mare, tenuta dagli Andriesi in grande venerazione.

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Al Vescovo Bassi successe, a dì 23 gennaio del 1604 Mons. Antonio Franco, nobile cittadino di Napoli, traslato, dalla sede Vescovile di Ravello a questa di Andria, da Papa Clemente VIII. (1592 – 1605). Mons. Franco fu uomo di santa vita e di grande dottrina, perciò tanto perseguitato! Di questo Vescovo esiste nell’Archivio capitolare un volume manoscritto, dal quale abbiamo attinte molte notizie, riflettenti il Capitolo, i Duchi, l’Università, molti cittadini ed altro. Quel libro è una raccolta di fatti, riflettenti la persecuzione, che dové subire il Santo Vescovo dal perfido Duca Antonio Carata. Ne faremo, nel Capo seguente, un breve sunto per far meglio apprezzare questa gemma di Vescovo, e per mettere a parte il lettore dei fatti, che riflettono anche il Capitolo, in quel torno di tempo.
Nominato Mons. Franco Vescovo di Andria, da Roma mandava due lettere pastorali, una al Clero, in lingua latina, ed un’altra al popolo in italiano, che sono due veri gioielli per bellezza di forma e per elevatezza di concetti, improntati alla più sentita carità cristiana [33].
Mons. Franco fu il vero padre dei poveri; l’amico del popolo, il pastore amatissimo dei tribolati. Non disdegnava d’istruire personalmente i fanciulli nel catechismo; ascoltava le sacramentali confessioni, e spesso recavasi al letto degl’infermi, a portare gli estremi conforti della Religione.
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Nel medesimo anno della venuta in Andria (1604) del Vescovo Franco, il regno napoletano fu afflitto da grave carestia di vettovaglie ed i Ministri Regii avean dato ordine severissimo, ai venditori; pena la prigionia e multa ai contravventori, di non alterare i prezzi usuali delle vettovaglie; ed, ai proprietari, di rivelare e mettere a disposizione dei Regi Commissarii tutta la quantità dei loro prodotti di frumento.
A questo draconiano comando vennero meno non pochi proprietari di Andria, ed anche la Università; per cui molti cittadini andriesi furon fatti imprigionare nel Castello di Trani, per ordine Ministeriale, e fu inviato qui in Andria un tal Sanfelice, amministratore della Provincia di Bari, con mandato di asportare da Andria a Napoli, in punizione della disobbedienza, tutto quel grano, che si trovava raccolto nei magazzeni della città [34].
Sanfelice, sostenuto anche dal Duca Antonio Carafa, da vero strozzino, venne a spogliare Andria di tutto il grano, che possedeva! … S’immagini il lutto della città, ed i clamori dei cittadini! … Il buon Vescovo Franco, affrontando l’ira del Duca, pur di salvare la città dalla carestia, volle avvicinare il Commissario Sanfelice, invitandolo a prendere domicilio nel suo Palazzo Vescovile. Quando fu solo con lui, seppe Egli insinuarsi tanto nell’animo del Commissario, che, non solamente lo indusse a lacerare 64 processi, già iniziati contro i principali proprietarii di Andria, ma lo persuase ancora di rilasciare nella città tanta quantità di grano, quanta sarebbe bastata alla bisogna della medesima. Per questo tratto di benevolenza, mentre più cresceva nell’animo dei cittadini l’amore a Mons. Franco, per altrettanto cresceva l’odio in quello del Duca!
Ma il buon Vescovo non cessò, per questo, di mostrarsi sempre deferente verso il Duca e Pastore amabilissimo verso il suo gregge.
Ebbe speciale predilezione pel Clero, e massimamente pel nostro Capitolo, ad onta che non vi mancavano degli ingrati, i quali, per secondare il perfido Duca, tanto lo travagliarono, come diremo nel Capo seguente.
NOTE   
[33] Queste due lettere sono riportate nel libro Relazione della persecuzione patita da Mons. Franco, pag. 30-31, Archivio Capitolare.
[34] Molto grano trovavasi raccolto nei sotterranei, messi sulla via del Vaglio, Questa strada antichissima di Andria aveva nel sottosuolo molti fossi ben mantenuti, che servivano a conservare il grano vagliato, per usarne in tempo di carestia. Di qui il nome di Vaglio alla strada ed alla piazza omonima.

