Passeggiate pugliesi - Gregorovius

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"LE PASSEGGIATE PUGLIESI"

di   Ferdinando Gregorovius (1821-1891), da "Pellegrinaggi in Italia; in tedesco: "Wanderjahre in Italien (1856-1877); Apulische Landschaften" (1874-1875)

(stralcio )

Da un pezzo io nutrivo il desiderio di visitare nelle Puglie Lucera, Manfredonia e il Gargano, il Promontorio sull’Adriatico, il vero Hagion Oros dell’Occidente, il monte celebre pel suo pellegrinaggio. Solo nella primavera del 1874 potei appagare il desiderio mio.
Miei compagni, nelle escursioni attraverso il bel paese della Puglia, furono mio fratello e Raffaele Mariano [ (n.1840 - m.1912) lo storico e filosofo, e traduttore di questa edizione italiana delle "Passeggiate Pugliesi"], col quale, venendo egli da Roma, ci eravamo data la posta a Caserta, ed ivi infatti c’incontrammo.
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ANDRIA
(visitata nella seconda decina di maggio 1874)

Ad un’ora buona da Trani e Barletta è posta Andria, città della Terra di Bari assai popolosa di contadiname. L’imperatore Federico II l’amava a preferenza delle altre città pugliesi. Lì, ne’ pressi, egli fece l’edificio il più bello de’ suoi castelli di caccia: Castel del Monte. Di tutti i monumenti degli Hohenstaufen nel mezzogiorno d’Italia, questo è, senza dubbio, il meglio conservato; onde il visitarlo fu lo scopo precipuo del nostro soggiorno fatto due volte in Andria. Ma anche la terra è per sè stessa notevole, e la storia sua è parte non insignificante della storia del feudalisimo nel Reame di Napoli in generale. Io voglio quindi dirne qui alcunchè.
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CASTEL DEL MONTE
Castello degli Hohenstaufen in Puglia

Dalle montagne della Puglia una lunga catena di colline si dirama, in direzione sud-est, nella Terra di Bari e, volgendo per Altamura e Gravina, va sin quasi alle prime alture che chiudono il golfo di Taranto. Sono le Murgie. Corrono lungo il confine della Basilicata, formando un paese montuoso, dalle linee uniformi, monotone, deserto ed incolto, parte rivestito di querceti, parte spogliato di alberi e brullo. Le pendici però offrono pascoli eccellenti; e qui da tempo immemorabile è il ritrovo di pastori e cacciatori. La catena giace parallela al mare, dal quale dista poche miglia appena.
Da essa, già a grande distanza, dalla costa come dal piano, si vede emergere, quasi piramide, una verde collina. tutta nuda d’alberi, e in vetta solo solo un castello, nessun altro edifizio scorgendosi al di là nè al di sopra. È il celebre Castel del Monte. Guardato di lontano, appare affatto rotondo e senza torri. Solo le pieghe e le forti ombre che si proiettano da quella massa circolare di pilastri e di mura dànno anche in lontananza a pensare ch’essa formi un ottagono, con torri mozze in ciascun angolo. Punto centrale, caratteristico, visibile assai da lungi, messo lì a dominare una pianura immensa, il popolo gli ha dato nome di Belvedere o Balcone delle Puglie. Veramente, si potrebbe con più ragione chiamarlo la Corona delle Puglie: esso poggia lassù, sulla cresta della collina, proprio come una corona murale. E a me, a vederlo col sole declinante accendersi di porpora e d’oro, apparve appunto così, come la corona imperiale degli Hohenstaufen che si posasse sul magnifico paese.
Il signor Marchio, è sindaco di Andria, c’invitò a visitare con lui il castello di Federico II, e di andare all’uopo a Palese, un suo podere, ove egli con la famiglia passava il maggio. La tenuta è appunto sulle Murgie, e solo a un’ora di distanza dal castello. Assai lieti tenemmo l’invito. Il 12 maggio, di buon mattino, correvamo in carrozza la via da Andria a Palese, accompagnati da alcuni signori della famiglia Spagnoletti che andavano a cavallo.
La strada, attraverso i campi, era in sul cominciare carrozzabile. Poscia, fra cespugli e luoghi incolti, si fece aspra e difficile: una semplice strada di campagna, sulla quale incontrammo qui e là avanzi della Via Appia. Dopo quasi due ore eravamo a Palese, grossa fattoria tutta sola, sul declivio delle Murgie, fra arbusti di querce, e all’intorno pascoli e seminati. Nell’entrare la famiglia ci venne incontro a salutarci con grande cordialità: uomini vigorosi, ricchi di salute e floridezza, nature semplici e piene di spontanea ingenuità: noi ci sentimmo già come persone di casa.
Uno sguardo dalla corte di Palese sulle deserte e tranquille contrade intorno intorno, mi fece chiaro perchè Federico II avesse scelto proprio questo luogo per porvi il suo castello di delizie. Il nome, in verità, di castello di delizie non è il più esatto, Castel del Monte essendo invece un castello di caccia. La natura non presenta qui quelle forme belle, come, ad esempio, sul golfo di Napoli, le quali invogliano a costruire con lusso principesco parchi e ville. Il paese, destinato al pascolo, è piuttosto monotono e quasi melanconico. Verdeggianti valli vi si avvicendano non incolte e frastagliate colline; il che lo rende assai adatto alla caccia del falcone. Noi possediamo ancora l’opera che il grande Imperatore scrisse sopra quest’arte della caccia, di tutte al tempo suo la più nobile, la più eletta. Da ornitologo consumato egli vi descrive con mano maestra i modi di vivere, le peregrinazioni e, in breve, tutta la natura degli uccelli. A codesta opera egli dovette, senza dubbio, attendere ne’ momenti di ozio in alcuno de’ suoi castelli di caccia. E di castelli destinati alla caccia del falcone egli ne aveva parecchi in Puglia e nella Lucania, a Foggia e a Gioia, ad Apricena ed Avigliano. Ove che egli fosse o andasse, i suoi falchi e i suoi falconieri lo seguivan sempre. Di tutti i castelli però Castel del Monte era il più grandioso; ed è da credere che quivi appunto il grande Imperatore si dedicasse con maggior frequenza al suo esercizio prediletto.
L’andata a cavallo al castello è tra le più belle ricordanze de’ miei viaggi. La cavalcata si componeva di sette persone. I cavalli, di razza pugliese, avevano forme grosse e forti. I signori che ci tenevan compagnia, tutti uomini rigogliosi e robusti, s’erano armati di fucile a due canne, e posero anche in arcione le pistole. Le Murgie, come la Sila nelle Calabrie, non sono sempre state il luogo più sicuro di questo mondo. Ora però di briganti qui non si sente più nulla. I nostri compagni si armarono più a scopo di caccia, ovvero per ottemperare ad un’abitudine che da lunga età si mantiene nel paese e da tutti viene fedelmente osservata. Il vederli insieme, andare su e giù fra campi e colline, così forti a cavallo, faceva grande effetto.
È proprio un diletto l’attraversare a cavallo queste incolte e solitarie campagne, il poter respirare le balsamiche aure di maggio, tutte impregnate del profumo di mille fiori, e il vedere laggiù in fondo scintillare l’azzurro cupo del mare, e di sopra il cielo etereo e írasparente che stringe in un amplesso mare e terra. Qui Elio lancia davvero dardi infiammati! I quali però, nel maggio almeno, non hanno forza di offendere. La luce di questo cielo, quasi vino spumante, inebria l’animo: la si gusta, la si sorbisce avidamente: spazza via dallo spirito le nebbie, quelle morbose esalazioni che negli uomin del Settentrione sono cagione di cupe e misteriose disposizioni, la noia dell’esistenza, il dolore universale, l’umor disperato e pessimista — vero tormento dell’immaginazione! La luce è gioia: essa sgranchisce l’anima e, pari in ciò alla musica, la pone in contatto immediato con l’universo. Quando colaggiù il sole più forte dardeggia, per me è stato sempre come se all’anima e al corpo s’aggiungessero fiamme, che porgono loro le ali e li elevano. L’adorazione del sole ne’ Persiani, come il culto di Apollo cui l’Ellade deve la civiltà sua, possono ben dirsi forme di religione degne degli uomini e degli dei.
E chi vorrà trovare a ridire se gli Hohenstaufen non sapessero risolversi a far di meno de’ loro possessi pugliesi, di queste terre ricche di sole e di luce, e se per tenerle combattessero senza posa, sino a che l’ultimo di loro stirpe gloriosa non fu caduto sul campo stesso della pugna?
