Capitolo XI

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da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi" - Vol. I

di Michele Agresti (1852-1916)

Capo XI

(anni 1606-1632)

Sommario:
— Atroci lotte tra il Vescovo Franco e il Duca d'Andria Antonio Carafa;
—i ricorsi al Re di Napoli, Filippo III, ed al Papa Paolo V;
— trattative di pace fra il Vescovo ed il Duca, incaggiate dall'Arcivescovo di Bari e dal Priore di Capua Vincenzo Carafa, zio del Duca Antonio;
— fallite le trattative di pace, il Vescovo Franco chiede alla S. Sede la traslocazione in altra Diocesi;
— il P. Reatino della Compagnia di Gesti, ed il P. Fra Domenico della Madre di Dio, carmelitano scalzo, consigliano il Vescovo Franco di non abbandonare la diocesi di Andria; morte del Duca Antonio Carafa, indi del Vescovo Franco;
— opere del Vescovo Franco, per rapporto a fatti religiosi della città e del Capitolo della Cattedrale [scoprimento della Immagine di Mater Gratiae];
— [Componenti del Capitolo Cattedrale in questo torno di tempo; storia dell'arcidiacono Vangella];
— Fabrizio Ill Carafa succede al padre, Antonio, nella duchea di Andria: dopo breve tempo a Fabrizio succede il suo primogenito Allonia, e dì lì a pochi mesi, il secondo genito Carlo, per la morte di Antonio: Mons. Caputo succede al Vescovo Franco, e, nell'anno seguente, al Caputo succede Mans. Strozzi;
— divergenze fra Mans. Strozzi, il Capitolo cattedrale ed i Religiosi Domenicani e Francescani di Andria, par riguardo alle processioni: Rescritto dalla S. Cong. del Concilio circa le distribuzioni corali: nuove liti fra il Capitolo della Cattedrale, Collegiate, ordini religiosi e Confraternite della Città, circa l'associazione dei defunti: trasferimento del Vescovo Strozzi alla Sede Vescovile di Saminiato, e causa di tale trasloco.


