Arredi tombali o ecclesiastici?

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Le tombe delle Imperatrici ad Andria

 
traduzione in italiano dall'originale di Arthur Haseloff (1872-1955)

“Die Kaiserinnengräber in Andria
Ein beitrag zur apulischen kunstgeschichte unter Friedrich II

Editore Loescher & C.°, Roma, 1905.

 

Arredi tombali o ecclesiastici?

Gli uomini che, ispirati dai ricordi degli Hohenstaufen, decisero di spalare la le macerie della chiesa inferiore, partirono dal presupposto che tutto ciò che il terreno avrebbe dato loro in termini di resti monumentali doveva correlarsi con le tombe delle imperatrici. Essi erano però lontani dal pensare che la cattedrale di Andria, come ogni altra grande chiesa pugliese, doveva aver avuto un certo numero di opere di arredo ecclesiastico architettonicamente e scultoreamente decorate, come baldacchini d’altare, pulpiti, paraventi di coro, delle quali opere con uno scavo era ancora più probabile che ne venissero alla luce resti. Questo vasto arredo ecclesiastico poteva essere portato alla luce al pari degli attesi monumenti funerari.

Da questo punto di vista i due grandi capitelli della chiesa superiore, già associati alle tombe al tempo di d’Urso e ancora recentemente, vanno esclusi dai frammenti scultorei delle tombe. Né il loro stile né le loro dimensioni potevano appartenere al baldacchino che abbiamo sopra descritto.
Numerose osservazioni e somiglianze nelle dimensioni e nel carattere stilistico rendono probabile la loro appartenenza ad un tabernacolo d’altare. Il più antico ciborio superstite in Puglia è quello di S. Nicola a Bari, realizzato intorno alla metà del XII secolo su modelli romani. Questo ciborio divenne fondamentale per la Puglia: nella cattedrale di Bari ce n’era un’imitazione sopra l’altare maggiore, un secondo più piccolo sopra l’altare di Giovanni Battista; un altro nella cattedrale di Bitonto, ed infine il tabernacolo dell’altare maggiore del Duomo di Barletta (34) che è da annoverare tra i meno antichi della serie. Del ciborio della Cattedrale di Bari sono sopravvissute solo singole parti, tra cui tre capitelli (Fig. 12), le cui lastre superiori misurano ciascuna 47,5 cm quadrati.

Fig. 12. Capitelli dal ciborio della Cattedrale di Bari.
[Fig. 12. Capitelli dal ciborio della Cattedrale di Bari.]

Al contrario, i capitelli di Andria sono ovviamente molto più piccoli (42 cm.), ma non va dimenticato che il ciborio della cattedrale di Bari era probabilmente il più grande del suo genere. Nel ciborio di S. Nicola la lastra sopra il capitello misura solo cm 41,5 circa. I capitelli Baresi sono stati molto apprezzati da Bertaux (35), tra essi il più interessante è quello che unisce figure umane e draghi con foglie in modo davvero fantastico. Tale capitello è opera del maestro Alfano da Termoli; ma lo stile non è suo personale, esclusivo, perché l’unico capitello superstite del tabernacolo della cattedrale di Bitonto, ad esso strettamente imparentato e di proprietà del conte Rogadeo de Torrequadra (36), è un’opera di Gualtiero de Foggia dell’anno 1240. Quest’ultimo oggi si accosta al capitello dalle forme fantastiche andriesi nella stilizzazione, nell’uso dei draghi sopra una ghirlanda di foglie e nell’ornamento della lastra superiore.

Il tabernacolo di Bitonto è datato da un’iscrizione all’anno 1240; quello Barese è correttamente collocato dal Bertaux intorno al 1230 e il carattere stilistico, a mio avviso, smentisce con sufficiente certezza l’ipotesi di Nitto de Rossi secondo cui sarebbe stato realizzato nel XIV secolo. I capitelli di Andria apparvero poco più tardi, intorno alla metà del secolo [XIII]. È importante per la datazione il fatto che tende già allo stile bizzarro delle opere più recenti, come alcuni capitelli del tabernacolo e dell’ambone della cattedrale di Barletta, opere di un maestro innominato della seconda metà del Duecento, che uniscono gusto eclettico e tecnica virtuosa e accosta capitelli di stile antico o del primo gotico francese a quelli di indirizzo fantastico (Fig. 13).

Fig. 13. Due capitelli dal Ciborio della Cattedrale di Barletta.  (foto Gargiolli)
[Fig. 13. Due capitelli dal Ciborio della Cattedrale di Barletta. (foto Gargiolli)]

Bertaux cercò in influssi d’oltralpe le radici di quest’ultimo indirizzo, egualmente distante dai capitelli antichi e bizantini quanto dal primo germoglio gotico. Fortunato il suo riferimento ai capitelli del pulpito del Duomo di Spalato (37). In effetti lì si trovano capitelli di draghi, la cui somiglianza con i Baresi e i Bitontini non può essere una coincidenza. Bertaux lasciò aperta la questione se lo studio dei modelli nordici fosse passato dalla costa illirica a quella adriatica o viceversa. Vi si possono presumere strette correlazioni. Il pulpito di Spalato è esagonale e in Puglia esistevano diversi pulpiti poligonali. Quello Tranese è andato distrutto, ma la descrizione suggerisce una somiglianza con quello di S. Marco: pianta poligonale, lastre di marmi pregiati, limitazione della decorazione scultorea alla figura portante del leggio. Tanto più che la pianta poligonale rimase una peculiarità della cerchia adriatica – di derivazione bizantina – finché non passò nell’arte toscana con Niccolò Pisano. Forse il pulpito della Cattedrale di Barletta, che non si è conservato nella sua composizione originaria, era particolarmente vicino ai parapetti spalatini con la sua formazione esagonale e la sua struttura colonnare. Ma detta struttura colonnare, nel profilo degli archivolti e dei costoloni della volta, così come nella posizione uniforme dei capitelli, è così vicina al sentimento nordico che nessuna delle sculture apule può aver svolto il ruolo di mediatrice, così come viceversa – per ragioni cronologiche – lo stesso pulpito spalatino non può aver influenzato il pulpito apulo di Alfano di Termoli e Gualtiero di Foggia.
Al di là della questione dell’ingresso dell’elemento nordico, le origini di questi due artisti offrono una chiara indicazione della derivazione di alcune loro peculiarità stilistiche. Se guardiamo il cornicione principale del Duomo di Foggia, vi ritroviamo la stessa tecnica ardita, il libero intaglio di animali e piante che sembrano appesi alle mensole e ai pannelli del cornicione, una pletora di draghi e mostri che ricordano il mondo dei doccioni di Notre-Dame a Parigi. Anche Bertaux ha notato queste connessioni, soprattutto nei lavori più recenti del gruppo; lo vediamo nelle loro prime opere in Terra di Bari. Naturalmente questi artisti furono fortemente influenzati dalla scultura di Bari e dei suoi dintorni. Lo dimostra non solo il capitello angelico del Museo di Bari, che ricalca il ciborio di S. Nicola, ma anche il secondo capitello leonino di Andria, molto simile a uno dei capitelli dell’iconostasi di S. Nicola a Bari, su cui campeggiano piccoli leoni su una doppia ghirlanda di foglie. Capitelli simili non sono rari nell’Italia meridionale. Molto vicino ad Andria ne troviamo uno con gli arieti nel museo della chiesa inferiore di Trani.