Via via cavalcando su per le verdi colline, il maraviglioso castello ci stava sempre dinanzi agli occhi, e con le sue mura ingiallite ci si disegnava più netto e spiccato. Questo solitario monumento di un grande passato non evoca nessuna ricordanza di guerre e battaglie. Non ripone neppure in mente congiure di corti, nè misfatti politici, nè intrighi di Papi e di preti. In quella pacifica dimora noi andiamo a visitare il luogo, dove il geniale Imperatore, nella quiete serena della campagna, si dedicava agli studii e ai piaceri della caccia. E nondimeno, anche in questo quadro tutto dolce e idilliaco, non mancano ombre torbide e tetre. Qui appunto, in questo castello, noi c’imbattiamo negli ultimi degli Hohenstaufen, negli sciagurati nipoti di Federico II, ne’ figiuoli di Manfredi; che ci mostrano le loro catene e con lugubre accento ci raccontano i loro patimenti infiniti.
Sapevo già che Castel dei Monte era fra i castelli di Federico II il meglio conservato. Infatti i palazzi di lui a Foggia, a Capua, a Lucera, come pure i castelli di delizie a Castel Fiorentino e a Lago Pesole sono andati in rovina. Pure, non fu piccola la mia meraviglia nel trovare il superbo edifizio in condizioni molto migliori che non m’aspettassi. Certo, all’interno è devastato, ed anche di fuori, in alcuni punti, assai malconcio; ma è lontano ancora dall’offrire allo sguardo uno spettacolo di spaventosa ruina come, per esempio, il castello di Eidelberga. Con le sue pareti e le sue torri lo si vede invece, quasi da ogni lato, intero nella sua originaria struttura; sicchè l’impressione che se ne riceve, è come se s’avesse dinanzi un edifizio intatto.
Il castello è un ottagono. Ad ogni angolo ha una torre rotonda e mozza, così poco sviluppata che appena s’eleva più in su del cornicione esterno delle pareti. Il materiale è pietra calcarea delle Murgie stesse, di un bel colore giallo chiaro, ben tagliata e sfaccettata e insieme commessa con precisione e pulitezza ammirevoli. Guardandolo nel suo tutto, sembra una costruzione marmorea e non ha nulla che lo faccia assomigliare ad una fortezza.
Le sue forme sono di una purezza e semplicità veramente classiche, e a vederle si rimane stupiti, e si ha un alto concetto di quel che fosse l’architettura in questo paese al tempo degli Hohenstaufen. Evidentemente, l’ideale dell’antichità l’aveva penetrata tutta: si crederebbe qui di avere dinanzi un edifizio del periodo aureo della Rinascenza. Le apparenze e tendenze pesanti del castello medievale sono superate. Gli stessi caratteri dello stile gotico vi appaiono purificati, fatti più limpidi grazie al sentimento antico della forma. Porte e finestre sono, è vero, gotiche o mezzo gotiche; ma gli archi acuti ornati e congiunti insieme con cornicioni, frontoni, pilastri e colonne, arieggiano la forma antica e classica.
Non è facile trovare, e forse neppure immaginare, un concetto architettonico eseguito con maggiore regolarità matematica. Un disegno fondamentale di una semplicità unica è stato qui attuato, il quale pure accoglie in sè una ricchezza grande di particolari e, senza dare nel fantastico, si mantiene elegante e nobile sempre. Tutto è concepito in armonico complesso, dove le parti sono rigorosamente legate, ricondotte ad un solo e medesimo principio: complesso leggiero, bene slanciato ed insieme solidamente compatto.
Il concetto era questo: intorno ad una corte centrale formare un ottagono, appoggiandolo a torri rotonde, e costruire quindi due piani, de’ quali ciascuno contenesse otto sale.
In ogni vano, tra due torri, si apre una finestra gotica. Anche tra due torri, dal lato orientale prospiciente il mare, è l’ingresso: porta marmorea, ad arco gotico, classica per le forme del cornicione e delle colonne in marmo rosso, poggiate su due leoni in pietra calcarea, assai ben lavorati. Qui, dove tra le torri e le colonne è la porta, sta pure, di sopra, la più ampia e grande delle finestre del castello, partita nel mezzo da due colonnine; mentre le altre non ne hanno che una sola. [Il Gregorovius ricorda male: la trifora non è sull'ingresso.]
Dalla porta s’entra nel pianterreno con otto sale che comunicano insieme. Lunghe venti passi e larghe dodici, sono sostenute ne’ quattro angoli da grosse mezze colonne di breccia rossa con capitelli che ricordano l’ordine corintio. Sulle colonne scendono gli architravi delle volte. Originariamente intorno intorno alle superbe sale correva uno zoccolo di marmo in forma di muricciuolo; e di marmo hianco e roseo erano anche rivestite le pareti. Questi ornamenti, come i pavimenti, essi pure in lastre di marmo, sono stati tutti strappati via, meno qualche vestigio che ancora qua e là n’è rimasto. Le volte erano lavorate a mosaico. Le porte fra le sale sono inquadrate con marmo rosso. Grandi finestre in istile anticheggiante sulla corte ottagona dànno luce alle sale; e sulla corte stessa si aprono dal pianterreno tre piccoli usci, tutti a sesto acuto; ma non del medesimo disegno. Nel centro di quella è una cisterna, ora piena di macerie e coperta di cardi e piante selvatiche.
Dal pianterreno mediante scale a chiocciola di pietra, praticate nelle torri, si accede alle otto sale del piano superiore, ov’era la dimora dell’Imperatore. Quanto a spazio e alle sue disposizioni identiche affatto alle sottostanti, si distinguono da queste per maggior lusso ne’ fregi ornamentali. Agli angoli non mezze colonne di breccia rossa, ma fasci di tre colonne di marmo bianco con capitelli compositi. Non tutte le sale hanno finestre sulla corte: ne contai cinque, che ne son senza. In una si veggono ancora gli avanzi di un camino di marmo; iu un’altra una cavità, a forma d’imbuto, corrisponde col pianterreno, e sembra aver servito di portavoce.
Le finestre, che dànno sul di fuori, hanno parapetti molto profondi, rivestiti di breccia rossa. Per sei gradini di marmo si sale ad un muricciolo, dal quale si può, sedendo, godere la veduta. Ho già notato, che sull’ingresso verso oriente è la più grande delle finestre. La sala nella quale si apre non ha, come le altre, due porte, ma una sola; sicchè è l’ultima e chiude la serie. Non è a dubitare che fosse questa la stanza più sontuosa, nella quale l’Imperatore amasse intrattenersi di preferenza. Egli l’avrà fatta ornare con la magnificenza propria del suo tempo, la quale, per altro, si rivela in tutto il castello. Federico II amava il lusso orientale. Ambasciatori dell’Oriente gli portavano in dono tappeti, vestimenta, i più preziosi drappi di seta. Se non gli ambasciatori, ne lo fornivano le sue navi di commercio, ovvero le sue fabbriche in Palermo. Non sappiamo nè quando nè quante volte l’Imperatore venne a soggiornare a Castel del Monte, e se vi fosse accompagnato dalla consorte. Il numero degli ospiti non potette esser mai molto grande. Sedici sale non potevano bastare ad accogliere un seguito numeroso.
Allorchè il grande Hohenstaufen, fattosi alla finestra di quella maggior sala, guardava laggiù, ai piedi suoi, il mare e la campagna, egli si vedeva dinanzi il suo prediletto paese di Puglia, una terra magnifica, una immensa terrazza, che scende al mare, coperta di campi e giardini rigogliosi, piena di greggi ed armenti, seminata tutta di turrite città e castella. E qui gli uni dopo gli altri gli dovevano sfilare nella fantasia Elleni, Romani, Cartaginesi, Bizantini, Goti, Longobardi, Saraceni, Normanni, de’ quali ultimi il padre suo, Enrico VI, mediante Costanza di Sicilia, era diventato erede. Ed anche la propria vita sua doveva fornirgli materia a rimembranze innumerevoli. Come profondamente pensoso avrà guardato il mare, riandando il tempo in che, scomunicato dalla Chiesa, andò ad imbarcarvisi per Gerusalemme, e fece di colà ritorno — egli, l’unico monarca che si fosse levato di sopra agli angusti intenti della Chiesa, e delle Crociate, di cui questa si fece promotrice!