Atroci furono le lotte fra il Santo Vescovo Antonio Franco, ed il Duca d’Andria Antonio Carafa, figlio di quel Fabrizio II, che tanto filo dette a torcere al buon Vescovo Resta!
Già fin dalla morte del Vescovo Bassi, essendo Vicario Capitolare il Canonico della Cattedrale D. Marino Ciappetta, il Duca Antonio Carafa si arbitrò di mandare un suo Commissario, per nome Brancaleone, a fare lo spoglio di tutto ciò che appartenevasi al defunto vescovo Bassi, appropriandosi il frutto di 64 versure (ettari) di terreno seminatoriale, appartenente alla Mensa Vescovile, che andar doveva a vantaggio del successore vescovo Franco. Questi, avvisato in Roma (ove ancor trovavasi, prima di venire in Andria) dall’Economo D. Giuseppe Ciappetta, fratello del Vicario Capitolare, e Canonico ancor lui della Chiesa Cattedrale, ne fe ricorso al Re di Napoli, a mezzo del Nunzio Apostolico, ottenendo l’ingiunzione al Duca, di restituire quanto indebitamente erasi appropriato. Intanto, non volendo il buon Vescovo inaugurare il suo Vescovado in Andria, con atto di ostilità al Duca, che reggeva la città, preferendo la concordia all’interesse, ordinò da torna ai suoi Procuratori, che lasciassero in pace il Duca, consentendo, che ritenesse pure il frutto di quell’anno sulle 64 versure della Mensa Vescovile. La Duchessa madre, D. Maria Carafa, fu tanto grata a quell’atto di generosità del Vescovo, che inviò espressamente a Napoli il Primicerio di S. Nicola, D. Giov. Luigi Curtopassi, per indurre il Duca suo figlio a ringraziare, per lettera, il Vescovo, per quell’atto di generosità. Il Duca, invece, unitamente a suo zio Vincenzo Carafa, Priore di Capua, giurò un odio satanico contro il Vescovo Franco, per l’accusa fattagli al Re.
Venuto intanto Mons. Franco qui a prendere possesso della sua sede vescovile, a dì 26 Marzo 1604, fu ricevuto dal solo Clero e dal popolo dei contadini, non recandosi ad incontrarlo, secondo l’usanza, nè la Università, nè i nobili, e nè i civili della città, i quali eransi astenuti per non incorrere nell’odio del Duca! Il Vescovo, non volendo pregiudicare la costumanza del solito ricevimento dovuto ai Vescovi, pensò fermarsi presso i Padri Benedettini della Badia di S. Maria dei miracoli, senza entrare in città. Senonché, il secondo giorno dal suo arrivo, il fratello del Duca, Scipione Carafa, unitosi al Sindaco, agli Eletti della città ed a gran parte dei nobili e civili cittadini, per consiglio dell’ottima sua Madre Duchessa, si recò in gran pompa a quella Badia, per ossequiare ed invitare il Vescovo Franco a fare il suo solenne ingresso nella città [1]. Il Vescovo di buon grado vi accondiscese, e giunto in Duomo, salito sul pergamo, recitò uno splendido discorso, nel quale profetizzò l’atroce guerra, che veniva ad incontrare in Andria, mentre Egli si presentava ad annunziare la pace. Però, se sono apportatore di pace ai buoni, esclamava in quel discorso il Vescovo, vengo a portare pure la guerra ai tristi, servendosi del detto di Cristo, non veni pacem mittere sed bellum [2].
Quel discorso, mentre incontrò la generale approvazione, e, più di tutti, dell’ottima Duchessa madre e del impareggiabile fratello Scipione, fu la scintilla, che suscitò l’incendio nell’animo perfido del Duca Antonio Carafa, il quale, da quel dì, giurò vendetta al Vescovo ed ai suoi medesimi fratelli Scipione e Vincenzo, i quali, mal sopportando la cattiva condotta di Antonio, si appartarono da lui; e, seguendo l’impulso della divina grazia, Vincenzo entrò nella Compagnia di Gesù, e Scipione nella Religione di S. Benedetto. Di lì a poco, la piissima Duchessa Madre, Donna Maria Carafa, dati a Dio i due suoi ottimi figli Vincenzo e Scipione, non potendo ancor essa più oltre tollerare la cattiva condotta del figlio Antonio, qual novella Sinforosa, disprezzando la vanità del mondo, ancor Ella si monacò, chiudendosi nel Monistero della Sapienza in Napoli, dove santamente chiuse i suoi giorni [3].
Scomparsa da Andria la piissima Duchessa Madre, e i due ottimi fratelli Scipione e Vincenzo, il Duca Antonio II, datosi nelle braccia dei suoi perfidi consiglieri, raddoppiò le sue ostilità al Santo Vescovo Franco, al Clero di Andria, ed a quanti non parteggiavano per lui. … Non basterebbero due grossi volumi, se tutte volessimo qui narrare le peripezie di quella deplorevole ostilità, che durò per ben 18 anni! Basta dire, che quel perfido Duca manteneva una compagnia di Briganti, appostata nelle camere attigue alla Chiesa del SS. Salvatore, in contrada Trimoggia, pronti ad aggredire e trucidare quel Santo Vescovo!
Intanto, non riuscendogli di poterlo direttamente offendere, travagliava impunemente Preti, famigliari del Vescovo, e quanti erano a questi devoti. I Preti della Cattedrale furono i più presi di mira, perché più da vicino al Vescovo! Li faceva catturare di notte tempo nei proprii domicilii, inventando delitti ed accuse, per giustificare il suo operato. Fè pure aggredire il Vicario del Vescovo, non che i suoi fratelli e parenti; fe carcerare il Canonico D. Nunzio Rimedio, maestro di casa del Vescovo, ed anche i suoi congiunti; fe imprigionare il Fiscale della Curia, D. Lorenzo Altezza, ed i suoi congiunti. Il Cameriere, il cocchiere, e quanti erano al servizio del Vescovo tutti furono da quel perfido Duca malmenati, facendoli girare per la città ammanettati, preceduti dal suono di una tromba! [4].
In vista di tanta crudeltà e perfidia, tutti abbandonavano il povero Vescovo, e nessuno più voleva prestarsi al suo servizio! Il buon Vescovo intanto, ispirandosi alle parole di Cristo: beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam, quoniam ipsorum est regnum cœlorum, tutto pazientemente soffriva; ma non poté fare a meno di denunziare alla S. Sede tutti i soprusi, che commettevansi, a danno degli Ecclesiastici e della Chiesa, da quel perfido Duca, e dai suoi non meno perfidi consiglieri, specialmente dal un tal Notaio Pompilio de Risis, uomo di tale sceleratezza e depravazione di costumi, che solea sottoscriversi Pompilio del Diavolo! Il Cardinal Borghese (che fu poi Papa Paulo V.) fe denunziare il Pompilio del Diavolo alla Congregazione del S. Ufficio della Universale Inquisizione, la quale ordinò, che fosse imprigionato nel carcere episcopale [5]. Imprigionato il Pompilio del Diavolo da un tal Francesco Longobardi, addetto alla Corte Episcopale, tutta la città esultò di gioia, per vedersi liberata da quel cattivo arnese … Non così però il Duca Antonio Carafa, il quale, visto di non poter riuscire con le minacce ed ostilità a liberare dalle mani della Inquisizione il suo amico e consigliere Pompilio de Risis, si appigliò al partito di affettare sottomissione al Vescovo. A tal uopo interessò suo zio, il Priore di Capua, ad intercedere presso il Vescovo, perché liberasse dalla prigione il De Risis, promettendo il Duca emenda dei suoi falli. Il buon Vescovo, ben-ché fosse convinto di quella simulata emendazione, pur tuttavia, a dar prova di sua benevolenza, supplicò il Tribunale della Santa Inquisizione a favorire, per quanto fosse possibile, il De Risis. E quello, tenendo conto della raccomandazione del buon Vescovo, limitò la pena a cinque digiuni in pane ed acqua, a quattro visite alle sette Basiliche Romane, alla recita della corona per un anno continuo, ed a sei mesi d’esilio da Andria, condonata anche quest’ultima pena, per intercessione del medesimo Vescovo, ch’erasi recato, in quell’anno, a Roma ad sacra limina.
Tornato in Andria il Notar del Diavolo, anzicché umiliarsi, unitosi al Duca, ripigliò con più accanimento la guerra al povero vescovo Franco, ed agli Ecclesiastici, specialmente del Capitolo Cattedrale. Non potendo allora il Vescovo più tollerare tanta perfidia, ricorse alle censure canoniche, e fe affiggere per la città i cedoloni della scomunica contro i Ministri del Duca. Si querelò questi presso il Metropolitano, Mons. Corsi, Vescovo di Bisceglie, amministratore della Metropolitana di Trani, (essendo allora la sede vacante). Il Metropolitano, non sappiamo se amico del Duca, o uomo di nessuna entità, senza ascoltare l’altra parte, unitosi a tutta la Corte Ducale, preceduto da trombettieri, e seguito da gran numero di cavalli e cavalieri, recossi in Andria, dove giunto, imprudentemente fe strappare dalle pareti della città quei cedoloni, annuzianti la scommunica! Dolente il vescovo Franco di quest’atto imprudente di Mons. Corsi, che avea corso troppo nel mettere la falce, come suol dirsi, nella messe altrui, tosto spedì corriere a Roma, ad informare la S. Cong. dei Vescovi e Regolari dell’accaduto; e questa, accogliendo le giuste lamentanze del vescovo Franco, per ordine diretto di S. Santità, dichiarò nullo ed irrito l’operato del Metropolitano, ingiungendo a questo, di notificare, per autorità apostolica, la scomunica al Sig. Scipione Laboria, Governatore della città; al Sig. Filippo Filante, Giudice ducale; a tutti gli ufficiali della città, ed a tutti i Ministri e Governatori della Corte ducale, condannando questi ultimi, di recarsi a Roma, per ottenere l’assoluzione.
Informato di quanto accadeva in Andria anche il Re Cattolico Filippo III, che trovavasi allora nella Spagna, fe chiamare a Napoli, dal suo Vicerè, il Priore di Capua Vincenzo Carafa e suo nipote, il Duca Antonio, imponendo loro di mutar registro di vita, se non volessero vedersi umiliati, tanto più che, per causa loro, cominciavano ad insorgere serii disgusti fra la S. Sede ed il Re Cattolico.
Il perfido Duca Antonio, anzicché umiliarsi a quel rimprovero, prese occasione, per denunziare al Vicerè, il Vescovo Franco, qual perturbatore dell’ordine pubblico in Andria, supplicandolo, pel bene della città, di rimuoverlo da questa sede vescovile!
Intanto, per ingraziarsi l’animo del Vicerè, promise di essere, per l’avvenire, più rispettoso verso il Vescovo, e che, ritornato in Andria, avrebbe punito i colpevoli, che l’aveano oltraggiato, all’insaputa sua (?!). E, difatti, appena fatto ritorno in Andria, primo suo pensiero fu quello di recarsi ad ossequiare il Vescovo, promettendogli, per l’avvenire, stima ed obbedienza. … Ma il lupo è sempre lupo, ad onta che cangiasse il pelo!
In questo tempo accadde, che il Vescovo, avendo fatto traslocare il Coro del nostro Duomo dalla nave della Chiesa, (dove prima era sito), dietro l’altare maggiore, dove è attualmente, fece pure costruire il nuovo Pergamo (che poggiava su d’un Pilastro, che sosteneva l’antico Coro), facendolo situare in cornu Epistolæ, giusta il nuovo cerimoniale, laddove prima il Pergamo era in cornu Evangelii. Nel trasferire il Coro ed il Pergamo fu necessità dover trasferire pure, da destra a sinistra, il trono Episcopale e la predella con la sedia ducale, restando questa a livello del trono episcopale, di fronte al Pergamo. Nell’Avvento di quell’anno (1605) il Vescovo Franco ascoltò la predica in Duomo, assiso sul suo trono, destinando al Duca (che volle assistere ancor lui alla predica) la sedia messa sulla predella, accanto al trono vescovile. Il Duca Antonio, mal tollerando quella distinzione, e volendo che il Vescovo si sedesse accanto, sulla predella, delegò il nobiluomo Fabrizio Quarti a querelarsene col Vescovo, il quale fe rispondere al Duca, che, dovendo, dopo la predica, impartire la benedizione al popolo, secondo richiedeva il cerimoniale, bisognava fosse assistito dai canonici, e, perciò, non poter sedere sulla predella col Duca, ma bensì sul trono. Il Duca s’acquietò per allora.
Venuta poi la Quaresima dell’anno consecutivo (1606), Mons. Franco, perché non succedessero nuove rampogne col Duca, fe’ situare, di fronte al pergamo, una predella con tre sedie, la prima con cuscino pavonazzo per se, e le altre due con cuscini di color turchino pel Duca e pel Marchese, suo Cognato, dando ordine al suo Cerimoniere di custodire quella predella, con istruzioni che, venendo il Duca ed il Marchese, prima di Lui in Chiesa, gli avesse offerta la seconda e terza sedia, serbando pel Vescovo la prima.
Giunta l’ora della predica, il Duca ed il Vescovo s’incontrarono lungo la nave della Chiesa, avviandosi cortesemente verso la predella, preparata per essi, dove giunti, il Vescovo invitava il Duca ed il Marchese ad occupare la seconda e terza sedia, occupando egli la prima. Allibì il Duca, ma tacque per allora …
Ritornato, però, appena in casa, inviò il solito dottor Fabrizio Quarti a fare le sue rimostrane al Vescovo, tanto pel posto, che diceva essergli stato usurpato, quanto per la diversità di colore dei cuscini!, e non più si recò a predica in Chiesa, minacciando il suo odio a tutti i civili della città, se si fossero recati in Chiesa ad ascoltare la predica in quella Quaresima!
Il Vescovo intanto, tenace difensore dei suoi diritti, fece togliere quella predella dalla Chiesa, e fe costruire sul suo trono un sontuoso Baldacchino, donde tutti i giorni di quella quaresima, ascoltava la predica. Roso dalla rabbia il Duca, studiava il modo come togliere la vita al povero Vescovo. … E, per prima, si servì di tre scellerati nostri concittadini, Flavio de Pavonibus, Lucio Quarti ed Ottavio Mele. Una sera, a notte avanzata, questi tre cattivi soggetti presentaronsi al palazzo vescovile, sotto il pretesto di trattare segreti affari col Vescovo; e, mentre Lucio Quarti ed Ottavio Mele restavano in anticamera, Flavio de Pavonibus, armato di pugnale, che aveva nascosto sotto i suoi panni, si avanzò nella camera, dove l’attendeva il Vescovo, il quale, irradiato da un lume soprannaturale, comprese pur troppo di che si trattava; e, senza punto scomporsi, abbracciò quel perfido, ed ebbe parole di tanta efficacia, che quell’assassino, tocco nel cuore, si prostrò ai piedi del Santo Vescovo, bagnandoli di lagrime, consegnando nelle sue mani l’arma micidiale, confessando essere un mandatario del dottor Fabrizio Quarti, esecutore degli ordini del Duca!
Altri attentati seguirono, che noi omettiamo per brevità; ma, la Dio mercè, senza alcun funesto risultato.
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Intanto i soprusi seguivano ai soprusi, gli odii agli odii ed il povero Vescovo era divenuto il bersaglio di tanta cattiva gente, che, ciecamente, l’osteggiava, per non incorrere nello sdegno del duca Antonio Carafa!
In questo stato di cose, il Vescovo pensò allontanarsi dalla città, prendendo residenza in Trani, facendo venire in Andria, da Bologna, qual Vicario Apostolico, Mons. Ercole Mariscotti, uomo dottissimo e di nobil Casato, sperando, che la sua assenza avesse fatto cessare le ostilità. Ma non fu cosi. La partenza del Vescovo fu, invece, causa di maggiori disordini, che posero la nostra città in grande scompiglio.
Da una lettera, che il Vicario Apostolico Mons. Mariscotti dirigeva a Mons. Gissi, allora Segretario della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, ognuno potrà apprendere sino a che punto eran giunte le cose qui in Andria, in quel tempo, e fin dove arrivava la perfidia di quei Baroni, che tenevan soggiogate le città.
Riportiamo i brani più salienti di quella lettera:
« … Molto aff.mo e Rev.mo Sig. mio Colend.mo,
Giunsi in Andria Martedì S. del presente settembre 1606 …
Quel che ho trovato è, che il Vescovo è amato universalmente da tutti … et, si bene molti fuggono la sua casa, et quelli che governano la città spesso scrivono contro di lui per timore del Duca, quale è molto in rotta con il Vescovo, per causa della precedenza, et altri particolari, … talché ne nascono ogni di molte esorbitanze, et quello che al presente ha bisogno di rimedio è che avendo il Governatore della città preso carcerato il Cocchiere del Vescovo, che alloggia in una stanza del palazzo vescovile … et non solo presero molte robe, perciò fu comminata la scomunicazione latæ sententiæ amplius non auderent molestare familiares Episcopi nec amplius accedere ad dictam cameram Palatii Episcopalis … qual monitòrio intimato al Governatore et al Duca … il Governatore andò a scopare et rompere detta camera … che vi succedette che iniecit manum in uno Sacerdote Camerlingo della Corte del Vescovo, et al Vicario, che per impedirlo, dalle finestre del Palazzo Vescovile li ricordava il monitorio e la scomunica rispondeva con parole disoneste con dire che se la ficcava in …, (omettiamo le parole, per decenza) … E oltre al Cocchiere prese pure la moglie, la socera, et il cognato et li condusse in prigione. … Per il che il Vicario lo dichiarò scomunicato, affiggendo li Ceduloni, quali poi furono levati via, con altri edicti, che stavano affissi per la città. … Inoltre per fare dispetto al Vescovo fece frustare le dette donne moglie e socera del Cocchiere, mandandole per prima uscita attorno il Palazzo vescovile con una mitra di Vescovo sul capo. … Si fe’ perciò un Monitorio che nissuno praticasse con detto Governatore … quel monitorio mentre si affiggeva alla porta della Cattedrale dalli deputati a detto ufficio, venne il Governatore il quale risentito, mentre metteva mano alla spada, il Prete Carmelingo d. Orazio Santeremo gli gittò in faccia la pignata (pignatta) della colla, che teneva in mano per attaccare il monitorio; il Governatore li corse dietro in Chiesa, ma non l’havendo giunto diede una ferita con la spada in faccia ad un altro povero vecchio sacerdote et li tagliò il mustaccio con tre dita della mano destra, voltato poi ad un altro Sacerdote che fuggiva fuor della Chiesa, lo seguì per buona parte della città et essendo quel povero Sacerdote entrato in casa di un gentil’huomo lo sopraggiunse dandoli una coltellata, che per relazione del Medico è pericolosa di morte [6]. … Detto Governatore quondam fu sbandito da Roma per haver falsificata la mano all’Ill.mo Cardinale Aldo Brandino in una lettera al Serenissimo di Savoja et che habbia detto molte parole hereticali contro il Papa et li Cardinali …, (non riproduciamo quelle parole, per rispetto al Papa ed ai Cardinali, e per rispetto al pudore dei lettori!) … Però non dovendosi questi eccessi dissimulare fabbricato il processo all’Audienza di Trani a ricevere il braccio secolare, volendo io osservare la forma del Concilio di Trento di procedere prima alla pena corporale l’ho fatto citare pei rostri videndum declarari incidisse in excommunicationem et ad subiiciendum se examini per la causa spettante al Santo Officio …
Andria li 15 Settembre 1606, di V. S. Rev.ma et obbl.ma Ercole Marescotti.»
Parrebbero favole tali fatti, che accadevano in quei tempi del feudalismo, se non esistessero i documenti!
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)
[1] L’Universita, pel primo ingresso del novello Vescovo, solea far costruire, ogni volta, un nuovo Baldacchino, che veniva poi sostenuto da otto eletti del Comune, in quel solenne ingresso, Quella volta, però, per secondare i cattivi consigli del Duca Antonio, ne fece senza, servendosi di un vecchio Baldacchino del nostro Capitolo. (Dal libro della Persecuzione di Mons. Franco, pag. 32).
[2] Questo splendido discorso meriterebbe esser reso di pubblica ragione, per la sua bellezza, (Vedi pag. 33 — 36, libro citato).
[3] L’unica figlia femmina, per nome Porzia, era già andata sposa al Duca D. Francesco Pignatelli, che ebbe l’alto onore di veder sulla Cattedra di Pietro il suo figlio Antonio, che prese il nome d’Innocenzo XII.
[4] Esiste nel nostro Archivio un grosso volume, intitolato Persecuzione di Mans. Franco, dal quale abbiamo rilevato quanto qui narriamo, e narreremo in questo capo.
[5] In virtù delle leggi ecclesiastiche, ed anche civili, di quel tempo, i vescovi avevano facoltà di punire chiunque attentasse alla immunità ecclesiastica; e di poter tenere anche un locale, destinato a carcere, nel proprio palazzo vescovile.
[6] I Sacerdoti feriti dal Governatore, il quale nomavasi, Naccari furono d. Orazio Santeramo della Cattedrale, d. Leonardo Altissimo e d. Giovanni Giacomo Topputi della Collegiata di San Nicola, come risulta dal medesimo libro delle Persecuzioni del Vescovo Franco.