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Appartenevano al Capitolo Cattedrale in questo torna di tempo (1560 - 1605) i seguenti personaggi:
Arcidiacono De Peregrinis, cui successe Pietro Paolo Conoscitore [35]; Arciprete Fabio Quarti [36], cui successe Tarquinio Cocco; Cantore Giorgio Filomarino, cui successe Antonio Guadagno; Primicerio Pomponio Morselli; Priore di S. Riccardo Iudicis Angeli [37], cui successe Pietro Di Tota.
Canonici e partecipanti: Vincenzo Mione, Alessio di Fanello, Pietro di Clusolo, Cataldo Gonfalone, Nunzio Casella, Pietro Superbo, Guido Lupicino, Vito Maraldo, Paolo Ant. Guglielmelli, Fabrizio Facinnio, Giovanni Pitoggio, Antonio Guadagno, Agostino Spione, Cola Cinno, Giulio de Pinto, Tota de Tota, Fabio Quarti, Cesare de Aquino, Luigi Palumbino, Rice. Longo, Leonardo de Feo, Avolio de Abatis Cola, Donato Sabatizzio, Prospero Ricco, Nunzio Papalillo, Donato Tesoriero [38], Sebastiano della Sala, Giuseppe De Gioia, Ricc. dell’Abbate, Pietro Paolo Conoscitore, Berardino de Murgigno, Giuseppe Campanile, Ferrante Carbutto, Alesio de Tuccio, Antonio Longo, Andrea de Virolda, Bartolomeo Ciappetta, Giovanni Mavezio, Giovanni De Robertis, Girolamo Paziale, Giov. Donato Guantario, Giuseppe Simone, Agostino Fortunato, Angelo de Angotta, Ferrante de lo Russo, Giuseppe de Tacchio, Riccardo Vurchio, Matteo de Alessio, Martino Marrocchio, Giulio Ciappetta, Giuseppe Picentino, Donato Cinno, Giov. Ant. Marsillo, Giov. Francesco di Rutillo, Agostino dello Conte, Giovanni Mancino, Aurelio Vitagliano (teologo), Francesco di Sotilo, Agostino di Maurantonio, Franc. Ant. De Robertis, Filippo della Manna, Aless. d’Aquino, Francesco Giammaria Zagaria, Giov. Franc. Topputo, Fabio Simone, Giovanni Cesare Fanelli, Riccardo Marchio, Pietro de lo Sito, Giov. Lorenzo di Tucci, Giov. Donato Tinocco, Giov. Loiso Carbutto, Giov. Franc. de lo Cantore, Santo Mistrone, Giov. Franc. Sinesi, Vincenzo d’Inchingolo, Franc. Antonio Durso, Giov. Andrea Cirece, Giov. Franc. Cirece, Ottavio Maralda, Giacomo Vulpone, Giov. Franc. Brudaglio, Marino Ciappetta, Giov. Vinc. Ricca, Paolo d’Aquino, Alfonso Colucci, Giov. Nunzio Rimedio, Alfonso De Robertis, Giov. Gerolamo Loda, Giov. Berardo Palombella, Giov. Vincenzo Manzo, Nunzio Malex, Ottavio Tinocco, Franc. Boccia, Nunzio di Gioia, Nunzio Cesare Vulpicella, Lorenzo di Maurantonio, Riccardo di Tota, Marcello di Lulla [39].
Dal libro di procura del 1575 risulta che tutti i partecipanti (Sacerdoti, Diaconi, Suddiaconi e Chierici) di quel tempo, avevano accenziti tutti i beni capitolari, godendosi, ciascuno, la sua rata di fondi rustici ed urbani, corrispondendo alla massa capitolare un censo annuo, che non oltrepassava i ducati sei.

Sul libro di procura del 1596, sul frontespizio, leggonsi i seguenti versi del Procuratore di quel tempo, il Can. D. Lorenzo di Tucci, che dimostrano come fosse stato egli buon latinista e poeta.