Il risultato è che i due capitelli marmorei della chiesa superiore di Andria appartengono all’incirca al periodo in cui vi fu sepolta l’imperatrice Isabella. La qualità dell’opera non sarebbe indegna di una tomba imperiale. Se abbiamo utilizzato come paragone soprattutto i tabernacoli d’altare, non dobbiamo dimenticare che troviamo Anseramo di Trani, l’ideatore del tabernacolo minore della cattedrale di Bari, una volta come protomagistro imperiale nella costruzione del castello di Oria, un’altra volta come l’artista di una tomba a Bisceglie.
Sebbene non si possano sollevare obiezioni stilistiche, ci sembra più probabile vedere nei capitelli di Andria i resti di un tabernacolo che di una tomba, perché le dimensioni del primo sono ideali, mentre è meno convincente l’uso di capitelli così possenti per una tomba. Naturalmente non si può andare oltre le congetture finché non si trova alcun frammento corrispondente. –

Dopo aver scartato i due grandi capitelli, diventa di primario interesse il baldacchino in pietra calcarea, perché i frammenti marmorei che la chiesa inferiore ha offerto sono troppo pochi e troppo incoerenti per meritare una considerazione approfondita. Tuttavia i pannelli con la rosa nella ghirlanda di vimini e il leone di San Marco sono inseparabili dal baldacchino; il primo per il trattamento stilisticamente identico della rosa, il secondo per la somiglianza di materiale, tecnica e stile del rilievo. La parte inferiore della figura seduta non appartiene con la stessa certezza a questo insieme. Inizialmente ignoreremo la questione di completare ciò che manca, poiché per noi la cosa più importante è determinare il momento della creazione: è possibile che [i reperti] cronologicamente appartengano alle tombe delle imperatrici?

Il carattere stilistico di questi rilievi in pietra calcarea è completamente diverso da quello dei capitelli in marmo. Ci sono opere che testimoniano il gusto personale e la tecnica virtuosa di un artista, qui [invece] ci sono realizzazioni più modeste che si muovono lungo linee tradizionali, sono determinate dal tipo del materiale e rivelano tuttalpiù la maestria di un esperto scalpellino.
Per una valida attribuzione, le realizzazioni eleganti e alla moda, come gli arredi da chiesa confrontati sopra, passano in secondo piano; indizi migliori ci vengono forniti dalla scultura decorativa dell’architettura pugliese, il cui sviluppo è più lento, con una tenace aderenza alle forme antiche. Naturalmente tali peculiarità comportano la difficoltà di determinare un limite temporale più preciso per i rilievi, difficoltà che ovviamente aumenta quanto più basso è il grado di personalità artistica dell’esecutore.

Secondo la nostra comprensione dell’insieme dei frammenti del baldacchino, la sua parte anteriore era decorata con un fregio di rose. Le rosette grandi a sette petali e quelle piccole a cinque petali non hanno nulla di insolito; ciò che è notevole è il modo in cui questi fiori sembrano essere organicamente attaccati alla banda ondulata, senza che accanto ai fiori appaia alcuna forma di foglia. Qui la fascia ondulata si colloca in una lavorazione intermedia tra quella a viticcio e l’intreccio a fascia, nelle cui anse, fin dai tempi degli antichi portali laterali della cattedrale barese, era rimasto comune l’inserimento inorganico del rosone e delle relative strutture stellari.
Per quanto questo ornamento a rosetta non abbia nulla di speciale, la flessibile fantasia dei fortunati scopritori ha potuto vedervi un indizio per confermare le loro ipotesi sulla tomba. Cosa potrebbe significare la rosa se non lo stemma inglese? E potrebbe essere un caso che sulla piastra curva, su cui torneremo tra poco, la stessa rosa si trovi al centro di un reticolo circolare? Non era forse quello il nodo d’amore che avvolgeva la rosa inglese, simbolo della sfortunata moglie di Federico II, morta giovane? Chi su un arco ha visto la rosa inglese non ha potuto fare a meno di vedere su un altro l’aquila degli Hohenstaufen. E questa affermazione non può essere respinta con leggerezza come le fantasie del nodo d’amore e della rosa inglese.
Il rapporto simbolico-araldico dell’aquila con la famiglia imperiale degli Hohenstaufen è indubbio. Non è senza un profondo significato che l’aquila, quella romana con le ali spiegate, compare sul bavero degli Augustali di Federico II. Essa ci appare significativamente in luoghi di spicco degli edifici federiciani: l’aquila frontale con le ali spiegate è sulla chiave di volta del portone principale del castello di Bari; analogamente è sulle mensole dell’unico arco superstite del Palazzo Imperiale di Foggia; sul pulpito di Bitonto l’aquila è posta almeno in un angolo nella raffigurazione della famiglia imperiale (38), pur se ivi è in vista laterale ad ali chiuse; nella statua di Capua, posta presso la famosa porta trionfale di Federico, questi apre la tunica e mostra l’aquila imperiale al posto del cuore. Tali esempi monumentali non lasciano dubbi sull’uso simbolico dell’aquila sotto Federico II, allorché l’aquila si ripete in molti luoghi e in molte forme diverse negli edifici del periodo degli Hohenstaufen; se, ad esempio, i capitelli del castello di Bari raffigurano l’aquila ad ali chiuse e l’aquila ad ali aperte, ciò evidenzia la memoria dell’aquila imperiale, anche se l’applicazione nei singoli casi è puramente decorativa.