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Intanto il povero Vescovo Franco, dopo aver esposto al Papa ogni cosa, mosse alla volta di Napoli, per informare il Re, a mezzo del Nunzio Apostolico, mentre in Andria nuovi soprusi si commettevano a danno dei Preti [7].
I più accaniti persecutori del Vescovo Franco, emissarii del Duca Antonio Carafa, furono i cittadini Fiore, Francesco Tesoriero, Donato Longo, Notar Pompilio de Risis, Paulo Cirece, Baldassarre Accetta, Giov. Battista Cinno, Colangelo Tota, Federico della Porta, Medoro Paglia, Appio Vangella, Filippo Filantes, Dottor Fabrizio Quarti, Giov. Battista Vaccaro, Flavio de Pavonibus, Carlo d’Adesso, Giov. Battista Ciappetta e Giovanni Mancini, alcuni appartenenti al Patriziato Andriese ed altri al ceto dei civili.
Informato il Papa, allora Paulo V, dello stato delle cose di Andria, ordinava al Nunzio di Napoli, Mons. Vescovo di Pavia, che avesse fatto istanza al Vice Re ed ai Ministri Regii di punire severamente quei delinquenti.
Saputo ciò il perfido Duca, scrisse un Memoriale di accuse contro il Vescovo ed il Vicario Apostolico Marescotti, obbligando l’Università e tutti i cittadini a sottoscriverlo. Il Vice Re, D. Giovanni Alfonso Pimentel, dava intanto ordine, al Regio Commissario Luigi Xarova di portarsi in Andria, per costatare de visu lo stato vero delle cose, con pieni poteri di punire i delinquenti, e procedere contro di essi usque ad sententiam et executionem inclusive, et etiam alla deroccazione di loro case, dandogli pure facoltà di fare banno (ossia mandar pubblico avvisatore per la città) promettendo taglione di docati doicento (pari a L. 85o) a qualsivoglia persona che darà in mano della Real Corte chi si rendesse e contumace dopo la citazione a comparire [8].
Il Duca, avuto notizia di ciò, tenne presso di sé nascosti tutti i caporioni, responsabili dei fatti accaduti.
Intanto, sopraggiunto l’Avvento, il Vescovo, fidando nell’opera del Regio Commissario, pensò far ritorno da Napoli in Andria. Saputosi ciò dal perfido Duca, fe appiattare il Governatore Naccari, con altri suoi più fidi complici, nei pressi di Cerignola e Canosa, col disegno di assassinare il Vescovo, nel suo passaggio per quella località. Ma la Provvidenza, che veglia e protegge i Giusti, fe trapelare quel perfido disegno ad alcuni Canosini, i quali, dato l’allarme alla città, col suonare a stormo le campane, fecero accorrere sul luogo numerosa gente armata, che si dette ad inseguire quei perfidi assassini, i quali, lasciando armi e tabarri, si dettero a precipitosa fuga.
Scampato la Dio mercé, da quel pericolo il vescovo Franco, metteva piede in Andria a dì 28 Novembre di quell’anno 1606, seguito, dopo tre giorni, dal Regio Commissario Capitano Xarava, il quale, fatto subito le prime indagini, fe arrestare molti cittadini, fra i quali il Giudice di Andria, il Dottor Giovanni Lonardo; il fratello del Governatore, Giuseppe Naccari; il Sindaco Giov. Francesco Tesoriero e gli eletti Dottor Alfonso Conoscitore, Dottor Fabrizio Quarti, Appio Vangella, Giov. Maria Guadagno ed altri. Il Governatore Naccari ed altri caporioni eransi resi latitanti. Mentre però continuavano gli arresti, il Regio Commissario Capitano Xavara fu richiamato a Napoli dal Vicerè, per l’opera influente del Priore di Capua Vincenzo Carafa, zio del Duca Antonio.
Intanto il Papa, volendo mettere termine a questo deplorevole stato di cose, diè incarico all’Arcivescovo di Bari, Mons. Decio Caracciolo, (parente di Sua Santità) per conciliare il Vescovo col Duca. A tal uopo l’Arcivescovo di Bari si portò a Capua, per trattare l’affare, prima col Priore di quella città, Vincenzo Carafa, zio del Duca, invitando il vescovo Franco ad intervenirvi insieme.
Partito da Andria il Vescovo, il perfido Governatore Naccari, uscito dal suo nascondiglio, in compagnia dei complici, si recò al Palazzo vescovile, dove, fatta scassinare, con una lima sorda, la ferrata della prigione ecclesiastica. pose in libertà un frate agostiniano, per nome Angelo Coscia, già condannato dal S. Officio, perché ritenuto un negromante ed invasato dal diavolo. Quel diabolico frate, secondo leggesi nel sopradetto libro, senza essere presente, minutamente informava i persecutori del Vescovo di tutto quel che questi operava o pensava! Era questo frate, secondo narra nella sua relazione il medesimo vescovo Franco, un fattucchiere, un diabolico scellerato, rotto ad ogni vizio; esercitava gli incantesimi per ammaliare le donne per trovare i tesori: indovinava cose occulte e future! Era stato, perciò, imprigionato dal vescovo Franco per ordine del S. Officio, insieme a due altri frati zoccolanti, Fr. Ludovico Campagna e Fr. Antonio di Bari, ed il laico Ilderico Vito Mezzafalce di Andria.
Di questi cattivi arnesi voleva servirsi il Duca ed il Governatore Naccari, per conoscere quel che il Vescovo pensava ed operava a loro danno; perciò furon messi dal Naccari in libertà!
NOTE   
[7] Un tal Nunzio Curtopasso, con nodoso bastone, aggredì il fiscale del Vescovo, D. Tommaso Vitaliano di S. Nicola, mentre entrava in coro per la recita del Vespero!
[8] Le lettere originali del Vice Re, che sono riportate nel citato libro, sono tutte in lingua Spagnuola, essendo allora Napoli sotto la dominazione di Filippo III, Re di Spagna.

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Intanto, durante l’assenza del Vescovo, il Duca fece arrestare un tal Francesco Bolognese, servitore del Vicario Marescotti, perché cingeva la spada al fianco, come Camerlingo della Corte Vescovile [9], Il Vicario se ne querelò col Duca, minacciandogli la scommunica, in conformità della Bolla: Cenæ Domini; ob violentam carcerationem et detemptionem Camerarii et …, se non avesse messo in libertà il suo servitore. Di qui nuovi odii, nuove liti a Roma ed a Napoli.
L’Arcivescovo di Bari, intanto, continuava a Napoli le trattative di conciliazione fra il Vescovo ed il Duca. Profittando un giorno della presenza del Vescovo, andato a celebrare nella Chiesa di S. Giovanni a Carbonara in Napoli, l’Arcivescovo indusse il Governatore Naccari (che trovavasi anche a Napoli) a profittare di quell’occasione, per appaciarsi col Vescovo, consigliandolo a prostrarsi ai suoi piedi, implorando perdono nel ritorno che faceva il Vescovo in Sacrestia, dopo la celebrazione della Messa.
Il Naccari, difatti, per ottenere il suo intento, da volpe astuta, simulando resipiscenza, attese in Sacrestia il Vescovo, e, buttandosi ai suoi piedi, fra simulati singhiozzi, esclama: Erravi erravi sicut ovis quæ periit; quære, quære servum tuum quia mandata tua non sum oblitus … Commosso il Vescovo a quell’atto, gli si butta al collo, ed abbracciandolo affettuosamente, lacrimando, risponde: et Dominus transtulit peccatum tuum; trattenendolo poscia in famigliare colloquio; e promettendo di ottenergli dalla S. Sede l’assoluzione di tutte le censure. Ottenuto questo primo successo l’Arcivescovo Caracciolo, volle tentare anche il secondo, persuadendo il Duca a far pace col Vescovo. Il Duca volentieri accettò tale proposta, ma alla sola condizione che il Vescovo avesse dato alle fiamme tutto il Processo, iniziato contro di Lui e dei suoi, con i relativi documenti e memorie dei fatti accaduti, rilasciando anche in libertà tutti gl’imprigionati, ed i latitanti.
Il Vescovo accettò la seconda parte, ma non la prima, ben conoscendo l’animo perfido del Duca, il quale voleva così distruggere tutti i documenti compromettenti. A quel rifiuto il Duca rispose con nuove ostilità, che per brevità omettiamo.
Dopo di ciò, il Vescovo pensò recarsi espressamente a Roma, per informare personalmente il Papa dello stato intollerabile di cose, in cui versava la città, per opera del Duca Carafa. Ma il Nunzio di Napoli lo dissuase, per non mettere legna al fuoco contro il Governo del Re Cattolico, il quale era allora alquanto scosso, per gli abusi di questi baroni, ed anche per non dare pretesto ai Veneziani, i quali, in ogni tempo, facevano aspra guerra al Re Cattolico Filippo III di Spagna. Il Vescovo, ascoltando i consigli del Nunzio, chiese allora licenza di prendere residenza in Postiglione, sua patria, sino a che il Duca ed i suoi adepti non avessero fatto emenda dei loro falli, e non fosse tornata la pace fra loro.
Intanto l’Arcivescovo Caracciolo (Cognato della Marchese di S. Elmo, sorella del Priore di Capua Vincenzo Carafa, zio del nostro Duca Antonio), profittando del ritiro del Vescovo, senza alcuna delegazione, né di questi, né della S. Sede, si porta in Andria, ed emana sentenza di assoluzione a tutti i delinguenti, e di censura all’operato del Vescovo e degli Ecclestastici, che avevan provocato il Governatore Naccari, lanciandoli sul viso la pignata della colla!
Avutone avviso il vescovo Franco di tale operato inqualificabile dell’Arcivescovo, ne fe un esposto al Papa, il quale annullò la sentenza dell’Arcivescovo di Bari, ingiungendogli di non più ingerirsi negli affari d’Andria, ed incaricando suo nipote, il Cardinal Borghese, di scrivere parole di conforto al buon vescovo Franco, per tanti travagli, che riceveva dal Duca e dai suoi perfidi consiglieri; ciò che il Cardinal Borghese fece con Rescritto del 24 Luglio 1607.
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Intanto, a smentire le calunnie, che il Duca propagava nella città, a danno del Vescovo, dicendo d’esser stato dal Papa deposto, e che perciò si fosse ritirato a Postiglione, Mons. Franco, a dì 7 Settembre di quell’anno 1607, si partì da Postiglione, giungendo in Andria il dì 9 di detto mese, ricevuto trionfalmente dal Clero e dal popolo, il quale recossi ad incontrarlo a dieci miglia di distanza dalla città con cinquanta cavalli a sua disposizione. Giunto nella città, fra le lagrime ed i singhiozzi del popolo, un grido feroce di esecrazione ruppe dal petto di tutti i popolani contro i persecutori di quel santo Vescovo. Questo grido fu segnale di una nuova pretesa provocazione pel Duca, il quale, inferocito, pose il terrore in tutta la città. Mandava in giro briganti armati, i quali, senza pietà, imprigionavano, e poi trucidavano, nelle carceri, quanti erano sospettati amici del Vescovo! Per cui tutti fuggivano il palazzo vescovile, come un luogo appestato!
Più di tutti furon presi di mira, da quel perfido Duca, i Preti della Cattedrale, i quali erano sorvegliati e pedinati dalle spie ducali, registrando i nomi di quelli che salivano il Palazzo Vescovile, i quali venivano poi aggrediti e mandati al trabocchetto [10], costruito appositamente nel palazzo ducale; in modo che tutti, per tema di perdere la vita, si guardavano perfin dal passare nei recinti del palazzo vescovile! Se il Vescovo entrava in Chiesa, i Preti immediatamente scappavano via! (Incredibilia sed vera!)
Ai medici fu inibito di visitare ed assistere il Vescovo ammalato! … ai venditori il provvederlo di commestibili o altro, a chiunque, di salutarlo nel suo passaggio per la città. Insomma fu tale il terrore sparso nella città, e furon tanti gli abusi di quel perfido Duca, che molti dei suoi più intimi partigiani, (gran parte dell’aristocrazia), e quasi tutti gli amministratori della città furon presi da tale disgusto che, scossi dalla propria coscienza e dal senso di umanità, segretamente inviavano proteste di devozione e d’ammirazione al martire Vescovo! Entrato il Duca in sospetto di questi segreti accordi, molti ne faceva carcerare e torturare! Fra questi vi fu il Dottore Flavio de Excelsis, il Dottor Giacomo Morselli (al quale sequestrò pure parecchie migliaia di scudi), i Signori Claudio Alessio, Angelo de Tota ed Orazio Colucci, che ne morì di crepacuore per lo spavento! Fe singolarmente perseguitare quasi tutti gli amministratori del Comune (di quel Comune, che avea prestato 15 mila ducati al bisavo del Duca Antonio per l’acquisto della duchea!), fra i quali, Serio de Maestro, che fece barbaramente trucidare a colpi di coltello in un orrida prigione, dove l’avea fatto prima rinchiudere! Molti altri fece avvelenare! Insomma si usavano violenze inaudite, delitti raccapricianti; e la città viveva nel terrore e nello squallore! Principali emissarii del Duca erano i fratelli Riccardo e Pompilio Quarti, Giov. Paolo Mele e Flavio de Pavonibus, morto, quest’ultimo, dopo qualche mese, improvvisamente fra le braccia di una meretrice!
NOTE   
[9] In quel tempo i Vescovi del Napolitano avevano anche la giurisdizione temporale nelle Chiese, quali Inquisitori e delegati del Papa. È perciò che avevano, nel loro palazzo, la prigione ed una famiglia armata, che rappresentava la Corte Episcopale.
[10] Il trabocchetto era un ordegno a guisa di cataratta, che, al peso della persona sovrapposta ad esso, si apriva in vertiginoso giro, mandando il disgraziato a precipizio in un fosso sottostante, dove orribilmente periva.