Le otto torri agli angoli esterni sono assai sporgenti. Quattro di esse formano piccole camerucce esagone, a volta. Hanno un diametro di venti piedi. Nella feritoia di una di esse trovai tre uova di uccello di color rosso pallido, più grosse di quelle di colombo. Erano lì l’uno accanto all’altro sulla nuda pietra, e di nido non v’era segno. Il giubilo che provai per questo ritrovamento, fu grande: le uova erano di falcone. L’uccello di rapina che venne quivi a deporle, discendeva indubbiamente in linea retta da uno de’ nobili falchi di Federico II; e chi non vi crede, si provi a dimostrarmi l’errore. Di ritorno a Palese, prendemmo con noi il piccolo tesoro: sciaguratamente un uovo soltanto potei portarmi sino a casa intatto.
In due delle torri rimangono ancora le scale a chiocciola, che conducono sul tetto, o meglio sulla terrazza del castello, coperta con lastre di pietra. Tutte le torri sono mozze, ed io dubito che abbiano mai avuto una cima in forma di cupola o di cono. Sulla sommità di ognuna ci è un serbatoio di acqua piovana. Il panorama del mare e della campagna che dall’alto del tetto si offre alla vista, è davvero incomparabile. Lassù si comprende perchè il castello sia stato chiamato il Belvedere delle Puglie. Il lembo delle coste, dal grandioso baluardo del Gargano, da Manfredonia e Siponto, giù giù, sino alle prode avvolte come in tenue velo trasparente di Bari, Monopoli e Brindisi, si dispiega tutto innanzi agli occhi dello spettatore. In riva al mare è una lunga serie di città in parte antiche e famose, le città marittime della Puglia, e poi quelle dell’interno, da Lucera sino a Canosa e a Ruvo. Volgendosi dal lato della terra, stanno di contro le montagne di Basilicata, tutte color porpora, col Vulture vulcano spento presso Melfi, dalle forme superbe; mentre a destra si distende aspra e dirupata la catena delle Murge.
Indarno cercai nel castello iscrizioni del tempo degli Hohenstaufen. Solo incastrate nelle pareti della corte ve n’ha alcune del tempo de’ Balzo o de’ Caraffa; ma non si può più leggerle. Anche il busto in marmo di Pier delle Vigne che una volta deve esservi stato, non mi riuscì scoprirlo in alcun luogo. Lo stesso degli avanzi di una piccola statua in rilievo, rappresentante l’imperatore Federico II, la quale Demetrio Salazaro ha di recente descritta come opera eccellente. (1) Sull’alto di un muro nella corte, vi è soltanto un bassorilievo, annerito e mutilato; ma non mi venne fatto distinguerne le figure. Pure raffiguri una donna che timida sta innanzi ad un gruppo di guerrieri. Vi è di sotto una enigmatica iscrizioni: sono sigle non decifrabili.
Si pretende che Castel del Monte, già innanzi di Federico II, fosse una fortezza. Prima i Longobardi avrebbero qui costrutto una specie di osservatorio militare, cui diedero il nome di Guardia Lombarda. Poscia i Duchi normanni vi avrebbero edificato un castello, chiamandolo Bellomonte. Stando a queste opinioni, che non hanno per sè alcuna autenticità, l’imperatore Federico non avrebbe che abbellito il castello già elevato da’ Normanni. Ma quale oggi esiste e ci sta dinanzi Castel del Monte è essenzialmente creazione di un solo e stesso artista, lavoro di un solo e stesso tempo, e tutto di un getto, tanto che, a parte pochi particolari secondarii, è impossibile scoprirvi epoche diverse nella costruzione. Il tempo in che venne edificato, sembra essere l’anno 1240: così almeno appare da un decreto di Federico, datato da Gubbio, il 29 gennaio dell’anno medesimo. L’architetto della splendida opera e rimasto ignoto. Se il suo nome fosse conosciuto, la classica creazione gli assicurerebbe l’immortalità.
Di edifizii circostanti non vidi traccia; ma che ve ne dovessero essere, non è da porre in dubbio. Come e dove avrebbe altrimenti trovato ad alloggiarvi tutta la servitù al seguito dell’Imperatore e gli attrezzi per la caccia e i cavalli? Nel castello stesso non v’era posto. Certo, la sommità della collina non presenta alcuna superficie atta ad edificarvi su. V’è pure che, circondato da altri edifizii, il castello avrebbe in gran parte perduto il suo scopo e il suo effetto archotettonico. Per tanto è da ritenere che quelli sorgessero giù, al basso della collina, in un piccolo luogo chamato Casale di Castro, con una chiesa di Benedettini, Santa Maria del Monte. Dal nome della chiesa il castello venne, talvolta già al tempo di Federico, e sempre poi a partire da Carlo Angioino, chiamato non Castrum Montis, ma Castrum Sanctae Mariae, con e senza l’aggiunta del Montis.
Morto Federico, il castello come dominio della corona andò in eredità al figliuolo Corrado. La tradizione in Andria afferma insino che proprio lassù Corrado fosse nato, e la madre Jolanta vi fosse morta. Ad ogni modo, da Barletta e da Trani. ove in modo autentico sappiamo che egli s’intrattenne nell’inverno deil’anno 1252 e nel maggio del susseguente, Corrado IV sarà certamente ito a visitare la tomba dell’Imperatrice in Andria e il castello di suo padre. Reca veramente maraviglia che nessuno degli Hohenstaufen abbia mai datato da Andria o da Castel del Monte alcuno de’ suoi rescritti. Ciò mostra che il soggiorno in quei luoghi o non fu mai lungo, o sempre scevro dalle gravose cure di Stato. Più tardi per Manfredi la preferita fra tutte le ville fu il castello edificato dal padre sul Lago Pesole; il che però non vuol dire che egli non sia mai stato a Castel del Monte. E quivi appunto i figliuoli di lui dovevano una volta languire e consumarsi fra le catene.

II

A me piace fermarmi a discorrere alquanto del destino dell’infelice moglie di Manfredi e dei figliuoli: è un racconto che in parte si connette col castello che abbianlo visitato (2).
Caduto Manfredi sul campo di battaglia a Benevento, la moglie Elena fuggì con i figli dalla fortezza saracena di Lucera, ove era rimasta, prendendo la via del mare. Intenzione sua era d’imbarcarsi e cercar salvezza presso i congiunti in Epiro. Sciaguratamente, venti contrarii impedirono l’uscita delle galere dal porto di Trani; onde la regina, piena di fiducia, si pose sotto la protezione del castellano della città. Ma l’inquieto e pauroso uomo la consegnò, il 6 marzo 1266, ai cavalieri di Carlo Angioino che la inseguivano. Essa fu in principio con i figli tenuta in custodia nel Castello di Trani. I figli eran quattro: Beatrice, allora di sei anni, Enrico di quattro, e i più piccoli Federico ed Enzo.
Un mese più tardi, il re Carlo si fece venire dinanzi Elena sul Lago Pesole ove si trovava. L’ordine di lui, mandato all’uopo di là il 5 aprile, al Giustiziere di Terra di Bari, Pandolfo di Fasanella, si conserva ancora. Non sembra verosimile ammettere che la prigioniera in questo angoscioso viaggio, che doveva condurla alla presenza di colui che era cagione della rovina di ogni felicità sua, fosse stata accompagnata da’ figliuoli.
La vedova di Manfredi apparve innanzi allo spietato vincitore in quel castello medesimo che per lunghi anni era stato per lei e pel marito la più prediletta, la più gioconda delle dimore. È difficile supporre che solo curiosità o desiderio di godersi lo spettacolo della miseria inducesse Carlo a far menare colà la prigioniera. Piuttosto è da ritenere che egli avesse in vista un qualche scopo politico. Da lettere di poco posteriori, tra il papa Clemente IV ed il Re, apparisce che si trattava allora di unire in matrimonio l’infante Don Arrigo di Castiglia con una delle figlie di Michele, despota dell’Epiro. E sembra fondata la congettura che appunto con questo disegno di matrimonio si collegasse l’apparizione di Elena a Lago Pesole.
Don Arrigo, fratello di Alfonso il Savio, del re eletto de’ Romani e stretto congiunto con Carlo Angioino, aveva fornito a quest’ultimo, per la conquista nell’Italia del Mezzogiorno, ingenti somme, le quali però non gli venivano rese. Il re Carlo voleva indennizzarlo per altra via, e soprattutto sbarazzarsi del creditore che temeva veder presto venire da Tunisi in Italia. Si studiò quindi tenerlo a bada con proposte di matrimonio e col fargli balenare l’eventualità di una grande carriera in Oriente. Delle trattative corse per dare sposa a Don Arrigo una figlia del despota Michele, padre della vedova di Manfredi, non si può dubitare. Altrettanto indubitabile non pare la recisa affermazione messa su di recente che si trattasse non di altra figlia, ma di Elena stessa; affermazione nata dal fatto che nelle lettere non è mai menzione del nome di battesimo della futura sposa.