Non va però dimenticato che l’aquila, oltre al significato simbolico imperialistico, ha anche un suo significato nell’arte ecclesiastica, che si condensa prevalentemente nella figura del simbolo dell’Evangelista [Giovanni]. Infatti è proprio l’arte del sud-Italia ad aver trattato questo argomento con la massima cura e amore; le aquile [simbolo dell’Evangelista] come quelle in basalto bruno del pulpito di Ravello, realizzate nel 1272 da Nicolaus, figlio del protomagister imperiale Bartolomeo di Foggia, sono tra le più belle raffigurazioni di animali di tutti i tempi. Anche da questo punto di vista l’aquila doveva essere inclusa nel tesoro dei motivi della scultura sacra, così che le numerose raffigurazioni sui capitelli e sui portali riflettono principalmente il simbolismo ecclesiastico.

Oltre a questi due motivi per raffigurare le aquile, che affondano le loro radici nel simbolismo ecclesiastico e in quello secolare, se ne aggiunge ora un terzo, particolarmente importante nel caso specifico: la preferenza di collocare gli uccelli in coppia nello scrigno dei motivi dell’arte orientale, motivi coerenti con l’arte plastica decorativa bizantina, ma soprattutto con la tessitura. Sono proprio i tessuti di seta del tardo Medioevo, con la loro tendenza alla leggerezza e alla grazia, a ricordare l’arco di Andria. Confronta la veste dell’imperatore Enrico VI dalla sua tomba nella cattedrale di Palermo e altri esempi di illustrazioni forniti da Dreger (39).

Fig. 14. Paravento del coro, ora sul pulpito della Cattedrale di Bitonto. (foto Moscioni)
[Fig. 14. Paravento del coro, ora sul pulpito della Cattedrale di Bitonto. (foto Moscioni)]

Tali motivi orientali si ritrovano più volte nella scultura pugliese del XII e XIII secolo. Bertaux ha già segnalato uno degli esempi più ricchi. Sul pulpito della Cattedrale di Bitonto, opera del Protomagister Nicolaus del 1229, è ora attaccata una lastra del coro (Fig. 14), che appartiene senza dubbio allo stesso periodo. I due campi di questo pannello – circondati da rosette, palmette e strisce di canniccio – contengono ciascuno la rappresentazione di un albero, in ognuno dei cui rami rigorosamente simmetrici sono attaccate diverse coppie di uccelli. La base del rilievo risulta scavata e riempita con cera colorata in modo che il disegno risalti brillantemente.

Fig. 15. Portale laterale di S. Nicola a Bari.
[Fig. 15. Portale laterale di S. Nicola a Bari.
(foto scattata recentemente, simile a quella del libro)]

Pannelli simili si trovano nella scultura veneziana in rilievo, nei quali l’antico motivo dell’albero è stato spesso dotato di un disegno così ricco di uccelli posati in coppia.
Nello stesso arco troviamo anche i paralleli per un altro motivo rilevante: gli uccelli sui lati di una fontana. Il portale laterale di S. Nicola a Bari, presenta nella fascia a rilievo attorno alla lunetta una raffigurazione di battaglia riferita all’arte longobarda: alla base [di detta fascia] corre la cornice dell’architrave della porta, sulla quale sono scolpiti in regolare successione uccelli accanto ad una fontana a forma di pigna poggiante su colonna tortile (40), molto simili per postura e stilizzazione a quelli andriesi (Fig. 15). Una datazione più precisa di questo portale presenta notevoli difficoltà, poiché i singoli componenti ovviamente non sono contemporanei o almeno non nella composizione originariamente prevista. L’architrave e gli stipiti, con le loro ricche decorazioni a viticci che crescono da vasi, differiscono notevolmente dagli archivolti; essi, mescolati ad altre raffigurazioni di animali e persone, mostrano ripetutamente il motivo degli uccelli disposti a coppie che beccano i frutti. Dal punto di vista stilistico, la cornice più stretta della porta può essere collegata al portale principale, che ha vivaci influssi bizantini e si collega ai portali di S. Marco a Venezia, così che la questione già accennata sopra, se si possano ipotizzare collegamenti con l’arte bizantina di Venezia, rimarrebbe indiscussa.

Bertaux colloca questo portale (senza ragioni convincenti) alla fine del XII secolo. In questo caso le parti appartenenti all’archivolto, confrontabili con la Porta della Pescheria di Modena della prima metà del XII secolo, sarebbero da ritenersi più antiche; anche il fregio degli uccelli sarebbe quindi collocabile nel XII secolo.

Fig. 16. Portale principale della cattedrale di Ruvo – part.
[Fig. 16. Portale principale della cattedrale di Ruvo – part.
(foto scattata recentemente, simile a quella del libro)]

Un altro esempio, meno esteso, di tale ornamento nella scultura pugliese si trova sul portale principale della Cattedrale di Ruvo. Al centro del penultimo archivolto, al posto della consueta palmetta, è presente una coppia di uccelli che volgono la testa verso il centro e tengono insieme una foglia a forma di acino d’uva (Fig. 16). Per il portale non è possibile indicare una datazione esatta, ma il fatto che qui non si possano ignorare gli influssi nordici, poiché la costruzione del duomo si basa in gran parte su forme gotiche, non lascia dubbi sul fatto che sia stato costruito nel periodo degli Hohenstaufen.

Il confronto dei dettagli di questi fregi di uccelli con quelli di Andria porta ancora una volta all’osservazione di differenze stilistiche. Gli uccelli Andriesi sono trattati in modo molto più semplice e sommario degli altri. A proposito, non sono completamente simili; c’è un frammento sulla metà sinistra dell’arco che rende gli uccelli un po’ più leggeri e allungati degli altri. L’impressione è che l’austerità romanica sia perduta, come completamente spogliata dal battito d’ali degli uccelli [scolpiti] sul terzo lato del baldacchino.

Fig. 17. Secondo pulpito nella Cattedrale di Bitonto. (foto Moscioni)
[Fig. 17. Secondo pulpito nella Cattedrale di Bitonto. (foto Moscioni)]

In sintesi, la lavorazione bidimensionale e grafica dei tre fregi nonché la scelta dei motivi li fanno apparire più antichi di quanto non siano in realtà. Lo stesso vale per le sculture associate.
Il cosiddetto “nodo d’amore” - due cornici quadrate allungate a cerchio - che corrisponde esattamente al fregio del rosone, è uno degli antichi motivi di intreccio che, proveniente dal tesoro di ornamenti del periodo bizantino-longobardo, sono più diffusi nella scultura romanica pugliese e sono stati adottati da tempo più che in qualunque altra zona d’Italia. Sarebbe uno spreco di sforzi provare a dimostrare questa affermazione con molti esempi. Ci riferiamo anche qui agli arredi sacri della Cattedrale di Bitonto. Il grande pulpito, datato 1229, è ricco di tali motivi; su quello più piccolo, non datato, ma indubbiamente contemporaneo, anche i grandi pannelli della facciata sono decorati con motivi a rete così antichi, che però hanno acquisito un carattere nuovo e peculiare attraverso l’accostamento con una decorazione vitrea presa in prestito dagli arabi (Fig .17).
Oltre a questo esempio, un pannello come l’Andriese non ha nulla di eclatante, almeno ai tempi di Federico II, soprattutto perché abbiamo quasi esattamente lo stesso motivo, ma su un monumento più recente, il parapetto del pulpito della chiesa di Santa Annunziata a Minuto (41), dove al posto della rosa si ritrova lo stemma della famiglia Spina; in Puglia non possiamo fornire nulla di esattamente coerente. Ma, per citare un motivo simile, segnaliamo una mensola in corrispondenza del passaggio di collegamento da matroneo a matroneo all’interno della parete d’ingresso di S. Nicola a Bari; qui c’è una maglia circolare formata da tre anelli attaccati insieme.