«Ad lectores decasticon

Bis grave portavi patienter pondus onustus
Lustro completo, fida caterva sedet:
Innumeris quoties laboravi exire periclis
Ridèbant fratres, dum mala tanta tuli:
Insuper expertem me novi in fine quotannis;
Quam durum est damnum ferre labore gravi.
At mihi ni cordi foret ars operosa docendi,
Sufficerem solus ferre potenter onus.
Sumite tot juvenes dignos et semper inertes
Ut studeat manus quisquis obire suum.
»

(dal medesimo) Pro socio (Giov. Franc. Brudaglio [40] distichon

Id novit socius, quem fidum pectore semper
Perspexi, el facilem, cuncta referre mihi.
NOTE   
[35] Appartenente a nobile famiglia andriese, ora estinta.
[36] Appartenente a famiglia patrizia andriese, trasferitasi a Barletta nel 1600.
[37] Diverso dal Priore di Porta Santa, che era Pietro di Clusolo, cui successe Nunzio Castella e poscia Antonio Longo. Ecco un’altra prova, che dimostra come il Priorato di Porta Santa (su cui ha il diritto di patronato il Comune di Andria) non va confuso col Priorato di S, Riccardo (su cui pretende di avere anche diritto di patronato il Comune di Andria).
[38] Di nobile famiglia andriese, ora estinta.
[39] Dai libri di procura del 1575 e 1596. Archivio Capitolare.
[40] Era il Brudaglio secondo Procuratore.

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Per quel che riguarda le notizie civili, in questo torno di tempo, principale avvenimento fu la morte di Filippo II, Re di Spagna e di Napoli, avvenuta nel 1598. A lui successe il figlio Filippo III.
Fu questo Cattolico Sovrano che concesse il privilegio delle due Fiere, che annualmente celebravansi sulla piazza, adiacente alla Chiesa di S. Maria dei Miracoli, l’una che si apriva nel primo Sabato di Giugno, in memoria della Invenzione della prodigiosa Immagine, e l’altra a 10 Agosto, in memoria della Consegrazione di quella Chiesa. A quelle due Fiere prendevan parte molti mercanti dei paesi vicini ed anche lontani, per vender le loro mercanzie. Tutta la città si riversava, allora, su quel ameno sito, per fare degli acquisti, e per godere dello spettacolo, che presentava quella vasta piazza, tutta messa a festa. Dal lato prospiciente la Chiesa, erano alcune baracche costruite nel muro, che servivano di riparo ai venditori, e dal lato prospiciente il mezzogiorno, alcuni lunghi sedili di tufo, che servivano per comodità del pubblico [41].
Quelle due fiere furono in uso sino al 1770; abolite, poscia, per alcuni screzii, insorti tra i Padri Benedettini Cassinesi, che amministravano quella Badia, ed il governatore della Città, il quale pretendeva d’esser rilevato da casa, in tutta pompa, dai Padri Benedettini, per recarsi ad aprire quelle fiere. Nel 1772, trovandosi assente il Governatore della città, i Benedettini non credettero doversi incomodare, nel recarsi a rilevare il sostituto Governatore, il Signor Pasquale Spagnoletti, per la inaugurazione della fiera. Di qui un casus belli. Lo Spagnoletti inviava sue proteste; i Benedettini rispondevano coi fatti, inaugurando capoticamente la fiera.
Intanto, ad evitare conflitti, i Benedettini mandarono per aria baracche e burattini (le Baracche erano state costruite dai Benedettini) ed i negozianti dovettero fuggire colle loro mercerie. Così ebbero termine quelle due celebrate fiere.
NOTE   
[41] Quelle baracche, derute dal tempo, e rese indecenti dall’abbandono e dall’uso di pubbliche latrine, furono, qualche anno fa, chiuse a muro dal proprietario di quel fondo, il nobiluomo Sig. Francesco Ceci. Quei sedili, resi ancor essi indecenti, furono dal proprietario di quel fondo, il Sig. Sebastiano Agresti, nostro amatissimo genitore, demoliti.

[tratto da “Il Capitolo Cattedrale di Andria e i suoi tempi” di M. Agresti, tipi Rosignoli, Andria, 1912, Vol.I, cap.X, pagg.198-223]