Il voler unire in matrimonio la giovane vedova di Manfredi, che per ragion dotale aveva diritto all’isola di Corfù e a parecchie altre terre in Epiro, con l’ardito ed irrequieto Don Arrigo, progetto simile poteva per certi motivi essere bene spuntato nel]a mente del Papa; ma, certo, non era tale da accordarsi con le viste e con l’arte di Stato dell’Angioino. Il consentire a siffatta unione sarebbe importato questo, che Elena, anche quando essa soltanto senza i figliuoli avesse ottenuto libertà, avrehbe fatto sicuramente del secondo marito un pretendente alla corona di Napoli; senza dire che Don Arrigo dal canto suo avrebbe potuto contare per ciò sopra il forte appoggio di Castiglia non solo, ma anche di altre potenze e de’ ghibellini d’Italia. de’ quali per giunta il fratelio suo, Don Federigo, commilitone di Manfredi a Benevento, seguiva le parti. Il divisato matrimonio sarebbe apparso di poco meno pericoloso, dove non Elena, ma una terza figliuola di Michele fosse stata la destinata ad essere sposa dell’Infante. Ma che questa terza figlia esistesse, non si sa. Sappiamo solo che Elena aveva una sorella Agnese, la quale però era maritata con Guglielmo Villehardouin.
Dell’enigmatico incontro della sciagurata prigioniera con l’Angioino a noi non è giunto più altro. Ignoriamo quindi di qual natura fossero le offerte che a quella furono fatte. o le pretensioni che le vennero imposte (3). Se si vuol credere che le fosse realmente stata fatta la proposta di dar la mano a Don Arrigo, mentre l’amato suo sposo, Manfredi, da un mese appena giaceva esanime sotto il mucchio di pietre presso Benevento, il non essersi l’unione verificata dà luogo a pensare che o Elena vi si rifiutasse sdegnosamente, ovvero, quando non avesse avuto essa forza morale sufficiente a ciò, Carlo medesimo la sventasse. La vista della bellezza, della gioventù e della infelicità della vittima non valse a scuotere quel cuore di macigno. Il vincitore non mirava che ad uno scopo solo: assicurarsi il trono col mettere tutti i pretendenti di casa sveva nell’impossibilità di disputarglielo. Presto si appropriò anche Corfù e gli altri paesi appartenenti ad Elena.
Neppure si sa dove la Regina, dopo l’incontro, fosse menata. Solo è assai verosimile che da Lago Pesole la si traducesse direttamente nel castello di Nocera, città tra Castellamare e Salerno. Il primo documento nel quale sia parola della sua dimora colà, è un rescritto di Carlo, datato da Capua, il 13 marzo 1267. Egli vi nominava castellano di Nocera il cavaliero Radulfo De Faiello, affidando in pari tempo a questi la custodia della vedova di Manfredi; ma de’ miseri figliuoli non è menzione.
Qualcuno ritiene che Elena venisse da lor separata sin dal primo momento; che Carlo facesse condurre i figli maschi di Manfredi prima nel castello di Canosa e poscia a Castel del Monte; e che la principessa Beatrice fosse messa in prigione a Napoli (4). Crudeltà così diabolica di strappare alla madre i figliuoli in età tanto tenera, si può ben supporla nel re Carlo, quando anche il fatto, almeno per l’anno 1266, non possa dirsi incontrovertibilmente accertato. Non fu, del resto, un sentimento ispiratogli dalla religione o dall’umanita, quello che indusse l’Angioillo a risparmiare la vita de’ piccoli eredi di Manfredi. Un suo cenno sarebbe bastato, perchè incogliesse loro la sorte medesima de’ figliuoli di Eduardo: egli li lasciò in vita in sul principio, perchè l’età novella li rendeva a lui innocui, e più tardi perchè, per ragioni di Stato, ciò gli parve potergli tornare utile.
La regina Elena nel suo carcere di Nocera viveva ancora al tempo del rapido successo e poscia della presta fine di quel Corradino, cui il marito Manfredi aveva una volta tolta la corona del padre di lui, Corrado IV, per cingersela egli stesso. Se il castellano fece giungere sino all’orecchio di lei le notizie della spedizione vittoriosa di Corradino e dell’alleato suo, Don Arrigo di Castiglia, come non dovette essa sentirsi addentro rimescolar tutta per speranza e timore insieme! All’appressarsi del giovane Hohenstaufen parecchie città di Puglia si erano levate in suo favore. Anche Andria, la fedele, spiegò la bandiera di casa sveva, e cacciò via la guarnigione angioina che dovette riparare a Castel del Monte. Ora, se sul campo di battaglia presso Tagliacozzo, il battuto fosse stato non Corradino ma Carlo, Elena e i figliuoli avrebbero potuto riacquistar libertà, ma avrebbero potuto pure, per un ordine subitaneo cader morti, prima che i liberatori venissero a picchiare alle porte delle loro prigioni. Senonchè Corradino pagò col capo la sua impresa; e il vincitore, satollo di sangue, lasciò in vita i figli di Manfredi, dai quali oramai non aveva più nulla da temere.
Un paio d’anni ancora la povera Elena languì nel carcere di Nocera, dove le veniva misurato con lesinería il sostentamento. Pure, esagerano quei che pretendono averla Carlo d’Angiò fatta trattare come mendica. La somma di quaranta once d’oro, quante erano annualmente destinate al mantenimento di lei e della sua servitù, poteva certamente bastare appena al più stretto necessario; nulladimeno, alla vedova di Manfredi era stato per lo meno consentito avere de’ servi ed usare una parte del suo corredo.
Intorno al tempo in che la morte scese pietosa a trarla dalle sue sofferenze, ci porge in fine lume un rescritto di Carlo I. Datato da Sutri nell’Etruria romana, l’11 marzo dell’anno 1271, e indirizzato al castellano di Nocera, è concepito in questi termini: «Noi ti ordiniamo, al giungerti del presente, di lasciar liberamente uscire con le loro cose dal castello di Nocera le damigelle (domicellas) e l’intera famiglia della fu Elena, la sorella del Despota, senza recar loro offesa o molestia di sorta. Farai soltanto dal Maestro Niccolò Buczelus prender nota del loro nome e cognome, affinchè egli provvegga le damigelle di una scorta sicura che le accompagni colà, dove desiderino andare (5)
Questo rescritto ci rende certi che Elena, nell’anno 1271, viveva sola nella prigione, separata per la barbara crudeltà di Carlo da’ figliuoli. La famiglia, onde nel rescritto è parola, s’intende agevolmente che fosse, secondo l’antico uso italiano, la famiglia erano tutti i servi, i famigli di una stessa casa. A costoro, per esser morta la prigioniera regina, era concesoo libero il passo dal castello. La vedova di Manfredi morì di ventinove anni, negli ultimi del febbraio o ne’ primi del marzo 1271, e dovette aver sepoltura in qualcuna delle chiese di Nocera. Ma riuscirono inutili le mie indagini colà per raccogliere alcuna notizia intorno al luogo, ove venne sepolta: nessuno a Nocera seppe dirmene il minimo che. Anche il castello sul monte che soprasta la città, e che fu il luogo di prigionia di Elena, è già da tempo diruto; e de’ vecchi castelli in rovina è ora uno fra’ più belli d’Italia.
L’inventario della mobilia lasciata dalla defunta porta la data del 18 luglio 1271. Venne d’ordine sovrano compilato dal castellano di Nocera, Enrico Di Porta, e trasmesso alla Camera Regia in Napoli. In questo documento troviamo indicato ciò che ancora rimaneva di tutto quello che era stato permesso alla Regina di prender seco nella prigione: ornamenti muliebri, perle e pietre preziose, servizio da tavola d’argento, bronzi, un forzierino d’avorio, la guardaroba, con l’osservazione alla più parte degli oggetti vetus et consumptum, tappeti, mantelli, abiti di broccato d’oro: logori avanzi di una passata grandezza! Al lettore curioso non sarà discaro poterlo scorrere intero questo inventario:
Unum vetus segium de panno ad aurum consumptum et vetustum.
Item mantellum unum de biuctoo infodratum de minuto vairo.
Item tunicam unam de eodem panno.
Item supertunicale unum de eodem panno infodratum de minuto vairo.
Item carrafiam unam argenteam sine coperculo.