Il carattere antico e austero di tutti questi pezzi ornamentali ci appare ancora più evidente nel pannello del leone e nella figura seduta, così come spesso ci sorprende la debole esecuzione dell’aspetto figurativo nelle magnifiche opere decorative della scultura pugliese. Per ragioni stilistiche e tecniche non vi sono dubbi su una approssimata simultaneità di queste sculture e del baldacchino, anche se si volesse negare un loro più stretto legame.
In questo contesto assume particolare significato il resto della figura seduta, in quanto contiene un pezzo confrontabile nella chiesa superiore di Andria, importante per la datazione. Nel transetto destro una piccola scalinata conduce all’organo; a questo punto sono venute alla luce le suddette parti di una finestra binata bassa (Fig. 18), i cui archivolti e colonne sono visibili verso il lato della scala stretta e semibuia. Uno di questi capitelli è figurativo, con quattro figure accovacciate, scolpite quasi liberamente, che sostengono la copertura.
Il confronto con il frammento porta a concludere uno stretto rapporto stilistico: tanto più che l’orlo con la sua ornamentazione triangolare ricorre nelle figure dei capitelli. L’idea più ovvia è vedere nel frammento il resto di un secondo capitello simile, un pezzo di una figura d’angolo che era stata eliminata. Tuttavia, questa ipotesi non è necessaria, poiché la scultura pugliese di questo periodo utilizza spesso figure accovacciate anche in altri luoghi. L’indizio che otteniamo per la datazione è tanto più importante: il secondo capitello appartenente all’arco mostra i bulbi di un capitello del primo gotico in una forma pesante e goffa, e così qui siamo nuovamente condotti all’epoca di Federico II.

Fig. 18. Capitelli nella Cattedrale di Andria.    Finestra con capitelli rinvenuta nel transetto della Cattedrale. (disegno E.Affaitati)    Capitello con telamoni accovacciati
[Fig. 18. Capitelli nella Cattedrale di Andria. - Finestra con capitelli rinvenuta nel transetto della Cattedrale. (disegno E.Affaitati) - Il capitello con telamoni accovacciati]

Il motivo di tutti questi confronti è stato quello di stabilire a più riprese il carattere antico delle sculture del baldacchino e dei relativi frammenti; stanno al di fuori della cerchia delle opere alla moda, il cui sviluppo può essere tracciato di decennio in decennio. Ciò rende la determinazione del tempo più difficile e meno precisa, così pure la demarcazione dal periodo normanno.
Tuttavia, l’indagine sembra averci fornito indizi sufficienti che indicano l’origine al tempo degli Hohenstaufen. Abbiamo più volte evidenziato la probabilità che la Cattedrale di Andria sia stata edificata all’epoca di Federico II. Se fosse chiaro che la figura seduta apparteneva al baldacchino, potremmo trarre la conclusione che gli scalpellini coinvolti in questa costruzione o ristrutturazione hanno realizzato anche il baldacchino. Ciò spiegherebbe il suo carattere particolarmente modesto, che lo differenzia dalle magnifiche opere marmoree dello stesso periodo dei luoghi vicini.

Lo studio delle quattro colonne e dei loro capitelli, che un tempo sostenevano il baldacchino, fornirebbe una prova inconfutabile di queste affermazioni, se il carattere fondamentalmente diverso di queste sculture non sollevasse ripetutamente preoccupazioni sulla loro affiliazione. Lì i fregi arcaici e romanici intorno agli archi non profilati, qui capitelli e basi le cui forme si spiegano solo con l’influenza dei primi modelli gotici francesi. Si tratta certamente di opposti, la cui sbilanciata unione in un’unica opera richiede un’attenta chiarificazione. Il fatto che secondo le proporzioni l’unione sia possibile e che la presenza dei tasselli lo dica, non è di per sé una prova. L’origine dalla chiesa inferiore sarebbe importante se potesse essere provata.
Non possiamo fare a meno di ricordare le parole del d’Urso, il quale, durante la sua visita alla chiesa inferiore, vide due colonnine in mezzo ai resti scultorei che riteneva facenti parte della tomba: «le quali andavano a finire, sostenendo una base anco di delicato lavoro». Non avrebbe potuto usare queste parole per descrivere i particolari fusti delle colonne del vestibolo, ma durante gli scavi non ne furono rinvenuti altri.
[I fusti] Furono portati nel frattempo a Casa Montenegro, e i due mutilati sono identici agli altri due dei quali dice il d’Urso: «scoperchiate mostravano aver sofferta ingiuria nel crollamento dell’edificio superiore?» Le espressioni del D’Urso sono troppo generiche, e se nessuna memoria umana ricorda il trasferimento delle colonne, qui sarà impossibile arrivare ad una qualche certezza; ma la probabilità che le colonne viste dal d’Urso siano identiche a quelle della Casa Montenegro ci sembra molto plausibile.

Cronologicamente queste colonne possono essere accostate al baldacchino, a condizione che gli scalpellini che eseguirono il lavoro siano stati diversi o almeno abbiano seguito modelli completamente diversi.
Ritroviamo gli stessi contrasti nell’unica cattedrale pugliese che può essere considerata una creazione di Federico II: quella di Altamura. Secondo quanto riportato nel documento di Federico II del settembre 1232, l’edificio dovette essere sostanzialmente ultimato in questo periodo (42). Le peculiarità architettoniche sono qui irrilevanti, ciò che per noi è essenziale è il duplice carattere delle parti architettoniche scolpite dell’edificio (43): alcune in stile antico e autoctono, altre nelle forme del primo gotico per le quali i mediatori sono probabilmente i Cistercensi; ma non sono questi punti di contatto generali ad essere cruciali, bensì lo stretto rapporto dei singoli capitelli, in questa seconda direzione, con quelli di Andria.