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In vista di queste atrocità il povero vescovo Franco, a risparmiare tante vittime, sacrificate per causa sua, domandò alla S. Sede il trasloco ad altra Diocesi; ed ispirandosi al profeta Giona, così scriveva quel santo Vescovo: se a sedar la tempesta, suscitata dai miei avversarii è pur necessario che io sia gittato in mare, son pur contento, purché torni la pace e la santità a questa mia diletta città. Saputosi ciò dal Clero e dalla cittadinanza, tutti, ed eccezione dei perfidi ducali, giurarono di esporre la loro vita a difesa del Vescovo, anzicché consentire che Egli si partisse da Andria. E, riunitosi in generale assemblea il Clero ed i più distinti personaggi della Città, prescelsero due Sacerdoti, il Canonico D. Giuseppe Simeone della Cattedrale ed il Cantore della Collegiata di S. Nicola, D. Giuseppe Renzullo, per recarsi a Roma ai Piedi di S. Santità Paulo V, per supplicarlo, che non accogliesse le dimissioni del santo Vescovo, e perché mettesse riparo ai tanti mali, che cagionava alla Chiesa ed alla città di Andria quel perfido Duca. Fu presentato un memoriale, sottoscritto da gran numero di cittadini e dal Clero, portante la data del 20 Ottobre 1607 [11]. Per brevità, presentiamo solamente i nomi dei firmatarii della Cattedrale «Arciprete Tarquinio Cocco, Primicerio Pomponio Morsella, Canonici Nunzio Papilillo, Alfonso lo Tuccio, Lorenzo di Fermo, Santo Demistrone, Alfonso de Robertis, Giov. Francesco Senise, Gregario Malex, Franc. Cirullo, Giov. Pietro Topputo, Giulio Ciappetta, Prospero Ricca, Giov. Antonio Guadagni, Giuseppe Simeone, Franc. Superbo, Franc. Roccia, Giov. Nunzio di Gioia, Geronimo Lodi, Donato Acquaviva, Pietro de lo Sito, Ricc. Dilullo, Aless. d’Aquino, Vincenzo Fortuna, Paolo d’Aquinio, (inintelligibile …) Filippo Manna, Giov. Donato Tinocco, Marino Ciappetta, Franc. Zagaria, Giov. Sala, Ricc. Picentino, Ricc. dello Monaco, Fran. Paolo Rimedio, Franc. Paolo Aloisy, Giov. Sala» [12].
Altre suppliche furono inviate al Papa dalle due Collegiate di Andria, e da varii ceti di cittadini.
Ma il Duca, anzicchè arrendersi a tante dimostrazioni di affetto e di devozione al Vescovo, più imperfidiava, e spediva direttamente al Re Filippo III, nella Spagna, ed al Papa Paulo V, a Roma, suoi libelli diffamatorii contro il Vescovo, scrivendo, tra l’altro, che manteneva una famiglia armata, di armi proibite, che aggrediva di notte tempo innocenti cittadini, accusando pure i Preti: che andavano girando, notte tempo per i balli e per i bordelli! …
Il Papa, che ben conosceva la santità del Vescovo e la perfidia del Duca, non dette ascolto ai suoi libelli. Ma il Re Filippo vi credette, e mandò monitorio al Vescovo perché smettesse la sua gente armata, ed ordine al Duca di disarmarla e punirla! Ricevuto un tal monitorio il santo Vescovo, rivolto al suo fedele Arciprete D. Tarquinio Cocco, sorridendo, esclamò: Arciprete, induratum est cor Fharaonis, et non vult dimittere populum meum, nisi in manu forti. … Indi, a smentire le calunnie del Duca, scrisse al Vice Re di Napoli, che facesse conoscere al Re Filippo il Cattolico, che le armi erano il Crocifisso, la Vergine Santissima, l’Angelo Custode ed i Santi Protettori. Che, se mantenava una famiglia armata (non di armi proibite) ciò era in conformità delle leggi dello stato, ed a sua personale difesa, quale inquisitore; ma che, però, di quelle armi, mai avevano fatto uso i suoi uomini.
Intanto, vedendo sempre più insostenibile la sua dimora in Andria, a 22 Ottobre di quel medesimo anno 1607, Mons. Franco partiva alla volta di Napoli, ed indi a Roma [13]. Saputo ciò il perfido Duca, temendo che il Vescovo si recasse a Napoli ed a Roma, per accusarlo al Re ed al Papa, usò di uno stratagemma, per impedirne la partenza. Transitando il Vescovo per la via dei Cappucini (oggi via Trani), accompagnato da tutto il Clero, e da gran parte del popolo, presso la Chiesa del Convento dei Cappuccini, gli si presenta il P. Guardiano, un tal P. Marco da Bari, pregandolo di soffermarsi, giacché nel prossimo Convento l’attendeva Giov. Battista Naccari, reduce da Ruvo [14], il quale doveva communicargli, da parte del Duca, una nuova di grande rilievo, assai vantaggiosa pel Vescovo.
Ciò inteso il buon Vescovo, ad onta che prevedeva qualche altro inganno, pure, rammentandosi di Cristo, che, cum dilexisset eos qui erant in mundo, in finem dilexit eos, unito al P. Guardiano, penetrò nel Convento dei Cappuccini, sulla di cui soglia trova prostrato al suolo il Governatore Naccari, che stringendosi ai suoi piedi, lo scongiura, a nome del Duca, di non partire, aspettando, almeno, che venisse pria il medesimo Duca, il quale era pentito sinceramente di tutti i suoi falli, e che, appena sarebbe in Andria, verrebbe a chiedergli perdono, avendo pur conosciuto d’esser stato ingannato nel combattere un Vescovo così santo; assicurandolo pure che, nel recarsi a Napoli, si sarebbe incontrato con suo zio, il Priore di Capua, il quale aveva piene facoltà dal Duca, di trattare la conciliazione, che egli ciecamente e sotto qualsiasi condizione avrebbe accettata!
Il Vescovo, accogliendo con la solita bontà il Naccari, che, con simulate lagrime, chiedevagli perdono anche per sé, lo assicurò che andando a Napoli, avrebbe ben volentieri trattato la conciliazione, per conto del Duca, col suo zio, Priore di Capua. Difatti, giunto a Napoli, ed incontratosi col Priore di Capua, questo si mostrò tanto deferente verso il Vescovo, sino a baciargli la mano, ed invitarlo a prender stanza nel suo proprio Palazzo! Intavolate le basi della conciliazione, fu convenuto, da ambo le parti, che il Duca avesse notificato tale conciliazione all’Università ed a tutta la cittadinanza andriese, al Clero, ai Servi del Vescovo, assicurando tutti che, per l’avvenire, li avrebbe onorati e favoriti, mettendo in libertà quelli che ancora si trovano nelle prigioni, e richiamando da Roma e da Napoli tutti i suoi difensori, avvocati ecc. … Dall’altra parte il Vescovo si obbligava di richiamare pure da Roma e da Napoli tutti i suoi difensori ed avvocati, e di scrivere una lettera pastorale affettuosa al Duca.
Stabilita così ogni cosa, mentre stavasi per redigere un pubblico atto, il Priore Vincenzo Carafa venne fuori col dire di non firmare quell’atto, se prima il Vescovo non avesse dichiarato di esser pronto, dopo qualche tempo, a rinunziare la Chiesa di Andria in favore di un tal Padre Canonico Regolare, di Casa Gambacorta, fratello del Marchese della Cilenta! Questa strana pretesa irritò giustamente il vescovo Franco, il quale sdegnosamente si ritirava, dichiarando, che la sua dignità non gli consentiva sottoscrivere quell’atto di viltà, impostogli dal Priore di Capua!
Intanto, dolenti dell’accaduto il Cardinal Montaldo ed il Patriarca di Sangro, residenti in Napoli, i quali si erano tanto cooperati a quella conciliazione, ne fecero le loro rimostranze al Priore di Capua, e riuscirono a farlo riappaciare col vescovo Franco, venendo indi alla stipula di quel convenuto, sottoscritto da ambo le parti, rogato a Napoli a dì 6 Febbraio 1608 [15].
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Mentre ciò accadeva in Napoli, il Duca Antonio Carafa, senza alcun permesso del Vescovo, invitava a predicare, nella Quaresima di quell’anno, un Padre Domenicano, nella Chiesa di S. Domenico, per fare dispetto al Capitolo della Cattedrale ed alla Collegiata di S. Nicola, che avevano invitati i loro quaresimalisti, nelle rispettive Chiese, a predicare, secondo il solito. Onde accadde, che, recandosi il Duca a predica nella Chiesa di S. Domenico, traeva seco tutti i cittadini, spinte o sponte, facendo restar deserte la Cattedrale e la Chiesa di S. Nicola, dove nessuno più recavasi alla predica, tanto più, che questa aveva luogo nella medesima ora, in cui predicavasi in S. Domenico. Avuto di ciò notizia il Vescovo a Napoli, fortemente se ne dolse, ivi, col Priore di Capua, mentre erasi stabilito, che suo nipote, il Duca, non dovea affatto ingerirsi negli affari ecclesiastici della città. Intanto, recatosi a Roma Mons. Franco, trovò che il Notar Pompilio De Risis, anzicché tornarsene in Andria, giusto il convenuto, andava girando per le Congregazioni e per i Cardinali, disseminando calunnie contro il Vescovo, e presentando memoriali di accuse [16]. Indignato Mons. Franco, recossi ai Piedi del Papa, per rinunziare alla sede di Andria, chiedendo, in grazia, il trasloco in altra sede. Il Santo Padre Paulo V, che ben conosceva quanti travagli soffriva il buon vescovo Franco, per opera del perfido Duca, a rimunerarlo, dié ordine al Cardinal Mellino, Prefetto della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, ed a Mons. Hostensio, Segretario della medesima Congregazione, di pensare al trasloco del vescovo Franco, appena si presentava l’occasione.
Intanto, a premiarlo della sua longanimità e della sua operosità, dié ordine al suo Vice gerente, Mons. Cesare Fedele, che avesse pensato a conferire un’alta distinzione al vescovo Franco.
Mons. Fedele, convinto che la persecuzione, anzicchè personale, era locale, avendo fatto altrettanto i predecessori Duchi di Andria contro i vescovi anteriori, né volendo dare alcuna soddisfazione al Duca Antonio Carafa, col traslocare da Andria il vescovo Franco, pensò, invece, di aggiungere alla Chiesa di Andria qualche altra Chiesa vicina [17], accioché il Vescovo, perseguitato in Andria, avesse potuto rifuggiare in altra città di sua Diocesi, ed avere, nel caso, aiuto, contro i persecutori di Andria, dai diocesani di altra città vicina. Quindi, propose al Papa, l’unione delle Chiese di Cerignola, di Canosa (era allora Canosa nullius dioecesis), di Carbonara, di Monteverde e di Nazaret, appartenente all’Arcivescovado di Barletta.
Accettata tale proposta dal Papa, l’unione non ebbe poi più luogo, perché la Chiesa di Cerignola era stata promessa, ad istanza del Cardinal Ginnasio, a suo nipote l’Arcivescovo di Manfredonia, cui Mons. Franco non volle fargli alcun torto; quella di Canosa (in quel tempo Canosa era una piccola cittadella) fu rifiutata dal vescovo Franco, perché di nessuna importanza, e l’aria era malsana; quella di Nazaret era allora in amministrazione del Cardinal Barberino, il quale non sembrava disposto a cederla al nostro vescovo Franco. Vi rimanevano quindi Carbonara e Monteverde.
NOTE   
[11] Archivio Capitolare.
[12] Fra quei capitolari firmatarii manca l’Arcidiacono, che era, in quel tempo, D. Pietro Paolo Conoscitore ed il Cantore, che era Nunzio Curtopasso, L’arcidiacono Conoscitore forse non sottoscrisse, perché allora ammalato, difatti morì il dì 8 Luglio 1608, alquanti mesi da quella data. Il Cantore, poi, Giov. Nunzio Curtopasso, non volle sottoscrivere a quella supplica, perché intimo. amico del Duca, e fratello a quel Curtopasso, che aggredì e ferì il Canonico Vitagliano nella Chiesa di S. Nicola. Questo Cantore Giov. Nunzio Curtopasso fu uomo perfido, ed acerrimo avversario del Vescovo. Cadde in molte censure ed irregolarità, per cui fu privato dalla partecipazione dei frutti della massa capitolare. Chiese poi l’assoluzione alla S. Sede, e l’ottenne, senza però aver ottenuto i frutti della massa capitolare, dei quali era stato privato dal Vescovo, per tutto il tempo in cui fu legato dalle censure. Il Canonico Antonio Longo fu pure un acerrimo nemico del vescovo Fracco, tenuto da questi per lungo tempo prigione nel carcere vescovile, per la sua cattiva condotta. Egli era Priore delta Chiesa di Porta Santa, giacché, in quel tempo, non erano fusi i due Priorati, quello di Porta Santa, su cui godeva il giurispatronato l’Università di Andria e quello della Cappella di S. Riccardo, per cui nessun dritto di patronato aveva esercitato mai l’Università. Quella confusione avvenne in prosieguo, per opera del Duca e dei suoi preti partigiani, per concedere all’Università il giurispatronato anche sulla nomina del Priore, quinta dignità capitolare, volendosi immischiare il Duca in tutti gli affari ecclesiastici.
[13] Il nostro Capitolo, a testimoniare la sua devozione ed affetto al buon Vescovo Franco, gli offrì 100 scudi (per le spese di viaggio), che il buon Vescovo dové accettare, per le replicate insistenze del Capitolo.
[14] Il Duca Carafa era pure Conte di Ruvo.
[15] Questo stipulato è riportato nel detto libro delle Persecuzioni, a pagina 707.
[16] Questo De Risis, per avere più facile accesso presso i Cardinali e le sante Congregazioni, vestiva l’abito talare! Saputosi dal Papa, fu fatto imprigionare nelle carceri di Roma.
[17] La Chiesa di Andria, in quel tempo, formava Diocesi a sé, senza altra annessione. La Chiesa di Montepiloso, ora Irsina, per qualche tempo, era unita ad Andria; ma, nel tempo di Mons. Franco, era già disgregata.