Item chifum unum argenti deaurati cum pede, ponderis unius marce et quinque unciarum.
Item VI scutelle de argento planas sine signo, ponderis undecim marcarum.
Item duo barrilia de argento, quorum unum est fractum, ponderis VII marcarum, et sex unciarum.
Item unum caldarium de brunzo.
Item candelabrum unum de argento sine signo ponderis II marcarum.
Item pottum unum de brunzo.
Item tappetum unum de Romania vetus et consuptum.
Item concam unam de brunzo depictam.
Item bacile unum de argento cum anulo argenti, ponderis V marcarum, VI unciarum, XIV sterlingorum et demidii.
Item cafariam unam de argento fractam ponderis VI marcarum et unius uncie.
Item carpitam unam vergatam veterem et consumptam.
Item duas bunettas magnas da burello.
Item capam unam ad manicas infodratam cendato celesti.
Item duo scrinea rubea.
Item duo aurifrisia.
Item scrineum unum de ebore.
Item cappulas duas ad aurum.
Item corrigatam unam ad argentum ponderis unius marce.
Item cippum unum virgatum ad duo capita orenczatum cum seta rubea.
Item zippas quinque ad aurum cum seta alba.
Item garlandam unain cu1n XX petiis de auro cum smaragdis et pernis.
Item peciam unam que vocatur supercendatum rubeum munitum pernis et aqnilis de auro cum smaragdis, pernis et smaltis in quibus consistunt triginta tres saffiri.
Item octo pecias cum pernis et esmaltis in quilbus consistuntt triginta tres saffri.
Item origentales tam parvi quam magni et XX balesii.
Item XL granatas et VIII safiri de pondio et CXXIII grossi perni.
Item duo scrinea nigra.
Item sambucam unam de samito rubeo infodratam cendato ialino dependentem a sella cohoperta aigentea et munita pernis, in quam erant pectoralia de argento et streugue in cujus pectorale defciunt campanelle VIII.
Item duo bocaria di ere.
Item sedile unum.
Item duos urceolos argenti, quorum unum ponderat VIII marcas et alium VII marcas et dimidie
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La morte della madre non segnò per gli sventurati figliuoli che il cominciamento di un periodo di maggiore miseria. Di essi i più innanzi negli anni erano già grandi tanto da potersi render conto intero del destino loro. E quant’orribile questo fosse, non vi sono parole per dirlo. Dove, a quel tempo, i tre giovani principi si trovassero, s’ignora. Anche la loro sorella Beatrice era stata tolta alla madre, poichè del soggiorno di lei a Nocera non s’incontra mai traccia. Solo il 5 marzo 1272, vale a dire un anno dopo la morte di Elena, la troviamo nominata come prigioniera nel castello di San Salvatore a Mare in Napoli, oggi Castel dell’Ovo.
Bentrice sembra essere stata colà trattata con dolcezza, o almeno con riguardo. Pel suo mantenimento riceveva due tarì d’oro al giorno, e per assisterla e servirla le si era data una donzella. Accanto a lei, nel castello medesimo, era tenuta prigione la figlia dello zio di Manfredi, il conte Giordano Laucia. Questi, una volta potente e magnifico signore, era stato fatto prigioniero presso Benevento. Evaso da un orrido carcere in Francia, era stato poscia ripreso; in conseguenza di che gli vennero, per ordine del Re, cavati gli occhi e mozze le mani e i piedi; ed egli, a porre termine a sì tremendo martirio, si lasciò morir di fame.
Castel dell’Ovo era allora prigione di Stato ed insieme, per la sua incantevole posizione sul mare, un luogo di delizia assai amato dagli Angioini. Nel tempo appunto in che Beatrice vi giaceva, giovani principi e principesse della casa reale andavano a farvi soggiorno. E, per strano caso, in un altro sotterraneo del castello era allora rinchiuso un uomo che si era dato pel re Manfredi, e fu preso nell’anno 1273. Più tardi questo pseudo-Manfredi fu mandato prigione a Castel del Monte.
Infrattanto de’ fratellini di Beatrice non si ha nuova nè novella. Intorno ad essi non s’incontra mai motto ne’ registri di casa angioina, durante tutto il regno di Carlo I. Evidentemente, desiderio del Re era che pigliasse piede la credenza, che fossero morti. Ed anche sotto il regno del figliuolo e successore suo, Carlo II, il primo indizio dell’esistenza loro non va più in là del 1291, quando, come appare da documenti, i tre principi erano a Castel del Monte.
Pure, rimane ignoto dove passassero un sì lungo periodo di anni. In documenti dell’anno 1284, riguardanti Castel del Monte e i prigionieri di Stato che vi eran tenuti, non è la bencbè minima parola di loro. Però codesto silenzio aveva i suoi motivi; onde non è lecito argomentarne che i figli di Manfredi non si trovassero allora per anco rinchiusi in quello che fu il castello di delizia degli antenati loro. Piuttosto nulla contrasta con la supposizione ch’essi vi stessero già da molti anni.
Intanto scoppiò la grande catastrofe, il Vespro Siciliano, che, come giudizio della Nemesi vindice ed inesorabile, venne repente a colpire il tiranno angioino. Gli eroici Siciiiani insursero nell’anno 1282. La corona del loro paese diedero a Don Pedro d’Aragona, marito di Costanza, figlia questa di Manfredi, natagli dalla prima moglie Beatrice di Savoia. Così gli Hohenstaufen, sotto le vesti della casa regnante aragonese, apparvero di nuovo in Sicilia. Due anni più tardi, il 5 giugno 1284, il principe ereditario, figlio di Carlo I, alla battaglia navale nel golfo di Napoli fu battuto e fatto anche prigioniero. Il vincitore Roggiero di Loria, ammiraglio de’ Siciliani, si presentò immantinenti innanzi a Castel dell’Ovo, e con la forza ottenne che gli si consegnasse la figlia di Mlanfredi. Per tal guisa, dopo una prigionia durata non meno di diciotto anni, la principessa Beatrice venne liberata, condotta in trionfo a Messina, e colà festosamente accolta dalla sorellastra, la regina Costanza. E poco di poi andò sposa di Manfredi, figliuolo del Marchese di Saluzzo.
De’ figli di Manfredi Beatrice fu l’unica che ricuperasse la libertà. È evidente intanto che a quel tempo, nel giuguo del 1284, i fratelli suoi non si trovavano insieme con lei in Castel dell’Ovo. Se vi fossero stati, Beatrice, anzicchè uscire di prigione senza di loro, avrebbe, di certo, preferito di continuare a rimanervi. L’ammiraglio, ad ogni modo, avrebbe appunto in questo momento dovuto domandare anche la lor liberazione e consegna, facendo tacere le ragioni di Stato aragonesi, le quali, più tardi, consigliarono di non più farlo.
Morto Corradino, i figli di Manfredi erano gli unici eredi legittimi de’ diritti degli Hohenstaufen. Per questo nè Loria pensò allora ad esigere che fossero scarcerati dalla fortezza lontana da Napoli ove trovavansi, che non sappiamo quale propriamente fosse; e vi pensò ancora meno Don Pedro, tuttochè la vita e la morte del principe ereditario Carlo stessero in sua mano. Ma l’esser questo principe prigioniero valse almeno a salvare la vita di quelli. Carlo I non poteva osare di farli uccidere allora. Il feroce tiranno morì, in preda al furore e alla disperazione, a Foggia, il 7 gennaio 1285.
Solo nel novembre 1288 il successore suo, Carlo II, potè ottenere di esser liberato dalla prigionia in Catalogna, grazie specialmente all’intercessione del re di Inghilterra. Però fra le condizioni poste alla sua liberazione non ve n’è alcuna che riguardasse la sorte de’ figli di Manfredi. Don Giacomo, figlio del re Don Pedro, morto nel 1285, e di Costanza, venne riconosciuto signore di Sicilia; ma i figliuoli di Manfredi furono lasciati a giacere nella tetra oscurità del carcere.
Per questi primi Aragonesi di Sicilia è un obbrobrio incancellabile l’aver così abbandonato i parenti, senz’aiuto, alla loro sorte miseranda. La sorella stessa, la regina Costanza, non fece nulla per loro. Nell’anno 1297, essa andò a Roma; e quivi le due case nemiche, l’angioina e l’aragonese, fecero pace e si legarono insino con vincoli di parentela. La figlia di Manfredi diede in isposa la propria figlia, Violanta, a Roberto di Napoli. Fra i rumori delle feste per la riconciliazione non fu pensato ai poveri figli di Manfredi, consumati dalla fame. O vi si pensò solo con freddezza e indifferenza, forse non più di quanto fosse necessario ad attutire la voce della coscienza: qualche istanza perchè i patimenti fossero alleggeriti, e poi null’altro. Eppure la regina Costanza, che aveva preso l’assoluzione per mano del Papa, era diventata bacchettona da non si credere; e, come tale, morì a Barcellona, l’anno 1302.