Fig. 19. Capitello dalla tribuna del Duomo di Altamura. (foto Moscioni)
[Fig. 19. Capitello dalla tribuna del Duomo di Altamura. (foto Moscioni)]

Qui [nella cattedrale di Altamura] è diffuso un capitello con una doppia corona di foglie, le foglie della corana inferiore recano ciascuna una rosetta, mentre nella fila superiore due foglie stanno sempre negli angoli (Fig. 19) (44).
Non vi è dubbio che il capitello con la rosetta di Andria sia collegato a questi per affinità scolastiche. Dalle fotografie non è possibile stabilire se paralleli così esatti si possano trovare per gli altri capitelli di Altamura, ma in ogni caso vi compaiono più volte forme affini. Intanto i capitelli di Andria sembrano essere più ricchi e realizzati con maggiore attenzione.

Rimane tuttavia una questione aperta: se i rapporti tra Altamura e Andria siano diretti o se tale esatta somiglianza dei capitelli possa essere dimostrata diversamente. In ogni caso, la maggior parte dei capitelli del primo gotico in Puglia sono di tipo diverso, soprattutto nel Castel del Monte, presso Andria. Per la nostra indagine resta il vantaggio di poter utilizzare i capitelli e le colonne come testimonianza indubbia dell’attività artistica di Federico ad Andria.

Ma a quale monumento potevano appartenere questi diversi resti? Costituiscono una o due tombe o fanno parte dell’arredo liturgico della chiesa?
Il punto di partenza per queste discussioni deve essere nuovamente la volta [dei baldacchini]; la questione dell’affiliazione dei pilastri è irrilevante. I restanti frammenti possono essere sistemati secondo necessità: un baldacchino di tomba comprende un sarcofago; un ciborio comprende pale d’altare e tramezzi del coro, mentre un pulpito comprende pannelli di parapetto. Queste sono a grandi linee le possibilità.

I primi tentativi di ricostruzione ad Andria, tanto istruttivi quanto fuorvianti, ipotizzarono due volte [baldacchini] funerarie di forma rettangolare allungata e ne costruirono una, lasciando per l’altra solo scarsi resti.

Ipotetica ricostruzione del baldacchino sulle tombe secondo Ettore Bernich.    Costruzione del baldacchino, che fu effettuata secondo Ettore Bernich.
[Ipotetica ricostruzione del baldacchino sulle tombe e sua costruzione allora effettuata secondo le indicazioni di Ettore Bernich. (immagini tratte dallo studio citato di S. Fulloni)]

Chiaramente non vi è alcuna giustificazione per una tale divisione dei reperti. Apparve allora evidente l’impossibilità di costruire su una pianta allungata; con questo presupposto, infatti, i colmi della volta portavano non a uno, ma a due punti di intersezione. Da ciò risulta chiaro – e lo conferma la misurazione degli angolari – che la volta era realizzata su pianta quadrata o quasi quadrata. Resta però incerto se gli archi fossero a tutto sesto o a sesto acuto. In nessun caso è presente la chiave di volta dell’arco. Si presentano le possibilità di un arco a tutto sesto (rialzato), che è accompagnato dal secondo arco a forma di mezzaluna (privo di ornamenti), oppure un collare interno e un arco a sesto acuto esterno, o infine un arco a doppio sesto acuto. Di conseguenza, la larghezza dell’arco non può essere determinata con sufficiente certezza.
Supponendo che si trattasse di archi a tutto sesto, allora, secondo un calcolo valido del professor Borrmann, le dimensioni degli archi adiacenti risultano dalle dimensioni dei due angolari meglio conservati: 1,33 o 1,35 m (angolo dell’aquila) e 1,47 o 1,40 m (angolo della rosetta). L’uguaglianza approssimativa delle larghezze dell’arco è quindi confermata anche da questa misurazione. È molto probabile che le piccole differenze siano dovute a misurazioni imprecise dei pezzi piccoli e danneggiati, e che la larghezza dell’arco fosse quindi costantemente intorno a 1,40 m.

Quindi [si sarebbe trattato di] una volta-tetto con una lunghezza di lato inferiore a 1 metro e mezzo in pianta, decorata su tre lati con strisce ornamentali larghe 13 cm, liscia sul retro, rivestita all’interno con una volta a crociera costolonata. Agli angoli erano presenti degli avvallamenti che evidentemente contenevano ulteriori decorazioni, tra cui la scanalatura che in uno degli angoli sale più in alto. Ma non abbiamo idea di come fosse l’estremità superiore, se fosse diritta o a timpano.

Potrebbe questo baldacchino stare sopra una delle tombe nella chiesa inferiore? Solo le dimensioni possono negarlo: [in effetti] nessuna delle tombe ha spazio sottostante, e così è stato anche nel tentativo di ricostruzione. Inoltre, la pianta quadrata contraddice la forma di una tomba. E in terzo luogo: come potrebbe essere concepibile un collegamento tra la tomba incastrata nel terreno e la volta? Per quanto riguarda lo sviluppo di una tomba monumentale medievale in Italia, le due componenti principali, sarcofago e baldacchino, sono sempre incluse, sia che si tratti di un monumento a sé stante o murale.

Sembra che il periodo carolingio fino alla fine del dominio degli Hohenstaufen abbia prodotto pochissimi monumenti funerari di rilievo artistico, soprattutto in Italia; fu solo alla fine del XIII secolo che l’argomento fu trattato ovunque con rinnovato zelo. Anche il sarcofago scultoreamente decorato, così diffuso alla fine dell’antichità e nell’alto medioevo, scomparve con la fine delle fasi bizantina e longobarda.
Nell’area che qui ci interessa ci avrebbe un solo esempio contemporaneo: il sarcofago di Guisanda proveniente da S. Scolastica a Bari, ora conservato nel museo della città. Si tratta di un semplice sarcofago in cui riposa una dama normanna. La parete frontale è circondata su tre lati da un fregio di viticci in cui sono intrecciate figure di animali; il campo centrale contiene la pomposa iscrizione a grandi lettere:

SPLENDIDA CLAMANDA SEVASTI DOMNA GVISANDA
HOC FORE MARMOREVM IVSSIT MAVSOLEVM.

Non si sa altro di Guisanda e della durata della sua vita. Il nome e lo stile del monumento non lasciano dubbi sulla sua edificazione in epoca normanna.

Non sappiamo se il sarcofago della Guisanda avesse una struttura più ampia. In ogni caso la tipologia del sarcofago (45) sotto il baldacchino era già stabilita per una tomba principesca dell’epoca. Lo incontriamo per la prima volta presso l’unica tomba superstite della casa normanna in S. Trinità a Venosa.