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Intanto il Santo Padre, ad evitare nuovi conflitti, pregò il vescovo Franco di far residenza in Roma, in attesa di un’altra promozione, pur ritenendo l’amministrazione della diocesi di Andria.
Or, trovandosi in Roma Mons. Franco, un bel dì il P. Indico Guevara della Compagnia di Gesù (forse per insinuazione del Duca) venne a proporgli di rinunziare la sede di Andria a favore dello Spagnuolo Fr. Emanuele Vigliehos Spinelli, agostiniano, il quale avrebbegli ceduto duemila dugento scudi romani, all’anno, dalla rendita della mensa vescovile di Andria, lasciando a sua libertà di poter vivere tranquillamente in Roma, o nella Corte di Spagna (donde ne veniva lo Spinelli) liberandosi così dalla persecuzione di quel Duca.
Il vescovo Franco rispose, di volersi prima consigliare con Dio, a mezzo della preghiera, e poi con uomini di santa vita, prima di accettare quella proposta. Ma, saputosi la cosa dal Papa, questi, considerando che, tolti 2200 scudi dalla rendita della mensa vescovile, poco restava al Vescovo successore, per poter attendere, con zelo, al suo ministero, propose al vescovo Franco, o di accettare la Sede più onorata di S. Miniato (allora vacata), o di mantenere quella di Andria, con residenza in Roma.
Prima di decidersi nella scelta Mons. Franco, a tranquillità di sua coscienza, volle consultare il P. Realino della Compagnia di Gesù, uomo di santa vita, tenuto in concetto di santità, il quale trovavasi a Lecce. Quindi, premessi otto giorni di esercizi spirituali, nella Chiesa di S. Andrea al Quirinale di Roma, a mezzo del P. Innico di Guevara, della Compagnia di Gesù, fece pervenire una lunga lettera al P. Realino, esponendogli tutta la sua vita, tutti i travagli patiti, chiedendogli consiglio sul da fare per l’avvenire. Il P. Realino rispose al Vescovo con la seguente preziosa lettera, che qui riproduciamo [18].
«Iesus Maria - Pax Christi,
Alla lettera et al foglio di V. S. dopo haverne fatte orationi rispondo in Domino Iesu quel che siegue.
Molto m’edifica l’humiltà che nella narrativa mi si scopre sì chiaramente, onde convien ch’io speri dalla Divina Bontà efficaci aiuti ai bisogni propostimi.
Parer mio è dunque, che V. S. stia nello stato et officio, che canonicamente tiene, né lo spaventi persecutione poiché non est sibi coram Deo conscius d’esserne egli cagione, anzi mi persuado io, che inquirat pacem, e sta disposto a dar segno di paterno amore a tutti, usandovi ogni pastoral sollecitudine intus et extra.
Questo intendo io e lo consiglio, pur rimettendomi sempre, e l’assicuro, che quotidiano pensiere havrò nelle Messe et orationi di tenerlo raccomandato a Dio nostro Signore et alla materna intercessione della Beatissima Vergine, della quale scrive S. Bernardo nel 2° sermone sopra il Missus est. O quisquis te intelligis in hujus, sæculi profluvio magis inter procellas et tempestates fluctuare, quam per terram ambulare, ne avertas oculos a fulgore hujus sideris, si non vis obrui procellis. Si insurgent venti tentationum, si incurras scopulos tributationum, respice stellam, voca Mariam. Et anco più longo discorre in questo con la sua solita soavità piena di zucchero.
Con che al N. fa cordial riverenza la mia vecchiezza.
Di Lecce 9 di Settembre 1608
Servo in Cristo
Bernardino Realino