A scusarla in parte, vogliamo bene ammettere che essa si sentì inetta, impotente a vincere le rimostranze che il Papa, Napoli ed Aragona le opponevano. Oltraggio, la religione de’ grandi della terra giunge sin lì, dove la ragion di Stato comincia: più in là, religione equivarrebbe a follia!
Traditi in ogni speranza che gli avvenimenti, in seguito al Vespro Siciliano, avevano dovuto loro svegliare addentro, l’unico avvenire che i figli di Manfredi potessero oramai aspettarsi era un’eterna prigionia, lo stesso destino subíto già dal loro nobile zio, Enzo, altro figliuolo naturale di Federico e re di Sardegna, che fu tenuto prigione da’ Bolognesi per non meno di ventidue anni.
In Castel del Monte erano anche in quel tempo altri prigionieri illustri, vecchi ghibellini, amici o congiunti alla stirpe degli Hohenstaufen. Vi era, dall’anno 1267, 1’infante Don Arrigo di Castiglia, ex-Senatore di Roma, il più fiero nemico di Carlo d’Angiò. V’era pure Corrado, figlio del conte Riccardo di Caserta e di Violanta, figlia naturale dell’imperatore Federico lI. I due nobili uomini, stati commilitoni di Corradino, furono dopo la battaglia di Tagliacozzo tradotti prigionieri nel castello di Canosa, città a due ore da Andria, visibile dall’alto di Castel del Monte, e resa celebre da Beomondo, l’eroe normanno. E colà restarono insino a’ primi dell’aprile 1277. Poscia, per un ordine di re Carlo I, datato da Bari il 28 marzo di quell’anno, furono trasportati a Castel del Monte.
A motivo di Donna Bianca, madre di Carlo, l’Infante era a costui stretto congiunto. Solo questa relazione di famiglia, come pure l’essere egli imparentato con altri potenti sovrani, gli avevan fatto scampare la morte. Però nessuna intercessione, per premurosa che fosse, de’ monarchi di Spagna, di Francia e d’Inghilterra potette smuovere il Re a render la libertà al cugino suo.
Gli archivii ci hanno serbato alcune risposte di Carlo a siffatte istanze e preghiere. E vi sono anche rescritti i quali permettono, usando però ogni possibile precauzione, di visitare il prigioniero a persone mandate specialmente dalle Corti aragonese ed inglese per informarsi dello stato dell’Infante.
Don Arrigo, come il Conte di Caserta, riceveva pel mantenimento giornaliero tre tarì d’oro, e a sua disposizione stavano pure due servi. Per ciascuno de’ figli di Manfredi non v’era invece che la meschina somma di cinquantaquattro grani per giorno, e di servi per loro non si fiata neppure.
Infine agli sforzi del re Eduardo d’Inghilterra riuscì di ottenere la liberazione dell’Infante, che era fratello carnale di sua moglie, Donna Eleonora di Castiglia. Il 5 luglio 1291, Carlo II ordinò al suo luogotenente, il Conte d’Artois, di lasciare uscire Don Arrigo da Castel del Monte.
Così lo sventurato Infante potè ricondursi nella patria sua, in Castiglia; ed ivi morì, non affranto da’ patimenti, non abbattuto dal fiero destino, e circondato di stima e considerazione, nell’anno 1304.
Corrado, il suo compagno di sventura, l’ultimo dell’antica casa de’ Conti di Caserta, restò in Castel del Monte insieme con la moglie Caterina di Gebenna, sino a che anche ad entrambi non fu, nell’anno 1304, accordata libertà.
Solo pe’ figli di Manfredi non vi fu alcuno che sentisse pietà. Come lo abbiamo notato, si trova fatta menzione di loro, e precisamente quali prigionieri in Castel del Monte, soltanto in un rescritto reale dell’anno 1291.
Dovremo noi raffigurarci alcuna delle sale del castello al pianterreno o al piano di sopra, come il luogo destinato alla custodia degl’infelici? Certo, un castellano non chiuso a sensi di umanità lo avrebbe ben concesso ai nipoti di un imperatore, ai figli di un re. Io credo però che anche Carlo II avrà trovato quegli spazii pe’ figli di Manfredi troppo grandi e troppo belli; onde li avrà fatti tenere rinchiusi nelle stanzucce delle torri. Imperocchè questo medesimo sovrano, il quale pure aveva saggiato l’amarezza della prigionia, sebbene in un luogo di custodia ben altrimenti decente e degno, e per uscirne fuora aveva implorato l’intercessione di tutte le potenze d’Europa, fu tanto crudele da far rimanere sempre in catene quei principi che di tutti i suoi prigionieri di Stato erano i più innocenti. Fra le catene essi erano venuti su e s’eran fatti grandi. Da bambini diventando giovanetti, e da giovanetti uomini, avevano potuto misurare il crescere de’ lor corpi e de’ lor patimenti dal mutarsi e dal sempre crescente appesantirsi dei ceppi cui erano avvinti, sempre vestiti e nudriti da pezzenti. E di sicuro fu con deliberato animo voluto che ignoranza e miseria facessero di loro degli idioti. Notizie di un tempo posteriore ci fanno sapere che li avessero accecati e mutilati. Però la verità di tali asserzioni sfugge ad ogni apprezzamento, e vi hanno rescritti reali che le rendono non degne di fede.
Il 18 giugno 1295, Carlo II ordinò da Anagni al figlio Carlo, che teneva le sue veci nel Regno, che gli fossero senza remora mandati i figli di Manfredi. Il rescritto suona così: «Vi sono in questo momento motivi i quali rendono assai opportuno il liberare dalIa prigionia Enrico, Federico ed Enzo, figli di Manfredi del fu principe di Taranto, che trovansi rinchiusi nel nostro castello di Santa Maria del Monte. Noi ti ordiniamo adunque di mandare a noi senza dilazione e sani e salvi il nominato Enrico e i fratelli suoi, di farli uscire dalla prigione del castello e sotto legale e sicura scorta venire immediatamente a noi. Intanto comandiamo al tempo stesso con altre lettere al castellano, cavaliero Stormito De Guagnonville, di consegnare al nostro messo i prigionieri.»
Per rendersi conto di ordine sì inopinato bisogna sapere, che a quel tempo papa Bonifazio VIII, presso del quale il Re di Napoli si trovava, s’era fatto mediatore di pace tra costui e Giacomo d’Aragona, figliuolo di Costanza. In conseguenza dell’accordo il re aragonese, messo allora in condizioni assai difficili, rinunziò al possesso della Sicilia; la qual cosa, per altro, non andò ai versi de’ Siciliani. E l’ordine di Carlo II era l’adempimento di una condizione posta dalla Corte aragonese. A questa le pretensioni degli eredi legittimi di Manfredi non potevano dare più ombra, una volta che s’induceva a rinunziare alla Sicilia.
Se e in qual misura e guisa al rescritto di re Carlo fosse stata data esecuzione, noi non sappiamo. Che i tre principi fossero stati lasciati a piede libero non è da pensare. Anche rimossi per un momento dal loro carcere, Carlo II fece continuare a tenerli quali ostaggi in custodia, sino a che i patti della pace non ebbero ottenuto la loro pratica effettuazione. Senonchè questa appunto venne meno, mentre Don Federigo, fratello di Giacomno d’Aragona, sconfessando la vigliacca politica di costui e fatta parte per sè, si fece già il 25 marzo 1296 incoronare a Palermo.
Così, anche questa volta traditi nelle loro speranze, i figli di Manfredi restarono a Castel del Monte, ovvero, dopo aver per breve tempo mutato luogo, vi furono ricondotti daccapo.