Fig. 20: Tomba di Alberada in S. Trinità a Venosa.      Fig. 21: tomba del Cardinale Alfanus in S. Maria in Cosmedin a Roma.
[Fig. 20: Tomba di Alberada in S. Trinità a Venosa - Fig. 21:tomba del Cardinale Alfanus in S. Maria in Cosmedin a Roma.]

Per ironia della sorte, la tomba (Fig. 20) di Alberada, moglie rifiutata di Roberto il Guiscardo, è l’unica sopravvissuta († dopo il 1122). Il semplice sarcofago di cipollino con piastra di copertura dal bordo ornato si trova in una nicchia muraria tra due colonne che sostengono un architrave e un timpano.
Lo stesso tipo, del medesimo periodo, si ritrova a Roma sulla tomba del cardinale Alfanus († 1123) in S. Maria in Cosmedin (Fig. 21). L’unica differenza significativa è che le colonne che sostengono il timpano sono poste sul sarcofago.

Oltre a questo tipo di tomba a muro esiste la forma monumentale della tomba alta autoportante sotto il baldacchino. Tali erano i monumenti funerari (distrutti) dei re franchi a Gerusalemme (46), in cui il baldacchino era ancora limitato alla forma più modesta di una struttura bassa o sovrastruttura sopra la bara, se interpretiamo correttamente le povere vecchie illustrazioni; tali sono le tombe dei re normanni di Sicilia, il cui spirito orgoglioso costruì il sarcofago e il baldacchino con il più regale di tutti i materiali, il porfido rosso.

Fig. 22. Tomba dell'Imperatore Federico II nella Cattedrale di Palermo. (foto Alinari)
[Fig. 22. Tomba dell'Imperatore Federico II nella Cattedrale di Palermo. (foto Alinari)]

In queste tombe cerimoniali riposano Ruggero II, Guglielmo I, Enrico VI, sua moglie Costanza e Federico II (Fig. 22). I sarcofagi di Federico II ed Enrico VI però non furono realizzati nello stesso periodo; inoltre quelli destinati per re Ruggero rimasero inutilizzati, e fu solo Federico II a farli portare da Cefalù a Palermo. Sotto Federico II sembra che non fosse più possibile realizzare simili sarcofagi, vuoi perché mancava il materiale, vuoi perché mancavano maestranze abili nel taglio del porfido. La prima moglie di Federico, Costanza d’Aragona, riposa in un antico sarcofago con scene di caccia, e si trova accanto alle tombe viola.

Nessuna tomba è stata conservata per i figli di Federico II. Re Enrico fu sepolto nella Cattedrale di Cosenza, dove la sua tomba in marmo fu distrutta nel 1574 (47). Il corpo di Corrado IV bruciò in un incendio nel duomo di Messina. Manfredi aveva scelto come tomba un antico sarcofago scanalato; quando cadde a Benevento e l’arcivescovo di Cosenza rifiutò di far riposare le sue spoglie in un luogo consacrato, il sarcofago del monastero di Montevergine (48) fu donato a uno dei compagni francesi di Carlo d’Angiò.

Fig. 23. Tomba di Riccardo Falcone in S. Margherita a Bisceglie. (foto Moscioni)
[Fig. 23. Tomba di Riccardo Falcone in S. Margherita a Bisceglie. (foto Moscioni)]

Questo è tutto ciò che sappiamo delle tombe dei membri della Casa Hohenstaufen.
Sarebbe certamente sbagliato aspettarsi in Andria sarcofagi in porfido basati sulle tombe siciliane, che sotto Federico II non erano più disponibili neppure a Palermo. Sarebbe più probabile pensare l’utilizzazione di sarcofagi antichi, ma se questi non erano disponibili non si sarebbero certo tirati indietro nel realizzare un nuovo monumento. Ciò possiamo dirlo con certezza riguardo alla forma artistica: il baldacchino era molto probabilmente per una tomba del genere.
Ciò è suggerito non solo dalla tradizione dei monumenti funebri normanno-svevi, ma anche dal frequente utilizzo di tale stile in altri luoghi nel XIII secolo: sulle grandi tombe indipendenti dei professori a Bologna, sulla tomba del cardinale Fieschi in S. Lorenzo fuori le mura davanti a Roma, sulle tombe Falcone a Bisceglie. Data la scarsità dei monumenti funerari, questi esempi sono doppiamente importanti.
Tuttavia, la forma allungata e rettangolare del baldacchino e il sarcofago sollevato dal suolo sembrano essere caratteristiche essenziali della tipologia tombale. Inoltre, in tutti gli esempi sopra citati, la volta è a timpano e comunque non ad arco. Questo contrasto, apparentemente insignificante, tra la sovrastruttura a timpano o a volta della tomba, si rivela significativo se pensiamo al concetto di “basilicula”, che conosciamo dalla Lex Salica (49). Tuttavia, nel XIII secolo questa vecchia visione era stata chiaramente abbandonata.

I pochi monumenti funebri pugliesi di famiglie illustri sopravvissuti possono fornirci informazioni sufficienti su come sarebbero state probabilmente progettate le tombe delle imperatrici realizzate da artisti locali: le tombe della famiglia Falcone a Bisceglie e quella presso il portale laterale di S. Nicola di Bari. Una di queste tombe, seppur infantile, è opera di Anseramo da Trani, identificabile con il Protomagister della costruzione del castello di Oria.
Più importante per il confronto è la tomba di Riccardo Falcone del maestro Petrus Facitulus di Bari della fine del XIII secolo (Fig. 23). Qui vediamo due simboli evangelisti usati per decorare la parte anteriore del sarcofago, come quelli usati altrove sulle tombe, ad esempio sul sarcofago di Federico II. La tipologia corrisponde sostanzialmente alla tomba dell’Alfano: un sarcofago sul quale sono presenti colonnine che sorreggono un timpano.

Baldacchino, pilastri, fronte del sarcofago con i simboli degli evangelisti –sembra corrispondere perfettamente ai ritrovamenti di Andria! Ma lo studio critico distrugge questa apparenza ingannevole. I sarcofagi non avrebbero mai potuto trovarsi sopra le tombe a pavimento nella chiesa inferiore. E se anche volessimo ipotizzare un cenotafio che altrettanto facilmente potremmo immaginare di costruire altrove, la forma quadrata del tetto-volta sarebbe un ostacolo insormontabile.