a tergo

Raccomandata al Molto Reverendo Padre Innico di Guevara della Compagnia di Gesù - ROMA.»
Avuta tale risposta, il Vescovo Franco, pria di decidersi, se tornare in Andria, giusta il consiglio del P. Realino, o di accettare la promozione alla Sede di S. Miniato, propostagli dal Papa, volle ancora consultare un altro uomo di Dio, il P. Fra Domenico della Madre di Dio, Carmelitano scalzo.
Non sappiamo qual fosse stato il consiglio di quest’altro santo uomo, giacché, da quel volume, nulla risulta, chiudendosi, fin qui, la narrazione, contenuta in quel libro. Ma, certamente, quel servo di Dio dov’è consigliare il Vescovo Franco, a far ritorno in Andria, come, difatti, vediamo che Egli continuò a tenere questa sede sino al 1625, nel qual anno, il buon Vescovo Franco passò a miglior vita.
Di questo Vescovo scrive l’Ughelli che: præfuit laudabiliter annis fere 21. Egli fu tumulato nella nostra Cattedrale [19]. Di lui parla il Ferrante, Duca della Marra, nel trattato delle famiglie napolitane.
In tutto il periodo di tempo, che passò dal 1608 sino al 1625, epoca della morte del Vescovo Franco, nessun’altra notizia riscontriamo circa i rapporti del Duca col Vescovo. Pare che, finalmente, il Duca Antonio Carafa avesse messo giudizio, lasciando in pace il buon Vescovo Franco, che tanto bene fece alla nostra Chiesa, come diremo in seguito.
Intanto il Duca Antonio Carafa aveva menato moglie, sposando la signorina D. Francesca De Lannoy, figlia del Duca di Boiano, dalla quale ebbe un figlio, che chiamò Fabbrizio, III di tal nome. Il Duca Antonio Carafa morì nel 1622, tre anni prima del Vescovo Franco, succedendogli nella Duchea l’unico figlio Fabrizio III, quinto Duca di Casa Carafa.
Era Re di Napoli, in quel tempo, Filippo IV di Spagna, nato nel 1605 da Filippo III e da Margherita d’Austria.
NOTE   
[18] L’autografo conservasi nell’Archivio Capitolare, in detto libro delle persecuzioni del Vescovo Franco, a pag. 915. Quella lettera è appena intelligibile, e ci è costato fatica nel riprodurla. Essa è una sacra reliquia di quel santo uomo, che già tu beatificato, e di cui si agita la causa della canonizzazione.
[19] Ughelli, loc. cit.

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Ritornando al Vescovo Franco, ci fermeremo ora a parlare dei fatti religiosi, che avvennero durante il suo laborioso ed agitato vescovado.
Già, fin dai primi anni del suo Vescovado, Mons. Franco, vedendo che tanti prodigi venivano operati da quell’Immagine portentosa della Madonna dei Miracoli, a raffermare sempre più la devozione verso la Vergine Santissima ed il suo Santuario, ed anche a confondere i pochi miscredenti, pensò istituire un rigoroso processo di tutti i prodigi, fino allora operati dalla Vergine, autenticandoli, dopo accurato esame e minuto scrutinio di essi, fatto da persone competenti del ceto laicale ed ecclesiastico. A tal uopo riunì tutta la parte più eletta dei cittadini andriesi, (fra i quali i Dottori Alfonso Conoscitore, Gianlorenzo Vitaliano, Gianantonio Curtopassi, ed altri) e del ceto degli Ecclesistici (fra i quali il Padre Fra Tommaso di Oliveto, Guardiano dei Cappuccini di Andria, uomo dottissimo, ed i canonici del Capitolo Cattedrale, Arcidiacono Pietro Paolo Conoscitore, Arciprete Tarquinio Volpone, D. Marino Ciappetta e D. Giampietro Palombolla), tutti uomini di specchiata virtù e dottrina. Dopo un lungo studio ed accurato esame di quei prodigi, ne fu fatta la ricognizione di essi, a dì 4 marzo del 1605, redigendo l’atto di autenticità, firmato dal Vescovo Franco, dal suo Vicario Generale D. Ferrante Del Giudice, e dai sopradetti dottori e canonici del nostro Capitolo [20].
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Sotto il governo episcopale di Mons. Franco, pare che parecchie quistioni fossero state agitate nel nostro Capitolo, per riguardo alla disciplina ecclesiastica. Difatti, troviamo che, dal Capitolo Cattedrale furono presentati alla S. Congregazione dei Riti i seguenti dubbii:
1. Se si potesse eliggere a Protettore della città un Santo, senza il consenso del Capitolo della Cattedrale, e senza l’approvazione della S. Congregazione dei Riti;
2. Se il Capitolo ed il resto del Clero fossero tenuti a recitare l’ufficio del Santo, dichiarato Protettore della città;
3. Se il Capitolo, stabilita l’ora per i divini ufficii, fosse tenuto ad attendere il Vescovo od il Vicario Generale, non venendo nell’ora stabilita;
4. Se i canonici della Cattedrale fossero tenuti rilevare il Vescovo dal proprio palazzo in abito canonicale, quando Egli non indossa la Cappa Magna;
5. Se il Vescovo, pontificalmente celebrando, possa obbligare i canonici della Cattedrale a servire di Mitra, libro, baculo, pastorale, bugia ecc.
affresco di Mater Gratiae
A tali dubii la S. Congregazione dei Riti, con Rescritto del 6 settembre 1621, rinspodeva:
Al 1. dubbio Non posse, al 2. Non teneri, al 3. Horam pro divinis officiis esse concordandam cum Episcopo; qua transacta, et dato prius signo cum campana, Episcopo vel Vicario tardante accedere, officia esse inchoanda, et successive proseguenda, etiam quod postea veniat Episcopus vel Vicarius: quo casu satis esse quod Episcopus a quatuor de Capitulo excipiatur in ostio Ecclesiae;
Al 4. dubbio: Canonicos teneri semper in habitu canonicali excipere Episcopum in propria aula venientem ad Ecclesiam cum- Cappa: sine Cappa vero canonicos, neque cum habitu, neque sine habitu canonicali teneri aut obligatos esse illum excipere in proprio cubiculo;
Al 5. dubbio finalmente fu risposto: Canonicos, in casu proposito, non teneri, nec posse cogi; sed haec munia peragenda esse per clericos inferiores, juxta dispositionem libri coerimonialis Episcoporum, lib. I, Cap. 2.
Die 6 septembris 1621 — Firmato T. Tegremius E.pus Assisien Segretarius [21].
Un altro dubbio troviamo pure d’esser stato presentato, in quel tempo, dal Capitolo, alla S. Cong. del Concilio, circa la partecipazione alle distribuzioni corali, per quei Canonici, che si assentano dal Coro, per assistere il Vescovo.
La S. Congregazione rispondeva: Duos praesbyteros, ut supra receptos, quamdiu pro Episcopi servitio abfuerint, lucrari debere duas tertias partes proventuum reddituum, amissa alia tertia, quae interessentibus accrescit. Prefectus Lardinalis de Tene [22].
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Durante ancora il governo episcopale di Mons. Franco, avvenne qui in Andria lo scoprimento della Immagine della Vergine, detta Mater Gratiae, nell’antica Cappella di S. Giovanni Battista, appartenente alla nobile famiglia de Majoribus, di Andria. Quella Cappella, da più d’un secolo, trovavasi abbandonata, per essersi, da lungo tempo, estinta la famiglia de Majoribus, cui apparteneva. Erasi quindi ridotta ad un pubblico immondezzajo! ... ... In quella Cappella eravi, però, dipinta una Immagine della Vergine, di greco pennello (sul medesimo stile di quelle riscontrate nella Grotta di Santa Margherita in lamys e dell’Altomare), appartenente, forse, alla medesima epoca dei Basiliani del secolo ottavo.
Ecco come avvenne lo scoprimento di quella Immagine.
Correndo l’anno 1624, la pia donzella Dorotea Vangella ebbe, in sogno, una visione della Vergine, la quale assai lamentava l’abbandono e la profanazione di una sua Immagine, indicandole il sito, dove essa ritrovavasi dipinta. La pia donzella, svegliatasi il mattino per tempo, primo suo pensiero fu quello di recarsi dal Vescovo Franco, a raccontare quanto la notte aveva appreso nel sogno, che le parve una vera visione! Il buon Vescovo, prestando fede alla pia donzella, ed ispirato forse pure da Maria, in compagnia di alcuni Sacerdoti si recò alla diroccata Cappella; e, fatto sgombrare quelle immondezze, ivi raccolte, scoprì, in realtà, dipinta sulla parete, la Immagine di Maria, avente tra le braccia il Divin Pargoletto; ed a piè leggevasi: Sancta Maria Mater Gratiae.
Sgombrata d’ogni cosa quella diroccatta Cappella, fu tosto messa in venerazione quella Immagine di Maria, la quale, al dire dello storico Durso, operò un primo miracolo, in persona di un cieco, cui restituì la vista [23]. Le oblazioni dei fedeli, e lo zelo del Vescovo Franco e degli Ecclesiastici concorsero poi a costruire quel tempio, che va ora sotto il nome della Chiesa di Mater Gratiae. Essa é sotto la tutela del Capitolo della Cattedrale, il quale delega due suoi Canonici a Rettori Cappellani di essa.
Il medesimo Storico Durso dice, che la investitura dell’altare maggiore di detta Chiesa era tutta a piastre di puro argento, e che nel 1760 quell’argento (unitamente agli altri utensili del medesimo metallo, cioè calici, candelabri, lampade, ecc., appartenenti a quella Chiesa) fu fuso in materiale per coniare monete [24].
NOTE   
[20] Quell’atto conservavasi nell’Archivio della Chiesa Vescovile, come ne attesta il Durso nella sua storia d’Andria (pag. 143).
[21] Dal libro delle cause pag. 430.
[22] Archivio Capitol. dal libro delle cause, N. 76, pag. 372.
[24] Loco citato.