Infatti a Castel del Monte li troviamo di nuovo nell’aprile dell’anno 1297. Il 25 di questo mese Carlo II mandò al castellano il seguente rescritto, datato da Napoli: « Noi vi ordiniamo col presente di togliere immantinenti le catene ad Enrico, Federico ed Azzolino, i figliuoli del fu principe Manfredi, che sono tenuti incatenati costì, in codesto castello, e di trattarli onorevolmente come lor si conviene. E poichè si dice che uno di essi è malato, così voi dovete, per quanto le circostanze lo esigano, lasciar entrare qualche persona che lo curi. Noi permettiamo pure che fra Matteo da Matera dell’Ordine de’ Minori Osservanti abbia libero accesso presso i nominati fratelli. Nulladimeno, è vostro debito il tenerli sempre sotto scrupolosa custodia. »
Anche quest’ordine era un risultato delle trattative di pace tra Napoli ed Aragona, al quale uopo i principi contraenti eran convenuti in Roma. Infatti a Roma trovavasi già, sin dagli ultimi del marzo 1297, il re Giacomo; ed a lui aveva tenuto dietro Donna Costanza con la figlia, la quale veniva in Roma come promessa sposa al principe di Calabria, Roberto. Lo stesso Don Federigo, col quale la madre s’era rotta, per aver egli virilmente continuato la guerra contro il fratello Giacomo, dovette ora mostrarsi disposto a più miti consigli e a cedere con un trattato di pace la Sicilia a Napoli. Si vede quindi che il piccolo alleviamento della dura condizione de’ prigionieri era tutto ciò che la sorella Costanza aveva allora osato impetrare per essi; e queste misere stille di compassione parvero a lei probabilmente di un peso e di una portata enorme. Come non avrebbe dovuto sentirsi oppressa dalla vergogna, pensando ad Eleonora di Castiglia, il cui coraggio non si stancò mai sino a che non ebbe visto libero il fratello Don Arrigo; mentre essa invece lasciava i suoi languire fra le catene!
Ma Federigo finì per tenere per sè la Sicilia, e i figli di Manfredi rimasero nel carcere. Quando però quel Re ebbe, nell’anno 1302, concluso in effetto pace con Napoli, perchè mai ai disgraziati non fu data libertà? Questo perchè ci è ignoto o, per dir meglio, lo conosciamo assai bene: niente altro che ragioni di Stato!
Rimangono poi un paio di rescritti ancora, de’ quali gli sciagurati sono oggetto. Il 5 maggio 1298, quando avevano gia passato nel carcere non meno di trentadue anni, Carlo II si ricordò a un tratto che non farebbe onore alla sua maestà regale, dove i figliuoli di Manfredi avessero a morire di fame. Ordinò quindi al castellano di meglio nudrirli. È impossibile difendersi da un impeto di sdegno, leggendo codesto rescritto reale, che prelude così: « Rispetto ai figli di Manfredi, del fu Principe di Taranto, e a Corrado, un tempo Conte di Caserta, che trovansi carcerati nel castello di Santa Maria del Monte, non sarebbe un onore dove per insufficiente sostentamento ch’essi per mezzo tuo giusta le disposizioni della Curia hanno a ricevere, dovessero morir di fame (fama peribunt); mentre pure l’essere rinchiusi in carcere e il macerarvi (maceratio) da sì lungo tempo, dev’essere abbastanza per loro. »
Un anno più tardi s’incontra l’ultimo de’ rescritti dello stesso Re che sia giunto sino a noi. Il 25 giugno 1299, il Re fece pervenire al cavaliero Guglielmo De Ponciac l’ordine seguente: «Con altro scritto abbiamo comandato al cavaliero Giovanni Picicco, nostro castellano a Santa Maria del Monte, di liberare, senz’altro, dietro tua requisizione i figli di Manfredi, del fu Principe di Taranto, incarcerati nel detto castello e di liberamente consegnarli a te. Epperò ti ordiniamo, al ricevere del presente, di richiedere a quel castellano di rilasciarti i prigionieri. A ciascun di essi farai fare un vestito conveniente, e poscia sotto la scorta di un cavaliero o di altra persona adatta li manderai a noi, dopo averli forniti di cavalli su’ quali verranno cavalcando, condotti però per la briglia, e provvisti del danaro necessario perchè giungano sino a noi qui, in Napoli. »
Il lungo tragitto a cavallo da Castel del Monte a Napoli, attraverso il bel paese de’ padri loro e loro proprio e legittimo retaggio, sotto la sferza dei calori estivi, non dovette essere per i poveri prigionieri poco tormentoso, tuttochè allora, per la prima volta, dopo che durante quasi tutta una vita d’uomo erano stati rinchiusi fra le tetre mura del carcere, fosse loro concesso di godere per più lungo tempo dell’aria e della luce. Se cercarono conforto al grande tormento con la speranza, che in fine l’ora della liberazione era prossima a scoccare e che il Re li avrebbe consegnati ai loro parenti aragonesi, il disinganno che li aspettava giunse tanto sollecito quanto amaro. Imperocchè Carlo II li fece rinchiudere in Castel dell’Ovo, nel luogo medesimo ove già innanzi per anni parecchi era stata prigione la sorella Beatrice.
Gli accordi e le nuove relazioni stabilitesi fra le potenze e le dinastie che, venute su di recente, s’erano impadronite del mondo, non seppero per gli ultimi eredi legittimi di Federico II trovare altro posto se non il carcere, nel quale dovettero morire. Nè Aragona, ne l’Imperatore tedesco della casa degli Habsburg, che la maestà dell’Impero ebbe vilmente assoggettata al dispotismo autoritario della Chiesa; nessuno, insomma, si curò mai di strappare le vittime dalle mani del loro carnefice. Già Rodolfo di Habsburg aveva dovuto solennemente proclamare che egli giammai non farebbe vendetta degli Hohenstaufen ai danni del re di Napoli; e dopo di lui anche Alberto fu costretto a rinnegare ogni pensiero che in modo pratico accennasse a simile vendetta. Neppure un papa fece mai sentire la sua voce in pro dei derelitti. Senza alcuna compassione, con quel freddo, calcolato ed altero compiacimento, tutto proprio ai preti, nel riguardare il compimento casuale delle loro scomuniche e maledizioni, la Chiesa lasciò che la stirpe di Federico II sino all’ultimo rampollo perisse e scomparisse intera. Non l’aveva essa forse scomunicata codesta stirpe, dal primo sino all’ultimo de’ membri suoi, qual covo di vipere, sature di veleno?
I figli di Manfredi furono dal mondo assolutamente abbandonati e dimenticati. Intorno alla lor fine corsero racconti leggendarii parecchi, ma non fondati sopra alcun dato di fatto. Gli uni pretendevano che nel Duomo di Canosa, non lungi dalla tomba del principe Beomondo, due pietre indicassero la sepoltura di Federico ed Enzo. Altri invece affemavano che il primo di questi due fosse addirittura riuscito con la fuga a scampare in Egitto. Se non che Giuseppe del Giudice, nel suo eccellente lavoro, "La famiglia di re Manfredi", ha provato con l’aiuto di documenti che Federico ed Enzo o Azzolino morirono a Napoli in Castel delI’Ovo tra il 1300 e il 1301; per lo meno 1’8 di ottobre di quest’ultimo anno non erano più in vita. Ed egli ha mostrato altresì che la morte non venne a liberare il misero Enrico da’ suoi tormenti nel carcere medesimo prima del 31 ottobre 1318. Sicchè Enrico viveva ancora quando Dante compose il luogo famoso del Purgatorio, ove fa parlare Manfredi. Il giusto ed immortal poeta ignorava che allora in uno de’ sotterranei di Castel dell’Ovo giaceva ancora un discendente di Manfredi (6).
Tale il destino de’ figli di Manfredi. E un misfatto orribile, che pesa sugli Angioini, su questi, in veste di picchiapetti e baciapile, mercenarii crudeli de’ preti: un misfatto dal quale deriva per loro vergogna ben altrimenti maggiore che non sia l’aver fatto decollare Corradino!

III

Mi è già occorso di dire che Castel del Monte, dagli Angioini in poi, fece parte della contea di Andria. Carlo I lo fece meglio fortificare che prima non fosse, e lo provvide di una guardia di trenta uomini. Le opere di fortificazione saranno consistite in mura e in fossi, de’ quali oggi è scomparso ogni vestigio. Il castello venne poscia in possesso de’ Balzo, degli Aragonesi, de’ Caraffa. Per lungo tempo ancora si mantenne in condizioni abitabili. Da documenti ci vien fatto apprendere che il re Ferdinando I di Aragona, neil’anno 1459, allorchè si fece incoronare a Barletta, soggiornò non meno di un mese a Castel del Monte.