Dobbiamo quindi abbandonare l’idea di una tomba e resta da discutere se il baldacchino appartenesse ad un pulpito o ad un ciborio, perché non sono prevedibili altre possibilità. Anche qui il confronto presenta notevoli difficoltà.
Le forme artistiche del baldacchino – questo vale sia per la forma a doppio arco che per i dettagli scultorei – sono più vicine alla scultura decorativa degli edifici pugliesi, come già detto, che agli arredi sacri, che di solito sono eseguiti con molta attenzione e magnificamente, per i quali la migliore qualità delle lavorazioni e la preziosità del materiale è la regola. Inoltre, soprattutto nelle tipologie più semplici, ciborio e pulpito si somigliano così strettamente che è impossibile attribuire i frammenti all’uno o all’altro.
Nel nostro caso va inoltre sempre tenuto presente che i frammenti, il baldacchino poggiante su colonne, la piastra leonina, l’ornamento circolare ad arco e la figura seduta, possono appartenere a molte opere diverse ma simultanee. Probabilmente sarebbe possibile sistemarli tutti in un unico posto solo se vi vedessimo i resti di un pulpito.

Fig. 24. Pulpito in S. Sabino a Canosa. (foto De Mattia)
[Fig. 24. Pulpito in S. Sabino a Canosa. (foto De Mattia)]

Negli ultimi secoli in Puglia hanno ripulito i pulpiti così a fondo che per i secoli XI-XIII è rimasto poco più che un esempio per ogni secolo. Il pulpito di Canosa, collocato dal Bertaux (50) verso la fine dell’XI secolo, dallo Schubring (51) all’inizio del XII, quello di Troia (1169), quello di Bitonto (1229), insieme ai resti del relativo pulpito della cattedrale di Bari ed infine il pulpito del Duomo di Barletta (seconda metà del XIII secolo), costituiscono l’intero insieme dei monumenti.
Dal confronto emerge che tutti questi pulpiti rappresentano la stessa tipologia nonostante le grandi distanze temporali: la pedana con struttura aggettante su cui un’aquila sorregge il leggio poggia su colonne autoportanti; la forma della pianta può essere quadrilatera o esagonale; nei pulpiti di Canosa e Trani (52) (quest’ultimo distrutto) gli archivolti sono accesi solo tra le colonne e la pedana. In modo simile, i due grandi gruppi di pulpiti abruzzesi e campani variano tra l’aggiunta o la rimozione di archivolti.
I nostri pezzi d’arco possono quindi appartenere ad una tipologia di pulpito rinvenibile in Puglia. Ciò che è insolito, tuttavia, è la curvatura; certo, pulpiti ad arco si trovano, se non in Puglia, altrove. In generale, ovviamente, l’idea prevalente è che le volte a questo punto non sarebbero state adatte; non c’erano né ragioni costruttive che rendessero desiderabile una curvatura né ragioni estetiche, perché la parte inferiore della piattaforma non è visibile allo spettatore. Tuttavia, soprattutto se consideriamo il più antico dei pulpiti apuli, quello di Canosa (Fig. 24), con la sua alta sottostruttura a baldacchino, si può ben immaginare che il baldacchino di Andria potesse appartenere ad un analogo pulpito a volta. La forma alta e slanciata del pulpito non è più documentabile altrove in Puglia in tempi recenti, ma perché non avrebbe dovuto continuare ad esistere in esemplari perduti?

Fig. 25. Pulpito di S. Maria in Valle Porclaneta 1150. (foto Gargiolli)
[Fig. 25. Pulpito di S. Maria in Valle Porclaneta 1150. (foto Gargiolli)]

Non si può negare una certa somiglianza tra il pulpito di Canosa [qui una foto del 2023] e il nostro baldacchino; naturalmente, nonostante la sua semplicità, è più fine nella lavorazione del marmo e più ricco nella profilatura. L’aggiunta dei frammenti della scultura cambierebbe ovviamente la tipologia in modo significativo. La placca del leone doveva essere fissata al parapetto. I simboli degli evangelisti sono ormai tra le decorazioni più apprezzate per i pulpiti, riscontrabili in diverse zone d’Italia: in Veneto, nel Nord Italia, Toscana, Campania, Abruzzo e forse anche Bari (documenti al museo). Inoltre, il pezzo curvo potrebbe essere collocato nel prolungamento curvo del pulpito; si confrontino i simili pannelli ornati sui pulpiti di S. Maria in Valle Porclaneta (1150, Fig. 25), di Moscufo (1159) e Cugnoli (1166), tre pulpiti d’Abruzzo, che Bertaux accosta al tipo canosino (53).

Infine, le figure di sostegno (accovacciate) sotto l’aquila del leggio sono la regola (Bari, Bitonto, ecc.), e i già citati pulpiti abruzzesi mostrano un uso particolarmente ricco: tali figure sono poste anche agli angoli del parapetto.

Si otterrebbe, così, la ricostruzione di un pulpito che si riferirebbe alla tipologia canosina, ma presenterebbe una decorazione plastica più ricca, nello spirito dei pulpiti abruzzesi e che comunque presenterebbe poca somiglianza con gli eleganti pulpiti baresi e limitrofi. È sufficiente aver affermato la possibilità di questa ipotesi, che tuttavia non può essere dimostrata.

A parte le preoccupazioni sollevate dalla sottigliezza delle colonne, contro l’ipotesi della ricostruzione del pulpito si può argomentare soprattutto una cosa.
Sopra abbiamo menzionato i due grandi capitelli della chiesa superiore e abbiamo reso probabile che appartengano ad un tabernacolo d’altare, che, per le sue dimensioni, può solo essere immaginato costruito sopra l’altare maggiore della cattedrale. È possibile che il magnifico ciborio in marmo fosse accompagnato da un pulpito in pietra calcarea così modesto, che per molte ragioni non può essere significativamente più antico? Questa obiezione mi sembra molto seria; chiunque cercherebbe volentieri un posto più modesto per questi umili compiti; ma allora possono trattarsi solo dei resti di un ciborio di un altare laterale nella chiesa superiore o dell’altare nella chiesa inferiore.
Delle forme tipiche del Ciborio pugliese si è già parlato in precedenza. La struttura a forma di lanterna è in uso fin dalla metà del XII secolo e fu adottata anche dall’arte romana.
Il nostro baldacchino può essere accolto solo su un ciborio di forma più antica con archivolti, indipendentemente dal fatto che si voglia immaginare l’estremità superiore a forma di timpano o di piramide oppure in linea retta, di cui sono esempi i cibori di S. Marco a Venezia e S. Ambrogio a Milano. Le depressioni negli angoli forniscono una prova sufficiente della presenza di decorazioni plastiche aggiuntive; tuttavia né il leone né il pannello di canniccio né la figura seduta potranno trovare facilmente posto su un simile ciborio. Tuttavia, è possibile che al ciborio appartenessero tramezzi del coro o simili. Se diamo libero sfogo alla nostra immaginazione, tutto può essere facilmente utilizzato.