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In questo torno di tempo componevano il Capitolo della Cattedrale i seguenti Sacerdoti:
«Arcidiacono Pietro Paolo Conoscitore cui successe d. Marzio Vangella, del quale or ora narreremo le sue singolari vicende! Arciprete era d. Tarquinio Cocco, uomo di profonda dottrina, laureato in Teologia e Dritto Canonico, già precedentemente Penitenziere della medesima Cattedrale. Egli morì nel 1617, cui successe d. Antonio Conoscitore, appartenente a famiglia patrizia andriese. Cantore era d. Antonio Guadagno, morto il 1603, cui successe Giov. Nunzio Curtupasso, che tanto filo dette a torcere al santo Vescovo Franco, per le sue relazioni col Duca Antonio Carafa, di cui era partigiano... Primicerio era d. Pomponio Marsella, cui successe Fran. Paolo Ri-medio: e, dopo breve tempo, Giovan Bernardino Sala, di cui nessuna notizia abbiamo riscontrata. Tre Priori riscontriamo d’ essersi succeduti in questo tempo (1596 - 1635), tutti tre di casa Di Tota, nobile famiglia andriese, cioè Pietro, Giovan Antonio e Giuseppe.
Canonici e Partecipanti erano i Rev. d. Prospero Ricca, Antonio Longo, Priore di Porta Santa [25], Giuseppe Simeone, Francesco Superbo, Pietro de lo Sito, Giov. Antonio Guadagno, Lorenzo Tuccio. Giov. Domenico Tinocco, Giov. Loiso Carbutto, Sante Mihone, Franc. Sinese, Fran. Anto. Rusco, Giov. Antonio Ciriece, Giov. Frane. Ciriece, Ottavio Marulli, Marino Ciappetta, Paolo d’Aquino, Giov. Vinc. Ricco, Alfonso Coluccio, Giov. Donato Tiuno, Franc. Rotolo, Nunzio Rimedio, Sante Robertis, Girolamo Loda, Giov. Vincenzo Malo, Ottavio Tinocco, Franc, Roccia, Giov. Nunzio di Gioia, Pietro Galantino (Teologo), Marcello Lilla, Giov. Vinc. Fortuna, Flavio Martino, Nunzio Papalillo, Pietro Topputo, Agostino Forte, Alfonso de Roberto, Giov. Vincenzo Manzi, Agostino Fortunato, Giov. Mancino, Giov. Pietro Palumbella (dottore in Teologia e Dritto Canonico), Giov. Donato Aybar, Natale Palumbella, Frarcesco Cirullo, Domenico Ciappetta (dottore in Teologia), Riccardo De Angelis, Aug. Antonio Picerno, Gregorio Gabriele, Annibale Forgia, Riccardo di lo Monaco, Giuseppe Tota (poscia Priore di S, Riccardo), Riccardo Picentino, Franc. Paolo Rimedio, Franc. Zagaria. Giacomo Sala, Franc. Giacomo Trimolante, Franc. Paolo Alessi, Giuseppe Sala, Franc. di Maggio, Giov. Bernardino Sala, Riccardo Casella, Giov. Maria Conoscitore, Paulo di Renzo, Franc. Tinocco, Franc. Colavecchia, Ottavio Ciappetta, Vincenzo Giuliano, Leonardi d’Apona, Franc. Angelo Guadagno, Riccardo Domenicantonio, Ricc. Pitoggio, Giov. Felice Ciampa, Giov. Andrea Palumbella, Nardo Sala, Angelantonio Cierno, Franc. Antonio Plessi, Leonardo de Ponte, Pietro Brudaglio, Riccardo Gurgo, Francesco Cirieci, Giov. Andrea Roccia, Giuseppe Lupicini, Gabriello Brudaglio, Leonardo l’Abbate, Riccardo Marchio, Agostino Palombella, Giuseppe Calcagna, Leonardo Guindolo, Marcello Carbutti, Franc. Vitaliano, Rodorigo Accetta, Riccardo Longo, Franc. Furibondo, Giulio Ballo, Giacomo Soromano, Frane. Pinetta, Vincenzo Brudaglio, Fabio Viso, Franc. Brunetti, Trojano Roccia, Nicola Albanese, Franc. Carbutti, Tommaso Palombella».
Ai tempi del Vescovo Franco era molto in fiore il nostro Capitolo, sia pel numero, sia per la qualità dei componenti, molti dei quali appartenenti alle più nobili famiglie di Andria, come Conoscitore, Tota, Vitaliano, Cocco, Ciappetta, Mione, Marulli, Aybar, Lupicino, Accetta ed altri; molti per dottrina, come l’Arciprete Tarquinio Cocco, Marino Ciappetta, Giov. Pietro Palumbella, Domenico Ciappetta, Pietro Galantino, Paulo di Renzo, Franc. Brunetti, Nunzio Rimedio, ed altri.
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Singolarissima è la storia dell’Arcidiacono D. Marzio Vangella, che fu il martello del santo Vescovo Franco e del Capitolo ancora. Vale la pena di narrare brevemente alcuni episodii della vita di questo Arcidiacono.
Ancora chierico, d. Marzio Vangella fu Vicario del Vescovo Mon. Bassi. Morto costui, e successogli Mons. Franco, il Vangella si ritirò in Roma, dandosi al buon tempo, mantenuto dal pessimo Duca Antonio II Carafa, per sostenere la guerra contro il Vescovo Franco, presso le Sacre Congregazioni Romane.
Morto a dì 8 luglio 1608, l’Arcidiacono della Cattedrale d. Pietro Paolo Conoscitore, il Vangella, incoraggiato anche dal Duca Antonio Carafa, pensò di volere ottenere la successione all’Arcidiaconato, a via d’intrighi, mediante la protezione di alcuni Cardinali e Prelati, amici suoi in Roma. Intanto, affinché il Vescovo (residente allora in Roma) non avesse avuto notizia alcuna della morte dell’Arcidiacono Conoscitore, sino a che non fosse riuscito ricevere la Bolla d’investitura, il Vangella scrisse al Duca, che avesse impedito, da Andria, qualunque comunicazione col Vescovo, residente in Roma. Il Duca non desiderava di meglio, per aver novella occasione di osteggiare ed umiliare il Vescovo Franco; per cui fu tosto organizzato, dai suoi ministri ducali, un rigoroso servizio di vigilanza, per modo che le lettere, spedite al Vescovo, a mezzo del Procaccio, venivano tutte intercettate!
Intanto il Vangella, ancor chierico, a mezzo del Cardinal Borghese (nipote del Papa Paulo V) e di Mons. Odoardo Santarelli, coi quali aveva contratto intimità di amicizia, riuscì ad ottenere la promozione all’Arcidiaconato della Cattedrale! Mentre il Cardinal Datario, Ari-gone, per le forti raccomandazioni del Cardinal Borghese, preparava già la Bolla Pontificia, per quella investitura, il Vescovo Franco, avuto di ciò notizia in Dateria, ne fece fare viva rimostranza al Papa, a mezzo di Mons. Pavonio, Maestro di Camera di Sua Santità e Segretario dei Memoriali, non ritenendo degno di essere assunto alla prima dignità del Capitolo Cattedrale un chierico, uomo ignorante e di depravati costumi, figlio di un Suddiacono, il quale, buttato alle ortiche l’abito talare, sotto il pretesto d’averlo preso per vim et metum, tolse moglie, dalla quale ebbe due perfidi figli, questo d. Marzio, ed Appio, uno dei più acerrimi persecutori del Vescovo e della Chiesa di Andria, mandatario del Duca Antonio Carafa! Informato di ciò il Papa, tosto fe’ sospendere la Bolla, ordinando il nil transeat in Dateria, per riguardo al Vangella, dando invece ordinanza di produrre la Bolla di quell’Arcidiaconato a favore d’uno dei due candidati, propostigli dal Vescovo, il dottor d. Marino Ciappetta, ed il Canonico d. Nunzio Rimedio, uomini di specchiata virtù e di singolare dottrina.
Vistosi il Vangella scoperto dal Vescovo, e privato di quell’ambita dignità, pensò buttarsi ai piedi di Mons. Franco, implorando perdono dei suoi falli passati, e promettendogli fedeltà e devozione per l’avvenire, giurando, a costo della sua vita, di voler essere il suo più fido difensore contro i suoi persecutori, e contro il medesimo Duca, tanto più che, come egli diceva, la sua nomina all’Arcidiaconato era stata già ben accolta dall’intiero Capitolo, mostrando, difatti, al Vescovo, una lettera, pervenutagli dal Capitolo, che confermava quanto il Vangella asseriva.
Sorpreso di tutto ciò Mons. Franco, in data 26 luglio 1608, scriveva, da Roma, una lettera al Capitolo, rimproverandolo acremente per non avergli notificata la morte dell’Arcidiacono Conoscitore, e per aver dato voto favorevole alla promozione del chierico Vangella, che egli non poteva, in buona coscienza, accettare a tale dignità. Ricevuta una tal lettera il Capitolo fe conoscere al Vescovo, che, non solamente il Procuratore Capitolare, ma ben anche il Vicario Generale, il Can. D. Marino Ciappetta, aveangli spedite lettere a Roma, notificandogli, appena avvenuta, la morte dell’Arcidiacono Conoscitore, ed esprimendogli, nel contempo la gran meraviglia, che quelle lettere non gli fossero pervenute (erano state intercettate dal Duca!) Quanto poi alla doglianza del voto favorevole, che il Capitolo aveva dato alla nomina del Vangella all’Arcidiaconato, si fece conoscere al Vescovo, che quel voto era stato dato solamente in omaggio alla sua espressa volontà, giacché il Vangella aveva scritto da Roma, che il Vescovo medesimo, saputa la morte dell’Arcidiacono Conoscitore, lo aveva prescelto a quella dignità, per le sue relazioni e protezioni che godeva in Roma, potendo essere di sommo vantaggio al Capitolo medesimo, e che già era stata dalla Dateria spedita la relativa Bolla! Avuto di ciò notizia il Vescovo a Roma, e conosciuta la perfidia del Vangella, lo allontanò da sé, dichiarando di non poter accogliere la sua nomina all’Arcidiaconato della Cattedrale.
Ma, ad onta di ciò, il Vangella versava fiumi di lagrime e non volea staccarsi dai piedi del Vescovo, se pria non l’avesse perdonato dei suoi falli! A smuovere il Vescovo nel suo proposito, si cooperarono anche il Cardinal Borghese, il Cardinal Datario Arigone e tanti altri illustri personaggi e prelati romani, amici del Vangella; tanto più che vedevano costui veramente pentito ed umiliato innanzi al Vescovo!
Il buon Vescovo, tenuto conto di queste alte raccomandazioni, perdonò al Vangella tutti i suoi falli; ma, quanto alla promozione all’Arcidiaconato, non volendo macchiare la sua coscienza, propose di sottoporlo ad un esame de ipsius idoneitate. A proposta dei suoi medesimi intercessori, fu prescelto ad esaminatore il P. Pietro Alagona, della Compagnia di Gesù, il quale, nella sua relazione, lo dichiarava ignorante non solamente in actu, ma anche in potentia, non avendo saputo dire neppure il significato di una lezione e di una orazione del Breviario!
Onde rilasciava il seguente attestato: Declaramus dictum Martium Vangella non esse idoneum neque habilem ad præsens ad obtinendam dignitatem Archidiaconalem Cathedralis Ecclesiæ Andriæ.
Ricevuta tal sentenza il Vangella, talmente se ne addolorò, che fu presso a morire. Il Vescovo, buono di cuore, ne fu preso da sentimenti di vera pietà, e recossi, più volte, a visitare il Vangella, che trovò sempre compunto dei suoi falli, e sempre dichiarante affetto e devozione al Vescovo, riconoscendo, in quella infermità, la mano di Dio che lo colpiva!
Intanto Iddio volle che il Vangella guarisse da quella grave infermità. I suoi amici e protettori, fra i quali i Cardinali Borghese, Arigone e Panfilio, a sollevarlo dall’abbattimento, in cui era caduto il Vangella, supplicarono il Papa di concedergli quel tanto agognato Arcidiaconato, pur dispensandolo dal concorso. Il Papa, però, accettando le raccomandazioni dei tre illustri Cardinali, lo rimise ad un esame del proprio Vescovo. Ma questi, conoscendo pur troppo la incapacità del Vangella, e non volendo farselo nuovamente suo avversario, declino quell’incarico, anche per non macchiare la sua coscienza.
Il Cardinal Datario Arigone, a farla finita, tenendo conto della laurea (?!!), che avea costui conseguita in Roma (?!!), e dell’ufficio di Vicario (?!!), che aveva esercitato presso il Vescovo predecessore, Mons. Bassi (?!!), credé poterlo dispensare da un nuovo esame, e gli spedì la Bolla del tanto ambito Arcidiaconato [26]Incredibiha sed vera
Divenuto Arcidiacono questo D. Nunzio, per nulla interveniva alla Chiesa ed al Coro, dandosi al bel tempo in villeggiatura, e vivendo, quasi tutti i mesi dell’anno, in Roma, dove aveva contratto relazioni con tutte le principali famiglie romane.
Intanto, residendo in Roma, o trovandosi in Andria, senza intervenire alla Chiesa, pretendeva d’essere ammesso alla partecipazione, sotto il pretesto che, stando a Roma, guardava gl’interessi del Capitolo; stando in Andria, vigilava alla sopraintendenza delle rendite della Chiesa, alla custodia delle suppellettili e del Tesoro della medesima! Il Capitolo ne fè ricorso alla S. Congregazione del Concilio, e Questa ordinava che, non solamente il Vangella dovea essere escluso dalla partecipazione, quando non interveniva alla Chiesa, ma che avesse anche restituito, a vantaggio degli altri assidui, tutto ciò che egli aveva indebitamente percepito, durante tutto il tempo, in*cui erasi assentato dalla Chiesa. Questo tipo di Arcidiacono morì nel 1626, dopo pochi mesi dalla morte di Mons. Franco.
NOTE   
[25] Ecco ancora una prova della distinzione dei due Priorati, quello di Porta Santa (di giuspatronato della Università) e quello della Cattedrale, distinto dal primo. Difatti, mentre di Porta Santa, in tutto questo tempo, era Priore Antonio Longo, della Cattedrale furono Priori tre di casa Tota, e mai comparisce Priore il Longo. Nel libro delle Persecuzioni del Vescovo Franco comparisce un processo assai ributtante contro questo Longo, Priore di Porta Santa, che per carità verso l’estinto, non riproduciamo!
[26] Tutta questa istoriella è ricavata dal libro delle persecuzioni di Mons. Franco, da pag 830 e seguito - Archivio Capitolare.