Sembra che il castello non sia più stato abitato dopo il saccheggio di Andria per opera di Lautrec. I primi a devastarlo devono essere stati allora i Francesi. Se la cosa sta realmente così, il vandalismo onde si mostrarono animati ad Eidelberga, sarebbe anche raggravato per le gesta compiute a Castel del Monte. Pare nondimeno che i Caraffa lo abbiano fatto restaurare, e se ne siano serviti ancora come luogo di villeggiatura o come castello di caccia. Il fatto è che nell’anno 1656, all’infierire della peste in Andria, tutta la famiglia de’ Caraffa cercò rifugio in Castel del Monte, e vi stette un mezzo anno.
Il tempo del completo abbandono non è possibile indicarlo con precisione. All’abbandono successe in fine la devastazione senza riguardo nè pietà. Nessun custode fu messo a proteggere le magnifiche sale contro le bestiali incursioni e distruzioni di campagnuoli e pastori. La corte, la cisterna, le stanze furono rovistate e messe sossopra in cerca di nascosti tesori. Le lastre di malmi preziosi onde le pareti erano rivestite, furono mandate in frantumi. Anche malandrini e masnadieri fecero del castello di Federico II il loro nascondiglio. Solo la circostanza di non essere un bene senza padrone, ma proprietà de’ Duchi d’Andria, lo scampò dall’estrema ruina. Infatti i Caraffa continuavano a portare il titolo di principi di Castel del Monte; e il titolo rimane ancora oggi, qual distintivo del primogenito della casa. Tutte le loro possessioni in quelle contrade furono dai Caraffa alienate: il solo castello ritengono, forse a causa del titolo che ne dipende, forse pure per l’impossibilità di trovare compratori di una ruina che non produce alcun frutto. Al castello non è annessa neppure una zolla di terra: il principe di Castel del Monte non possiede qui altro che le nude pareti.
Il sindaco di Andria mi disse che questo singolarissimo monumento dell’epoca degli Hohenstaufen si potrebbe averlo per poche migliaia di lire, e che v’era qualche speranza che il Comune di Andria s’indurrebbe a farne acquisto. Io scongiurai lui non solo, ma anche altri influenti signori, a voler per questa via e col concorso dell’amministrazione provinciale di Terra di Bari provvedere alla conservazione del monumento. Esso non è per anco diruto a segno che l’impiego di spese e di sforzi all’uopo abbia a riuscire oneroso oltre misura. Neppure il volerlo ridurre al pristino stato sarebbe impresa troppo difficile a realizzare. In fine l’edifizio intero in tutte le sue parti essenziali è ancora lì, in piedi.
Qualora Castel del Monte, un monumento che, come nessun altro, in modo così puro, così schietto, così vivace rappresenta un’epoca grande per questo paese, col non metter fuori, sia per sordida avarizia, sia per balorda indifferenza, la meschina somma di poche migliaia di lire, dovess’essere condannato alla totale distruzione, il danno e la vergogna sarebbero tutti della Puglia. Imperocchè scomparirebbe con esso non solo il ricordo monumentale del maggior potentato che il medio evo abbia visto, ma un edifizio nel quale l’architettura profana prima di Bramante toccò l’estremo culmine di una classica altezza. Essa infatti, passata l’epoca sveva, comincia a dar giù e decade.
La conservazione de’ monumenti storici, per chi guardi la cosa in modo pratico, non può essere oggi devoluta che alle cure de’ Comuni e delle Province, nel cui territorio quelli son situati; anzi, più che un ufficio, è questo un rigoroso dovere. Ciò, non ha guari, han mostrato di comprendere Ferrara e la provincia ferrarese, le quali acquistarono per proprio conto il celebre castello degli Este che il fisco aveva messo all’incanto. Non v’ha paese al mondo dove la ricchezza in fatto di monumenti storici abbondi così come in Italia. Di qui l’impossibilità per lo Stato di considerarli tutti come proprietà nazionali, sopraccaricando le già stremate finanze della spesa occorrente alla loro mautenzione. Il fisco li espone in vendita, perchè a lui che cosa importa de’ monumenti della storia? Allorchè il castello d’Astura, ove l’ultimo degli Hohenstaufen che avesse diritti regali, Corradino, nella sua fuga fu catturato da’ Frangipani e consegnato a Carlo d’Angiò, veniva dal fisco esposto venale al maggior offerente sul prezzo di lire cinquemila, io m’impegnai a Roma perchè la fiscale misura fosse revocata, ed ebbi infatti le più confortanti, le più liberali assicurazioni. Nondimeno, più tardi, Astura non fu risparmiato. Il castello è stato comprato dal principe Borghese, però sotto alcune condizioni, che egli, cioè, non vi possa fabbricare nè fare scavi senza il consentimento del Governo (7).

Il nostro ritorno a cavallo a Palese si chiuse con un banchetto casalingo e paesano di una profusione degna de’ Feaci. Pesci eccellenti del vicino Adriatico in varie guise ammanniti; pezzi di carne di grandezze che ricordavano le omeriche; ghiottonerie appetitose di latticinii delle Murgie; olive e altre frutta; in fine vini poderosi in alti recipienti di vetro; tutto ciò, insomma, che di più squisito, di più delicato il paese produce, era quivi imbandito. I nostri gentili ospiti ci assicurarono che non v’era nel desinare nulla che oltrepassasse la misura ordinaria, essendo così a un di presso tutti i giorni. I Pugliesi non mangiano che una volta al giorno. Io colsi l’occasione per osservare che se i Tedeschi hanno appo gl’Italiani voce di grandi mangiatori—i Tedeschi lurchi dice Dante— e non del tutto senza fondamento, perchè in fine mangiano parecchie volte al giorno, pure tutti i pasti giornalieri di una famiglia borghese in Germania, messi insieme, non sono da paragonare, per quel che vi si consuma, con l’unico desinare, ogni ventiquattr’ore, di una famiglia pugliese.
La sera, il signor Marchio volle accompagnarci ad Andria. Ivi il sindaco, signor Leonetti, fu di nuovo a riceverci, per quindi il mattino susseguente farci compagnia sino a Trani. Così prendemmo commiato da questo bel paese, portando con noi il più gradito de’ ricordi: quello di una ospitalità veramente splendida.

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NOTE
(2) Ad eruditi napoletani, segnatamente al Forges Davanzati, al Del Giudice e al direttore del grande Archivio di Napoli, Camillo Minieri Riccio, del quale ci tocca rimpiange la perdita recente, si devono la ricerca e il ritrovamento nell'Archivio di Stato degli Angioini de' documenti che spandono luce su' casi della regilla Elena e de' suoi figli.
(3) Del Giudice, il benemerito ricercatore della storia di Napoli del periodo onde qui si discorre, nel suo scritto "Don Arrigo Infante di Castiglia" (Napoli, 1875), è di opinione che Carlo nell’incontro con Elena non le tenesse mica proposito del progettato matrimonio; ma la richiedesse solo, benchè indarno, di rinunziare a Corfù e ad altri diritti. Intanto il medesimo Del Giudice ha dato fuori a Napoli ne] 1880 un altro scritto "La famiglia di re Manfredi", narraziione storica di alto pregio, ricca di impoltantissime notizie, cavate tutte dagli archivi angioini. Peccato che l’edizione sia stata di non più di cento eselnplari!; numero, in vero, insufficiente troppo per le richieste deg1i studiosi della storia.
(4) Così il MINIERI RICCIO nel suo scritto: "Alcuni fatti riguardanti Carlo I d’Angiò", Napoli, 1874, pag. 10. Ed anche DEL GIUDICE nel "Codice diplomatico degli Angioini", I, 124, fondandosi su di un rescritto reale del 2 luglio 1269, concernente il mantenimento di Elena, e nel quale neppure si parla de’ figliuoli, giunge alla stessa conclusione, che la madre dovess’essere allora già separata.
(5) Il rescritto è stato pubblicato da DEL GIUDICE, "Apologia al Codice diplomatico", e più recentemente dal MINIERI RICCIO, "Il regno di Carlo I d'Angiò negli anni 1271 e 1272", Napoli, 1875. Del Giudice nota che Elena vi è chiamata sorella del Despota, il padre Michele essendo morto, e dalla fine del 1267 regnando in Epiro il fratello di lei.
(6) Vedi DEL GIUDICE, op. cit., pag. 321.
(7) A mia grande sorpresa e con mio vivo compiacimento il Governo Italiano si è pure indotto, in sullo scorcio del 1875, a comprare Castel del Monte per la somma di ventimila lire. Così adunque il castello di Federico II vien conservato pei presenti e pei posteri.

[tratto da "Nelle Puglie, con notarelle di viaggio del traduttore“ di Ferdinand Gregorovius, traduzione di Raffaele Mariano, Ed. G. Barbera, Firenze, 1882]
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