Solo un punto offre un supporto più solido. Il ciborio sarebbe stato a tre lati, con il retro liscio in qualche modo coperto. Si tratta di un fenomeno del tutto insolito che deve essere stato causato da alcune peculiarità strutturali. Ciò si potrebbe spiegare se il ciborio fosse stato collocato sopra l’altare della chiesa inferiore, che era addossato al pilastro dell’abside. Le dimensioni corrispondono a questo presupposto: abbiamo calcolato che la larghezza libera è di circa 1,40 m (con forma arrotondata); il piano dell’altare è largo 1,37 m e profondo 0,90; L’altezza delle colonne e la larghezza netta dell’arco sarebbero di circa 2,30 m, mentre per l’altezza totale sarebbero sufficienti circa 2,70 m, misura che corrisponderebbe all’altezza della chiesa inferiore. Poiché il pilastro è più stretto della tavola dell’altare, ciò spiegherebbe perché abbiamo anche sul retro capitelli quadrilateri e le cavità per gli ornamenti angolari. Sotto il baldacchino sarebbe stata visibile l’immagine di Cristo.

Sembra inutile perseguire ulteriormente con queste opzioni.
Con la selezione dei frammenti rinvenuti si esclude la distinzione tra pulpito e tabernacolo, perché l’esempio del pulpito di Canosa dimostra che la sottostruttura del pulpito, compreso il baldacchino, necessariamente non deve differire in alcun modo da un ciborio.
Infine, non dobbiamo dimenticare quanto dipendiamo dalle ipotesi riguardanti la connessione tra i frammenti e le dimensioni, e forse il reale era certamente quel probabile che stavamo inseguendo. Inoltre, ci sono ancora abbastanza frammenti sconnessi, resti di opere più grandi, sui quali non possiamo nemmeno più fare ipotesi.
Forse le scoperte successive forniranno la risposta alla domanda che oggi dobbiamo rinunciare a risolvere.

Gli scavi ad Andria hanno dato ricchi risultati e hanno portato alla luce un importante edificio e interessanti resti scultorei. Le ricerche storico-artistiche hanno confermato il significativo fatto che Andria vide una vivace attività artistica al tempo di Federico II. Il periodo di massimo splendore di Andria, in cui il favore imperiale si rivolse ad essa e vicino ad essa fu costruito il castello imperiale, è ora visibile anche nei monumenti di architettura e scultura.
Ciò amplia la nostra conoscenza dell’arte sveva in Puglia. Tuttavia, non è stato trovato alcun risultato decisivo riguardo agli effettivi scopi e motivi degli scavi. L’oscurità sul luogo di sepoltura delle imperatrici ha lasciato il posto all’incertezza. Sono state trovate tombe, trovate dove la tradizione le cercava, ma il terreno ha rifiutato qualsiasi informazione su coloro che vi furono sepolti. Alle due mogli di Federico II manca ancora il monumentale simbolo commemorativo che un destino più felice conservò ai loro parenti imperiali a Palermo.

[traduzione del testo di Arthur Haseloff “Die Kaiserinnengräber in Andria - Ein beitrag zur apulischen kunstgeschichte unter Friedrich II”, Editore Loescher & C.°, Roma, 1905. pp. 30-61.]


NOTE

(34) Un’imitazione più semplice di epoca successiva è il tabernacolo ora nel cortile di S. Maria dei Miracoli presso Molfetta.

(35) L’Art dans l'Italie méridionale (Parigi 1903) p.669 e seg.

(36) Fig. Bertaux, a. op. cit., p. 673.

(37) T. G. Jackson, La Dalmazia, il Quarnero e l’Istria. Oxford, 1877, II, P. 44 e seg., Tavola XVII, Fig. 32. - Eitelberger, storico dell’arte. Scritti IV. Il Medioevo. Monumenti d’arte della Dalmazia. P. 277 e seg. con illustrazione Fot. Wlha (ora bosniaco, Vienna) n. 2007, a. B.

(38) Schubring, Rivista per Cristiano, Articolo XIII. 1900, pagina 210. – Bertaux, a. op. cit., p. 656.

(39) Moritz Dukgfr, Sviluppo artistico della tessitura e del ricamo (Vienna 1904) tavola 78 d, cfr. tavola 78 a-c, tavola 91. 100. Come esempio più antico, tavola 55 c.

(40) Vedi Strzygowski, La pigna come un doccione. mitt. KD Archol. Istituto, Romano. Dipartimento XVIII. 1903, pagina 185 e seg.

(41) Fig. in Schulz, a. op. cit., O. II. 266.

(42) «Nobis qui eandem ecclesiam in honorem b. Virginis aedificari fecimus» Böhmer-Ficker Reg. n. 1999 (Schulz, op. cit. II. p. 82 e seg.).

(43) Bertaux, a. op. cit., OS 674. Schulz, pagina 88.

(44) Illustrazione in Bertaux, a. op. cit., OS 675. Fot. Moscioni, 5394.

(45) Si indicano come antichi sarcofagi le tombe del conte Ruggero di Calabria († 1101) e di sua moglie Eremberga. Non si sa nulla di più preciso sulla forma artistica che “Petrus Oderisius magister Romanus” diede all’antica tomba; fu distrutta nel 1783. Vedi Schulz, a. op. cit. II p.352, ivi l’altra letteratura.

(46) Barone de Hody, Descrizione dei tombeaux de Godefroid de Bouillon et des rois latins de Jérusalem (Bruxelles 1855). – De Voügé, Les églises de la Terre Sainte, 1860, pagina 195. – Bertaux, a. op. cit., p. 320 ss. – Eleazar Horn, Ichnographia locorum et monumentorum veterum Terrae Sanctae, ed. da Ierone. Golubovich (Roma 1902) p.51 e seg. – Angelini, Le tombe dei re latini a Gerusalemme (Perugia 1902).

(47) Ughelli, Italia sacra. IX p. 293.

(48) Schulz, op. cit., O. II, S. 336.

(49) Angelini, a. op. cit., O.p. 39 e seg.

(50) Aa. O. P. 443 e s. Fig. p. 445.

(51) Rivista per il Cristiano, Arte. XIII. 1900, pagina 206.

(52) Beltrami, Un’inedita descrizione del duomo di Trani (Napoli, 1899).

(53) Aa. O. p. 561 e seg.