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La Duchea d’Andria era intanto già passata nelle mani di Fabrizio III, figlio del perfido Duca Antonio II, morto nel 1622.
Giunto a matura età Fabrizio III, andò sposo a D. Emilia Carafa, dalla quale ebbe tre figli, Antonio, Carlo, ed Ettore. Nel 1630, giovanissimo ancora, Fabrizio III cessava di vivere, succedendo nella Duchea il figlio Antonio III, che seguiva, dopo pochi mesi, il padre nella tomba, succedendogli nel governo della Duchea il fratello Carlo.
Al Vescovo Franco, morto nel 1625, successe, a di I. Marzo del medesimo anno, Mons. Vincenzo Caputo da Ruvo di Puglia, traslato dalla Sede vescovile di S. Severo da Papa Urbano VIII (1623-1644). Di questo Vescovo abbiamo riscontrato notizia nell’Archivio del Collegio dei Cardinali, dell’anno 1603-1625, dove leggesi: Il Cardinal Pietro Maria Borghese: in proximo Concistorio (1625) referam statum Ecclesiæ Andriæ vacant, per obitum Antonii De Franchis, una cum qualitatibus R. P. D. Vincentii Caputi, qui ad illam ex Ecclesia S. Severi est trasferendo.
Al dire dell’Ughelli, Mons. Caputo morì in Andria a dì 3 Marzo dell’anno seguente 1626 [27].
Il Cappelletti dice, invece, che morì nel medesimo anno di sua traslazione, cioè nel 1625 [28].
E, difatti, in questo medesimo anno, troviamo a succedergli Mons. Alessandro Strozzi, preconizzato da Papa Urbano VIII, a dì 24 maggio 1625. Mons. Strozzi apparteneva alla rinomata famiglia patrizia Strozzi di Firenze.
L’ Ughelli scrive di lui, d’ essere stato molto ben amato e stimato per le sue esimie virtù [29].
Questo Vescovo, di nobil sangue e molto apprezzato in Roma, non fu troppo familiare col nostro Capitolo. Egli pretendeva che, quando celebrava messa piana, anche privatamente, tanto in città che fuori, fosse assistito sempre dalle dignità del Capitolo Cattedrale. Il Capitolo, non potendo tollerare tale pretesa del Vescovo, fece ricorso alla S. Cong, dei Riti, la quale, con decreto del I. gennaio 1629, rescrisse: assistentiam, in casu proposito, non deberi Episcopo. Indignato il Vescovo Strozzi contro il Capitolo, che aveva provocato quel Rescritto, maggiormente si ostinò nella sua pretesa, minacciando pene a chi non l’obbedisse! Il Capitolo tornò ad informare la S. Congregazione dell’ostinatezza del Vescovo, e la S. Congregazione stava per emanare un secondo decreto, quando il Cardinale Cesarino, amico intimo del Vescovo Strozzi, e componente la S. Congregazione dei Riti, scrisse al Vescovo la seguente lettera, per dissuaderlo dalla ostinata ed ingiusta pretesa. Riproduciamo quella lettera, della quale trovasi copia nel Libro delle cause, conservato nell’Archivio Capitolare:
«Molto Ill.mo e Rev.mo Signore come fratello,
In quest’ultima Congregazione dei SS. Riti sentii questi miei Rev.mi Ill.mi dolersi che V. S. non sia stato obidito (obbediente) al Decreto, che fu fatto, che i Canonici non siano tenuti d’assistere alla sua Missa privata, e ne volivano scrivere ai detti con particolare lettera ma io operai tanto, di non far scrivere a loro. Ho voluto però avvisarlo a V. S. acciò conosca il mio affetto, e che è bene, ch’obbedisca, come mi persuado, che non mancarà, a quanto direttamente le viene ordinato dalla S. Congregazione. Mentre io mi offro sempre pronto in ogni ordine di suo comando, e me le raccomando con tutto l’animo.
Roma li XXV Agosto 1629. Come fratello aff.mo
Il Cardinal Cesarino».
NOTE   
[27] Ughelli, Italia Sacra, loc. cit.
[28] Cappelletti, loc. cit.
[29] Ughelli, Italia Sacra, loc. cit.

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Sotto il governo di Mons. Strozzi, furono pure suscitate varie liti fra il Capitolo Cattedrale, i Domenicani, ed i Francescani di. Andria, i quali, con le rispettive confraternite del Rosario e del Cordone, in ogni mese facevano le loro Processioni per le pubbliche vie della città, senza alcuna licenza del Capitolo Cattedrale, cui solamente competeva tal diritto, in virtù dell’unica Parrocchialità, di cui godeva su tutta la città. Presentata la lite alla S. Congregazione dei Riti, questa, con decreto del Febbraio 1628, decideva: non licere Regularibus, neque Confraternitatibus laicorum facere processiones nisi intra Claustra Monasterii; carentibus vero claustris, nonnisi intra ambitum, hoc est prope muros Ecclesiæ.
Nel 1629, quarto anno del vescovado di Mons. Strozzi, essendosi nate alcune divergenze nel Capitolo, circa l’ammissione o no, a partecipare alle distribuzioni quotidiane, di quel Canonico, che si assentasse dalla Chiesa, per trattare affari capitolari, il Capitolo ottenne dalla S. Congregazione del Concilio un Rescritto, nel quale era detto, di ammettere alla partecipazione delle distribuzioni quotidiane quel Canonico che fosse assente dalla Chiesa, per evidente utilità o necessità del Capitolo, sia nel trattare affari capitolari, sia nel tutelare i suoi diritti, sia nel sostenere liti e giudizii, sia nell’esigere le sue rendite.
Ecco quei Rescritto:
«Die XI Augusti 1629
Sacra Congregatio Cardinalium Concilii Tridentini Interpretum respondit:
Canonico pro evidenti utilitate, seu necessitate suæ Ecclesiæ absenti, distributiones quotidianas deberi non secus ac si divinis officiis personaliter interesset. Cos. Cardinalis (inintelligibile) Fr. Paulus S. Cong. Con. Segretarius» [30].
Nel 1631, vescovo ancora Mons. Strozzi, varie liti si agitarono fra il nostro Capitolo, le due Collegiate, gli Ordini Religiosi e le Confraternite laicali della città, circa le associazioni dei defunti. Quelle ebbero termine con la seguente sentenza della S. Congregazione dei Riti del 22 Novembre 1631:
1.) Nullo modo licere Regularibus et Præsbyteris sæcularibus levare cadavera defunctorum de domo propria, nisi de licentia et consensu proprii parochi;
2.) Confraternitates laicorum in actu associationis Cadaverorum nullo modo posse erigere Crucem
3) Cadavera defunctorum esse deferenda cum unica tantum Cruce, quæ esse debet illius Ecclesiæ ad quam corpus defuncti defertur, dummodo non interveniat Capitulum Cathedralis, quo casu Crux erit ipsius Cathedralis, sub qua omnes funus associantes incedere debent [31].
Il Vescovo Strozzi occupò per 7 anni la sede vescovile di Andria, trasferito, poscia, a San Miniato in Toscana, il dì 8 Marzo 1632. Causa del suo trasloco fu una contesa, suscitata tra questo Vescovo ed il Duca d’Andria, Carlo Carafa, il quale ereditò tutta la perfidia del nonno, Antonio II Carafa, che fu il martello del santo Vescovo Franco! Questo Duca Carlo Carafa voleva ingerirsi, come i suoi antenati, in tutti gli affari ecclesiastici. In preferenza, pretendeva tenere l’amministrazione dell’Educandato delle giovanette zitelle, detto il Conservatorio, allora sito in quel Palazzo, messo a piè della via detta del Pendio, una volta appartenuto all’antica e nobile famiglia Mione [32].
Avendo saputo il Vescovo Strozzi che il Duca lasciava piena libertà, ai suoi dipendenti, di bazzicare in quell’Educandato di verginelle, reclamò a sé le chiavi di quell’Istituto. Gli uffiziali laici, addetti a quell’Amministrazione, insinuati dal Duca Carlo Carafa, si niegarono a quella consegna. Ma il Vescovo Strozzi, tempra d’acciaio, temendo per la moralità di quelle giovani donzelle, tenne duro, e minacciò di scommunica gli amministratori di quel pio luogo, se fra 24 ore non avessero a lui consegnate le chiavi di quel Conservatorio. Gran chiasso fece quella minaccia in città, alcuni approvando, altri disapprovando l’operato del Vescovo. Ma, mentre da una parte e dall’altra si contendeva, ecco che il Vescovo Strozzi, non si sa come e perché, veniva da Papa Urbano VIII traslocato alla Sede vescovile di S. Miniato in Toscana, e così ogni lite ebbe termine.
NOTE   
[30] Dall’Archivio Capitolare, Libro Cause diverse, pag, 443.
[31] Simili disposizioni furono emanate dalla medesima S. Congregazione dei Riti nel 1636 e nel 1672, come rilevasi dal medesimo libro delle cause, Archivio Capitolare.
[32] Questo palazzo fu poi, in parte proprietà del Capitolo Cattedrale, ed in parte della famiglia De Liso. Accanto ad esso eravi la Cappella di Santa Caterina, la quale serviva per le pratiche religiose di quell’Educandato.

[tratto da “Il Capitolo Cattedrale di Andria e i suoi tempi” di M. Agresti, tipi Rosignoli, Andria, 1912, Vol.I, cap.XI, pagg.223-253]